Antonia Cimini, il Messaggero 20/12/2008, 20 dicembre 2008
TRENT’ANNI FA LE RIFORME VOLUTE DA DENG XIAOPING
PECHINO - «Non c’è verso che la Cina torni indietro», a quegli anni bui in cui tutto era sì di tutti, ma era un tutto fatto di niente. Come il salario dell’operaio Liu Ying alle acciaierie di Pechino, esattamente trenta anni fa: 19 yuan al mese, con cui a stento si sopravviveva fra razionamenti alimentari e dormitori collettivi. Con i 25 mila yuan (circa 2.500 euro) che guadagna all’anno oggi, invece, è riuscito a comprarsi una casa, far studiare informatica al figlio e sta per realizzare l’ultimo sogno di possedere un’auto tutta sua. «In 30 anni ne abbiamo fatti di progressi, ma oggi la vita che sognavamo sembra difficile quasi quanto quella di allora», confida.
Eppure Liu è fra le centinaia di milioni a cui le riforme volute dal piccolo timoniere Deng Xiaoping, questa stessa settimana di fine anno del 1978 al Terzo Plenum dell’Undicesimo Comitato Centrale del Partito Comunista, hanno cambiato la vita. Al grido di «arricchirsi è glorioso» e a spese del collettivismo difeso a tutti i costi da Mao, i cinesi si sono incamminati fiduciosi sulla via dell’economia di mercato socialista un trentennio fa.
«E’ meglio vivere da poveri nel socialismo che da ricchi nel capitalismo», recitava uno slogan della Rivoluzione Culturale, che tutti si affrettarono a sfatare sotto la guida del tre volte purgato Deng. Furono i pionieri come i contadini di Xiaogang ad entrare nella leggenda quali nuovi eroi. Essi per primi abbandonarono il sistema delle comuni agricole: spinti dalla fame, decisero di riprendersi la terra e venderne i prodotti su base familiare. Oppure Li Guixian, la proprietaria del primo ristorante privato di Pechino, che ha aperto i battenti nel 1980 quando i business privati non erano più tacciati di ”residui capitalistici” ma tollerati e incoraggiati.
Da lì è stata tutta una corsa. Prima le zone economiche speciali, poi l’ingresso dei capitalisti nel Partito, fino al riconoscimento della proprietà privata e all’ultima riforma agraria, con cui i contadini conquistano il diritto di disporre della terra. La prova del successo è il Pil che è passato da una crescita negativa del 1,6% del 1976, anno della morte di Mao Zedong, al +11,4% dello scorso anno. Oggi anche fra i redditi più bassi, il 94% delle famiglie cinesi possiede un televisore a colori, l’85% ha un telefonino e il 54% un frigorifero. Conquiste da cui non si tornerà indietro, assicura Hu Jintao nel celebrare la ricorrenza.
Ma non tutto brilla nell’epoca d’oro del capitalismo cinese. Le conseguenze della crisi economica mondiale sono solo l’ultimo male che si abbatte su una società dilaniata dalle disparità e dalle ingiustizie, che rendono vani i successi dei tanti Liu Yin sparsi per la Cina. Le autorità lo ammettono: l’80% della popolazione è preoccupato per l’aumento dei prezzi, il 50% per i salari troppo bassi, il 38% per la disoccupazione e il 36% per l’accesso alla sanità, secondo l’Accademia delle Scienze Sociali. Sebbene il tasso ufficiale di disoccupazione sia del 4%, gli economisti ritengono che nella realtà le cifre siano molto più alte. Basti pensare che nei primi sei mesi di quest’anno 67 mila stabilimenti produttivi hanno chiuso i battenti nella fabbrica del mondo. E 800 mila neolaureati nel 2008 sono senza occupazione e faticheranno sempre più a farsi largo nell’affollato mercato del lavoro cinese.
«Senza la stabilità rischiamo di perdere quanto fatto fino ad ora», ha detto Hu, ma la sfida più grande è quella che aspetta il Partito da domani, quando le celebrazioni ed i grandi discorsi saranno finiti.