www.repubblica.it 2/7/2008, 2 luglio 2008
Si è fatta dura la lotta politica, nel Nord. Fra avversari e fra amici. Senza distinzione. Tanto più dopo il successo della Lega alle recenti elezioni, alle quali ha ottenuto il 18% nel Nordovest e il 22% nel Nordest (esclusa l’Emilia Romagna)
Si è fatta dura la lotta politica, nel Nord. Fra avversari e fra amici. Senza distinzione. Tanto più dopo il successo della Lega alle recenti elezioni, alle quali ha ottenuto il 18% nel Nordovest e il 22% nel Nordest (esclusa l’Emilia Romagna). Agitando l’identità nordista, in aperto contrasto con quella nazionale. Ma anche - e soprattutto - con quella urbana e regionale. I concorrenti di Bossi e della Lega, infatti, non sono i partiti e i politici "romani". Ma, piuttosto, i sindaci e i governatori. 1) Anzitutto, i presidenti di Regione - in particolare del Veneto e della Lombardia. Insieme alla Sicilia, roccaforti del centrodestra e di Forza Italia. Ma anche della Lega (27% in Veneto e 22% in Lombardia). In altri termini: Giancarlo Galan e Roberto Formigoni, esponenti atipici - o forse molto specifici - di Forza Italia. Perché dotati di una autonoma capacità di rappresentanza. Formigoni: salde radici e profonde nell’esperienza di CL, fondatore del Movimento Popolare; legami solidi, quindi, con la Compagnia delle Opere. Galan, inventore di una singolare miscela di istinti localisti e liberisti, a metà fra Lega e Forza Italia; definita, non a caso, "forzaleghismo". Entrambi interpreti - per quanto con stili e culture molto differenti - di un modello di rappresentanza territoriale "oltre i partiti". Anche perché il partito a cui essi fanno riferimento - Forza Italia - è molto fragile e fluido, dal punto di vista dell’organizzazione e dell’identità. Per questo motivo, entrambi alla ricerca di tradurre diversamente il loro ruolo politico. Galan, medita da tempo di costruire un vero e proprio partito regionalista: Forza Veneto. Ispirato, ancora dieci anni fa, da Giorgio Lago. Insegue l’esempio illustre del Partito Popolare bavarese (la CSU). Come ha rivelato nell’interessante e stimolante dialogo con Paolo Possamai, dal titolo esplicito: "Il Nordest sono io" (edito da Marsilio). Formigoni, invece, ha cercato di trasferire in ambito nazionale l’esperienza maturata durante il governo regionale. Con risultati discussi ma significativi. In fase di formazione del governo Berlusconi, dopo il recente voto di aprile, si è proposto come ministro, con l’ambizione di divenire il leader - o, quantomeno, "un" leader nazionale - del centrodestra. Per candidarsi alla successione di Silvio Berlusconi. Ma soprattutto per issare il vessillo lombardo a Roma. Facendo il paio con i precedenti della Lega e di Berlusconi. La cui vittoria, nel 1994, aveva segnato la "discesa" del Nord e di Milano a Roma. Da ciò l’insofferenza di Bossi e della Lega, ma anche della leadership di Forza Italia, nei confronti dei due governatori. Da ciò il veto alla nomina ministeriale di Formigoni. "Costretto" a rimanere in Lombardia, per non disturbare la cerchia romana del PdL; per non lasciare spazio alla Lega, in ambito regionale; e per non minacciarne il ruolo a Roma. Da ciò, ancora, la crescente contestazione verso Galan, in Veneto: da parte della Lega, che ne vorrebbe occupare il ruolo, al più presto; da parte della maggioranza del gruppo dirigente regionale di Forza Italia e, ora, del PdL, che ne soffre l’esuberanza, l’arroganza. Il metodo decisionale: totalmente autocentrico e personalizzato. Da presidente di un partito presidenzial-regionalista. 2) Diversa - e, per molti versi, più difficile- la posizione dei sindaci. Soprattutto di centrosinistra. Pensiamo, in particolare, a Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, e a Sergio Chiamparino, sindaco di Torino. Militanti della "questione settentrionale". Determinati e conflittuali all’interno del loro stesso partito. Attivi nel rivendicare autonomia e risorse non tanto alle "loro" città, ma alle "Città" in quanto tali. Ai "comuni", come primo riferimento del federalismo, in coerenza con la storia e con la tradizione italiana. Certo, non tutti i sindaci del Nord sono di Centrosinistra, tuttavia, è vero che il peso del centrosinistra, nelle amministrazioni di quest’area, è rilevante; soprattutto nelle città medie e grandi. Il Pd, non a caso, nel disastro delle recenti elezioni, si è, comunque, imposto come primo partito in gran parte dei capoluoghi di provincia del Nord. I cui sindaci, tuttavia, si trovano ad agire in una posizione assai scomoda. Guardati con diffidenza e, talora, con aperta insofferenza da diversi attori, a diverso livello. a) Dalla Lega: perché sono di sinistra; perché sono visti come "concorrenti", più che alleati, in quanto sostengono l’autonomia e gli interessi delle città di fronte a Roma; ma anche di fronte alle Regioni e al mito del Nord padano. b) Dai governatori delle Regioni, accusati, dai sindaci, di neocentralismo. Perché tendono ad allargare i controlli sulle politiche territoriali. E ad affermare il loro ruolo di principali, anzi: unici referenti dello Stato. Primo e ultimo luogo del federalismo. Anche così si spiega il progetto di Berlusconi e del PdL, lanciato in dalla campagna elettorale, di abolire l’ICI. Provvedimento indubbiamente popolare (a chi spiace la prospettiva di pagare meno tasse?), ma sicuramente centralista e irrispettoso delle competenze e dei poteri comunali. Quanto di più antifederalista, insomma. Difficile definire diversamente la decisione dello Stato di intervenire su una materia fiscale autonomamente deliberata e direttamente gestita dai comuni. I quali, così, si vedono ridurre le risorse e i poteri. Tuttavia, il prezzo "politico", oltre che concreto, in questo caso si scarica su figure e ambienti prevalentemente di centrosinistra. Perché mai se ne dovrebbe preoccupare il governo di centrodestra? c) Infine, i sindaci di centrosinistra del Nord - Cacciari e Chiamparino, ma anche Zanonato, Variati e tanti altri - debbono fare i conti con i problemi interni al loro stesso mondo. Al centrosinistra. Che non ha mai mostrato grande sensibilità per il federalismo (come ha osservato di recente l’economista Giancarlo Corò). Salvo che in momenti critici, per reagire all’avanzata leghista e ai successi del centrodestra. Quando, puntualmente, si è levato alto il lamento sulla distanza fra il centrosinistra e il Nord. Larga, almeno quanto il distacco da Roma a Milano, oppure a Torino e Venezia. Perché la capitale del centrosinistra, nella seconda Repubblica, nonostante il disastro alle recenti elezioni comunali, resta Roma. Insieme a Bologna. Per rendersene conto, basta osservare quale spazio e quale peso abbiano avuto, fino ad oggi, i sindaci del Nord (passati, presenti e futuri) nei governi, ma anche nei gruppi dirigenti dei partiti di centrosinistra. Poco, ci sembra. Ma siamo, forse, ottimisti. Per questo, oggi, i sindaci e i governatori del Nord oggi appaiono in difficoltà crescente. Assediati dagli avversari e dagli alleati politici. Da nemici e amici. In conflitto con i poteri centrali, ma anche fra loro. Nonostante tutti i leader politici e di governo parlino un giorno sì e l’altro anche di "questione settentrionale". O forse no: proprio per questo. Perché il Nord, più che un territorio, è diventato un mito. Più che una società, un feticcio. Una bandiera da agitare in campagna elettorale e nella lotta politica quotidiana. Ciascuno per sé e contro tutti gli altri. Troppe bandiere e troppe voci per un solo Nord. Rischiano di occultarlo in una penombra brumosa e frusciante. Il "male del Nord" è un male incurabile. Perché sono in troppi a volerlo curare. Perché in troppi resterebbero senza lavoro se il Nord guarisse davvero. (2 luglio 2008)