Il Messaggero, domenica 9 novembre 2009, 9 novembre 2009
Quelle 7 coltellate alla bella tedesca e il pittore che si tradì per cinque milioni di VINCENZO CERAMI - NON è ancora mezzogiorno
Quelle 7 coltellate alla bella tedesca e il pittore che si tradì per cinque milioni di VINCENZO CERAMI - NON è ancora mezzogiorno. Una Fiat 850 con un uomo a bordo lascia una strada di campagna per imboccare la Salaria, all’altezza del chilometro 24.350. Un autotreno giunge a gran velocità. Lo schianto è spaventoso: l’utilitaria va a incastrarsi sotto il camion. Più tardi, dalle lamiere accartocciate della Fiat, i pompieri estraggono un corpo senza vita. quello dell’ex maresciallo dei Carabinieri Renzo Mambrini. Aveva poco più di quarant’anni. Con molta probabilità, il giorno dopo, letta la notizia sui giornali, un altro uomo, tale Guido Pierri, 44 anni, tira un sospiro di sollievo, stappa una bottiglia e brinda alla fine dei suoi incubi. Chi erano l’ex maresciallo e il tizio che aveva le sue ragioni per brindare all’incidente? Di mezzo c’era una donna: Christa Wanninger, una bionda e bellissima tedeschina di 22 anni, con gli occhi verdi come smeraldi, morta ammazzata da sette coltellate il 2 maggio 1963 nel pianerottolo del quarto piano, in via Emilia 81, a Roma. Il maresciallo era una specie di Pat Garrett. Si era messo alle calcagna del Pierri, convinto che fosse lui l’assassino della ragazza tedesca. Lo voleva incastrare a tutti i costi, lo tampinava, raccoglieva indizi, carte processuali, decifrava i documenti, le perizie. L’altro non poteva staccarselo di dosso, sosteneva che era un mitomane, che voleva farsi un nome sulla sua pelle. Eppure il maresciallo era profondamente convinto di essere nel vero. Quando, dopo il processo, il Pierri venne assolto, Mambrini, pur di non lasciare impunito l’assassino, abbandonò l’Arma e da solo, contro tutti, si mise alla caccia del colpevole. «In galera c’è gente per molto meno» diceva. Ma raccontiamo le cose dall’inizio. Sono le 14 e 30. La portiera e un’inquilina stanno tranquillamente parlando davanti al portone di via Emilia 81, a un passo da via Veneto. Giunge la bellissima ragazza tedesca, allegra, un sorriso tra le labbra. Christa prende l’ascensore e sale al quarto piano, dove abita una sua amica, una coetanea austriaca. Le signore stanno lì, ferme, a chiacchierare del più e del meno, quando, pochi momenti dopo, sentono provenire dall’alto, nell’androne del palazzo, delle urla agghiaccianti. Si precipitano su per le scale ed incrociano, che scende quasi di corsa, un giovanotto smilzo, con l’abito blu e la mano sinistra in tasca. Al quarto piano si fermano allibite: Christa Wanninger giace a terra, con la faccia immersa nel sangue e sta rantolando. Muore subito dopo. Si scatena la stampa di tutta Italia. Chi era Christa, chi l’aveva uccisa e perché? La tedeschina era una fotomodella e voleva fare l’attrice. Aveva appena messo piede nella mitica Cinecittà. Piccole parti. Era giovane e disinibita: qualche flirt ma solo un fidanzato, col quale, tra l’altro, si prendeva e si lasciava. La polizia andò subito da lui. E lui cadde dalle nuvole: aveva un alibi da far star zitto il più crudele degli accusatori. Omicidio per rapina? Niente: nella borsetta della ragazza c’era tutto quello che ci doveva essere, soldi compresi. Ben presto fu disegnato l’identikit dell’uomo in blu: alto, magro, appena stempiato, giovane. L’immagine misteriosa, che somigliava a metà della popolazione maschile romana, venne pubblicata su tutti i giornali. Per mesi e mesi non si cavò un ragno dal buco. Allora cominciarono le fantasie: spionaggio, traffico internazionale di armi, vendetta della malavita. L’amica, la povera austriaca, venne perfino arrestata perché non aveva sentito il suono del campanello. Dormiva, tutto qua. Quando la polizia la svegliò, aprì la porta, vide la macchia di sangue per terra, sul pianerottolo, ma non sapeva niente. Prese la notizia con stupore più che con angoscia. Fu interrogato mezzo mondo, tutto il giro dolcevitesco di via Veneto, attori, gente di cinema e industriali playboy. Niente. Passò un anno senza che il minimo indizio potesse orientare concretamente gli inquirenti. Il caso Christa Wanninger stava per essere archiviato. Tra le centinaia di lettere anonime, d’obbligo in casi come questo, giunse alla questura una lettera strana: conteneva un’unghia. «L’ho trovata – diceva la lettera – dentro l’ascensore di via Emilia 81. di Christa Wanninger.» E in effetti era un’unghia di donna. Ma nessuno, lì per lì, dette importanza alla cosa. Un bel giorno, inaspettatamente, quando ormai polizia e carabinieri avevano gettato la spugna e le speranze di trovare l’assassino si erano ridotte al lumicino, ecco suonare il telefono nella redazione di un giornale romano, una voce maschile offre a un giornale, in cambio di cinque milioni, ”sensazionali rivelazioni” sul delitto di via Emilia. Naturalmente all’appuntamento ci vanno anche i carabinieri. Quella voce furbacchiona era di tale Guido Pierri, segretario in una scuola di Roma, nativo di Aversa, pittore dilettante. Era giovane, alto, un po’ stempiato. Gli misero sottosopra la casa e trovarono nell’armadio un abito blu, un coltello da caccia dalla lama lunga, custodito in una tasca e simile a quello che per sette volte aveva trafitto il corpo della ragazza. Ma la cosa più importante su cui gli inquirenti misero le mani, fu un pacchetto di quaderni dove erano annotati, come in un diario, i movimenti dell’assassino, i suoi pensieri, i suoi disegni criminosi. In quei diari si diceva che la ragazza aveva ricevuto la prima coltellata non nel pianerottolo, ma dentro l’ascensore. Ecco quindi che l’unghia ritrovata acquistava un senso preciso. L’uomo fu arrestato. I quaderni lo inchiodavano. C’erano scritti sopra dettagli del delitto conosciuti solo dalla scientifica e mai comparsi sulla stampa. Come faceva il truffatore a conoscere tutte quelle cose? Il Pierri la risposta ce l’aveva: s’era inventato tutto per truffare il giornale e per scrivere un romanzo giallo sul famoso caso della ragazza tedesca assassinata. Si era immedesimato nell’assassino che vedeva come un maniaco sessuale, un impotente. Il personaggio inventato si sceglieva accuratamente la vittima, la seguiva per un po’ e alla fine, all’improvviso, colpiva. Sui diari erano anche indicate altre due ipotetiche vittime. I nomi e gli indirizzi delle ragazze scelte dall’assassino, erano scritti in codice, seguendo i sistemi di un cifrario militare. I carabinieri risolsero subito quel ridicolo rebus. Per la prima vittima era scritto: Sentiero Joseph Ferraiolo 35 B/5. Microgallica. I carabinieri tradussero in questo modo: Sentiero = via; Joseph = Giuseppe; Ferraiolo = Ferrari. Il resto era semplice. Insomma: via Giuseppe Ferrari 35, scala B int. 5. Rimaneva da capire cosa significasse Microgallica. Andarono a quell’indirizzo e si resero conto che vi abitava una signorina canadese, di lingua francese (gallica) piuttosto bassa di statura (micro). Microgallica stava per ”ragazza piccola di lingua francese”. Per l’altra vittima, lo stesso giochetto enigmistico. Si appurò che in effetti il Pierri aveva bussato alla porta delle future accoltellate, con la scusa di chiedere se avevano una stanza da affittare. Non basta. Le due donne che stavano ferme sul portone nel momento del delitto, quando furono convocate, dichiararono che il Pierri sembrava proprio l’uomo in blu. E non basta ancora: quando i giornali avevano pubblicato l’identikit dell’assassino, il giovane era scomparso da Roma, aveva abbandonato il lavoro ed era tornato ad Aversa, dai suoi. Tanti anni dopo, quando ci fu un ulteriore processo, il Pubblico Ministero mostrò alla Corte i disegni del velleitario pittore: erano figure femminili, tutte nude, trafitte da pugnali, aculei, stiletti e unghie lunghissime. Pierri si difese dicendo che si trattava di studi tematici della sua arte. Malgrado tutto, la Corte decise per l’insufficienza di prove. Pierri venne scarcerato e restituito alle sue fantasie artistiche. Tutto sembrava chiuso e risolto. Ma a una sola persona la cosa non andò giù, al maresciallo dei Carabinieri Renzo Mambrini. Il quale restituì la divisa all’Arma e si mise per suo conto alle costole del pittore. Un’impresa che gli costò mille guai. Tanto fece e tanto brigò che riuscì, dopo anni, a fare riaprire il caso. Purtroppo sei mesi dopo aver finalmente incastrato l’assassino, il maresciallo imboccando con la sua macchina la Salaria, fu investito da un camion e morì. Ma il processo aveva ripreso a camminare. Il giudizio finale, arrivato dopo più di vent’anni per la pesantezza e l’ignavia degli apparati giudiziari italiani, stabilì che l’uomo in blu era effettivamente Guido Pierri. Era stato lui ad uccidere Christa Wanninger, senz’altro movente che la pazzia. Fu ritenuto incapace di intendere e di volere nel momento in cui concepì e consumò l’orrendo delitto. Ma dopo un quarto di secolo, i giudici avevano davanti un uomo trasformato, con una diabolica barbetta sotto il mento, mite come un agnellino. Non lo mandarono neanche al manicomio criminale. All’ex maresciallo dei Carabinieri Renzo Mambrini non dettero neanche uno straccio di medaglia. Il vero, grande mistero di questo delitto assurdo, sta in questa domanda: come mai l’assassino si mise da solo il cappio intorno al collo facendo quella telefonata al giornale? Perché volle uscire dall’ombra e mettersi allo scoperto? Rispondere che era pazzo è troppo semplice e ovvio. Ma si può azzardare un’ipotesi interessante. Pierri era sposato con una donna più anziana di lui di ben 19 anni, quasi una madre. Da qui si arguisce una certa forma d’infantilismo nel suo carattere. Suo padre – e qui viene fuori l’interessante – era stato Cancelliere Capo, dirigente della pretura di Tivoli, un uomo di legge, che aveva passato la vita nei tribunali. Nel sogno segreto del ragazzino rimasto nel corpo del Guido Pierri adulto, viveva la speranza di entrare da protagonista dentro un tribunale, dentro il mondo del padre. Perché questo? Per bisogno d’affetto, per vedere se il padre gli voleva bene e se era capace di tirarlo fuori. Insieme una sfida, una punizione e una prova d’amore. Il padre, infatti, si adoperò molto per salvare il figlio dall’ergastolo: una tortura che gli spaccava il cuore. Molti bambini rubano la cioccolata non per gola ma per essere rimproverati dai genitori. Un rimprovero è sempre un segno d’interesse. E chi sa quante volte il padre rimproverò il figlio durante tutti quegli anni. Insomma: il maniaco che era in lui, il suo modo infantile, maniacale e sadico di vedere la donna, spinsero il giovane ad uccidere Christa Wanninger. La sua puerilità, legata al rapporto conflittuale col padre, gli fece fare quella telefonata suicida al giornale.