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 2008  luglio 02 Mercoledì calendario

Arthur Koestler, l’autore nato a Budapest e scomparso nel 1983, residente in molti Paesi e scrittore in più lingue, una volta disse che esiste il nazionalismo, ma anche il nazionalismo del calcio, e che le emozioni suscitate da quest’ultimo sono di gran lunga le più coinvolgenti

Arthur Koestler, l’autore nato a Budapest e scomparso nel 1983, residente in molti Paesi e scrittore in più lingue, una volta disse che esiste il nazionalismo, ma anche il nazionalismo del calcio, e che le emozioni suscitate da quest’ultimo sono di gran lunga le più coinvolgenti. Koestler stesso, benché fiero e fedele cittadino britannico, rimase per tutta la vita un acceso tifoso del calcio ungherese. Per diverse settimane quest’ estate, gli stadi di Austria e Svizzera, per non parlare delle strade delle capitali europee, da Madrid a Mosca, sono state invase da tifosi ebbri di patriottismo, tra lo sventolio di bandiere, cori possenti e il rullar dei tamburi. La vittoria della Spagna è stata una di quelle rare occasioni in cui catalani, castigliani, baschi e andalusi si sono abbracciati in un’esplosione unanime di giubilo patriottico. Il calcio, più di qualunque altro sport, si nutre di emozioni tribali: l’agonismo collettivo, la maglia della squadra, la velocità, l’aggressività fisica. Come ha detto un celebre allenatore olandese, e non scherzava: «Il calcio è una guerra». Non era certo nelle intenzioni di questo sport, tuttavia. Dopo due conflitti mondiali, le manifestazioni di fervore nazionalistico sono divenute pressoché tabù in tutta Europa. Il nazionalismo è stato accusato di aver quasi annientato il continente per ben due volte nel ventesimo secolo. L’esaltazione patriottica, specie se abbinata all’orgoglio guerriero – sentimenti ancora oggi del tutto normali negli Stati Uniti – per lungo tempo è stata imputata dei peggiori massacri. Gli inglesi, dal canto loro, scampati all’occupazione straniera, e tuttora convinti di aver vinto la Seconda guerra mondiale da soli (beh, sì, una mano gliel’hanno data gli yankees), sfoggiano ancora una certa vena militaristica. Ma sono un’eccezione. Di qui, forse, la famigerata aggressività dei tifosi inglesi. Eppure, benché i sentimenti nazionalistici siano stati soppressi nella società civile in tutta Europa, i campi di calcio sono rimasti cocciutamente ancorati a un mondo anteriore alla Seconda guerra mondiale. Negli stadi si dà pieno sfogo alle emozioni tribali non più consentite. Queste emozioni possono essere festive, addirittura carnevalesche, come è accaduto in occasione dei mondiali del 2008, ma nascondono elementi più oscuri, più violenti, specie quando la competizione sportiva si tinge di ricordi storici. Le partite tra Olanda e Germania, per esempio, oppure Germania e Polonia, fino a poco tempo fa somigliavano a una messinscena della guerra: o come malinconiche ripetizioni della sconfitta bellica, nella maggior parte dei casi, oppure come la tanto sospirata rivincita. Quando l’Olanda sconfisse la Germania nelle semifinali del campionato europeo del 1988, sembrava che finalmente fosse stata fatta giustizia. Nelle strade di Amsterdam quella notte si riversò una marea di gente per festeggiare la vittoria, più di quando il Paese fu effettivamente liberato nel maggio del 1945. Le emozioni tribali dei tedeschi erano considerate, per ovvie ragioni, particolarmente temibili dopo la caduta del Reich hitleriano, e questo spiega come mai sventolare bandiere tedesche, fino a tempi recenti, era consentito con una certa castigata moderazione, totalmente assente nei Paesi confinanti. Eppure, nemmeno i tedeschi riescono a reprimere le loro emozioni. Gli anziani ricordano ancora la celebre vittoria contro una splendida nazionale ungherese nel 1954. Per la prima volta, dalla loro devastante sconfitta bellica, i tedeschi potevano concedersi il lusso di sentirsi orgogliosi di se stessi. Come ogni cosa, anche le forme di patriottismo mutano con i tempi. Sono assai diversi i motivi sui quali si fonda l’orgoglio nazionale. Quando la Francia vinse la Coppa del mondo nel 1998, i francesi si affrettarono a sottolineare la diversità etnica della loro squadra. La loro stella, Zinedine Zidane, era di origini algerine. Altri giocatori avevano radici in varie regioni d’Africa. Il carattere multietnico dei campioni del 1998 venne ampiamente pubblicizzato come segnale, non di un lungo e spesso sanguinoso passato coloniale, bensì di una superiorità nazionale scaturita dalla tolleranza ispirata dall’Illuminismo. In realtà, i francesi per un certo verso hanno anticipato i tempi, perché qualcosa sta effettivamente cambiando nel cuore profondo dell’Europa, lentamente, dolorosamente, ma senza possibilità di fare marcia indietro. Se la diversità etnica è sempre più visibile nelle squadre nazionali, essa appare ancor più marcata nei club. I club spesso esigevano fedeltà tribale lungo linee etniche o religiose: i club irlandesi contro quelli ebraici a Londra, per esempio, oppure i club protestanti contro i club cattolici a Glasgow. Chi poteva immaginare trent’anni fa che i tifosi inglesi avrebbero osannato una squadra londinese piena di africani, sudamericani e spagnoli, allenati da un francese? O che la nazionale inglese sarebbe stata gestita da un mister italiano? La diversità etnica e culturale, tuttavia, non è l’unico segnale di cambiamento nel calcio europeo. Personalmente non ho mai visto tanta armonia tra i sostenitori di diverse nazioni come nei campionati di quest’anno. Forse per l’assenza dell’Inghilterra, tra i cui tifosi militano le ultime brigate di guerrieri dilettanti. Lo spirito pacifico e festoso che ha prevalso, lo sventolio di bandiere turche e tedesche, le une accanto alle altre, per le strade delle città in Germania, quando le due nazioni si sono affrontate nelle semifinali, i festeggiamenti congiunti, spagnoli e tedeschi, dopo la finale, tutto questo suggerisce qualcosa di nuovo. Non che i sentimenti nazionalistici stiano scomparendo, pur nella nascita di un nuovo spirito europeo. Ma almeno le identità nazionali in Europa non sono più condizionate dai ricordi di guerra. Nessuno se la prende più se vince la Germania, e questo accade spesso. I tedeschi sono diventati simpatici e non suscitano più reazioni avverse. Eppure… eppure devo confessare di non essere riuscito a reprimere una sottile, ma intensa, sensazione di piacere quando la Germania ha perso. Forse perché la Spagna ha giocato un calcio più emozionante. O forse perché non posso nascondere la mia età. traduzione di Rita Baldassarre