Francesco Moscatelli, la Stampa 20/12/2008, 20 dicembre 2008
LA PUBBLICITA’ L’ANIMA DEL FILM
Un tempo la chiamavano pubblicità occulta. Loghi, marche e prodotti che scorrevano via veloci, fotogramma dopo fotogramma, per entrare dritti dritti nella testa, e nella memoria, degli ignari spettatori. La Coca-Cola, che il marketing non l’ha certo scoperto l’altro ieri, vanta un primato storico: le sue bottiglie sinuose sono comparse per la prima volta in un western, nell’anno di grazia 1926. Tra le aziende che hanno capito le potenzialità di questa pratica, quando i film erano ancora in bianco e nero, non si possono dimenticare nemmeno le multinazionali del tabacco che, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, si contendevano a suon di compensi le labbra di Clark Gable, Gary Cooper e Henry Fonda.
Oggi la pubblicità occulta è uscita alla luce del sole, è stata battezzata «product placement» ed è un’industria che nel mondo fattura 4,4 miliardi di dollari all’anno (dati 2007), senza contare gli scambi in natura tra aziende e produzioni cinematografiche: catering sul set, trasporti aerei, hotel... Una boccata d’ossigeno, sostengono in molti, a un mondo che rischiava il soffocamento. Durante la sesta edizione dell’Ischia film festival, nel giugno scorso, il direttore Michelangelo Messina ha tenuto a battesimo anche la prima competizione europea dedicata alla pubblicità indiretta. I puristi grideranno allo scandalo ma il 10% dei finanziamenti al cinema, oggi come oggi, arriva comunque da qui.
In Italia il «product placement» è legale dal 2004, quando è entrata in vigore la cosiddetta «legge Urbani», ma solo sugli schermi cinematografici. In Tv, nonostante le recenti proteste di Mara Venier e una direttiva europea sull’argomento, si chiama ancora pubblicità occulta. Ed è vietata. «Prima o poi la normativa andrà modificata - spiega Daniele Dalli, docente di Marketing all’università di Pisa e autore con Giacomo Gistri e Pino Borello di ”Marche alla ribalta”, un volume edito da Egea -. Il ”product placement” ormai vanta tecniche raffinate, sceneggiatori specializzati e gode perfino dell’approvazione del pubblico».
Un mercato in piena espansione che in Italia vale circa 36 milioni di dollari (dati 2005) e che in Francia registra performance anche migliori: 56 milioni di dollari. «Uno dei casi di scuola è il cult ”ET” di Spielberg - continua Lalli - Le caramelle Reese’s Pieces, utilizzate in una sequenza chiave, nei mesi successivi hanno aumentato le vendite addirittura del 60%. Ma anche i grandi maestri del nostro cinema se ne sono serviti. Uno dei casi più interessanti è ”La Dolce Vita” di Fellini: analizzato con l’occhio di oggi è evidente la particolare attenzione dedicata ad automobili e beni voluttuari, come sigarette e alcolici».
Da allora il settore ha fatto passi da gigante: la multinazionale della logistica Fed Ex, nel 2000, ha fatto la parte del leone in «Cast Away», con Tom Hanks nel ruolo di novello Robinson Crusoe mentre «Il diavolo veste Prada», celebrava il marchio italiano addirittura nel titolo. «Ormai si parla di brandertainment, un neologismo nato dalla fusione di brand ed entertainment - continua Lalli -. Non sono più i prodotti ad inserirsi nelle sceneggiature, ma le sceneggiature stesse ad essere costruite attorno ai prodotti». Il modello ha successo anche sul web e nei videogames.
In Italia uno dei marchi più attivi è Cameo, presente con le sue torte «Versa e Inforna» nella pellicola «Ho voglia di te», tratta dal romanzo di Federico Moccia. Ma anche Pane degli Angeli, che ha piazzato il suo lievito per dolci nell’ultimo film di Leonardo Pieraccioni: «Una moglie bellissima». «Un product placement è ben fatto quando il marchio svolge una funzione narrativa - spiega Lalli -. I problemi, infatti, nascono dagli scontri fra necessità commerciali ed esigenze artistiche. Un caso noto è quello di ”Caos Calmo”: il protagonista, Nanni Moretti, si è rifiutato categoricamente di inserire la cioccolata Ciobar nel film». Forse Nanni continua a preferire la Nutella.