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 2008  dicembre 20 Sabato calendario

PERCH LA CINA NON VUOLE NEGOZIARE CON IL DALAI LAMA

Il mese prossimo sarò per la quarantacinquesima volta in Cina negli ultimi 12 anni.
Per l’assidua frequentazione e per aver letto parecchio sulla storia e sulla millenaria cultura cinese credo di poter dire di conoscere abbastanza i cinesi e la loro realtà sociopolitica. Nonostante ciò non riesco a spiegarmi la violenta reazione delle autorità cinesi nei confronti di qualsiasi autorità che si azzardi ad incontrare il Dalai Lama (vedi il recente incontro semiprivato di Sarkozy). In fondo si tratta pur sempre di un leader religioso. Anche se per assurdo un giorno il Tibet dovesse diventare uno Stato democratico indipendente, non sarebbe lui a detenere il potere politico. Perché non ritengono sincero il Dalai Lama quando dice di non volere l’indipendenza del Tibet e quando condanna pubblicamente qualsiasi atto di violenza perpetrato nel nome della supposta causa indipendentista? Come mai gli stessi cinesi che garantiscono una certa autonomia alle varie minoranze etniche presenti all’interno dei confini cinesi sono così rigidi con il Tibet?
Romano Peron
romano.peron@iol.it

Caro Peron,
 certamente vero che il Dalai Lama non chiede l’indipendenza del Tibet, ma la sua autonomia. Ed è altrettanto vero che è molto più moderato e pragmatico di quanto non sia l’ultima generazione dei tibetani in esilio, cresciuti all’estero e decisi ad applicare nel Paese d’origine le strategie che hanno dato buoni risultati nella Serbia di Milosevic, in Ucraina e in Georgia. Colpisce quindi la durezza con cui i cinesi rifiutano il dialogo e lanciano fulmini d’indignazione contro chiunque osi stringere la mano del maggiore leader religioso tibetano. Esiste una possibile spiegazione di quella che sembra a noi una evidente dimostrazione di miopia politica?
 probabile che la diffidenza di Pechino sia dovuta per l’appunto, in primo luogo, alla debolezza del Dalai Lama. I cinesi temono che le sue posizioni, nel corso del negoziato, vengano rapidamente scavalcate da quelle dei gruppi più radicali. A questo primo motivo di diffidenza occorre aggiungere la sua grande popolarità internazionale. Nel grande prestigio di cui gode attraverso il mondo, i cinesi intravedono la minaccia di inaccettabili interferenze straniere. Dopo numerosi viaggi in Cina lei sa certamente, caro Peron, quale sia la sensibilità di un Paese che non ha dimenticato le umiliazioni subite negli anni in cui le grandi potenze decidevano arbitrariamente le sue sorti.
Vi è poi una certa riluttanza cinese ad accettare persino il principio dell’autonomia. Temono che i tibetani, dopo un primo successo, vogliano allargare lo spazio delle loro libertà. E temono in particolare che le concessioni fatte al Tibet contagino altre regioni e rafforzino ad esempio i musulmani del Xinjiang, una regione formalmente autonoma, ma in realtà strettamente controllata da Pechino.
Esiste poi, dietro la questione tibetana, il problema ancora più complicato delle libertà politiche. Il grande sviluppo economico degli ultimi decenni ha creato nuovi ceti sociali che viaggiano, si collegano a internet, sanno ciò che accade nel mondo, hanno nuovi interessi e nuovi bisogni. Il manifesto del 10 dicembre con cui 300 intellettuali, nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, hanno chiesto maggiori libertà, segnala l’esistenza di una dissidenza che osa agire pubblicamente. Le tenaci iniziative dei seguaci del Falun Gong dimostrano che questa dissidenza può avere anche radici religiose e spirituali. La dirigenza del partito discute di questi problemi a porte chiuse, e la corrente dei conservatori sembra essere più forte, per ora, di quella che ritiene giunto il momento di allentare i controlli sulla società. La recessione mondiale e la possibilità di ripercussioni negative sulla crescita cinese hanno ulteriormente rafforzato, d’altro canto, la fazione più autoritaria e conservatrice. Di fronte a una crisi che rischia di creare disagio sociale e proteste popolari, i conservatori non intendono rinunciare minimamente all’autorità dello Stato e del partito. La questione tibetana è diventata in tal modo un ostaggio del più vasto dibattito sul tasso di democrazia che il partito ritiene lecito per il futuro del Paese.