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 2008  luglio 01 Martedì calendario

ARAGONS SUAREZ José Luis Hortaleza (Spagna) 28 luglio 1938. Ex calciatore, con l’Atlético Madrid fu nel 1974 finalista in Coppa dei Campioni (sconfitta contro il Bayern di Monaco nella ripetizione)

ARAGONS SUAREZ José Luis Hortaleza (Spagna) 28 luglio 1938. Ex calciatore, con l’Atlético Madrid fu nel 1974 finalista in Coppa dei Campioni (sconfitta contro il Bayern di Monaco nella ripetizione). Allenatore, nel 1986 condusse lo stesso Atlético Madrid alla finale di coppa delle Coppe (persa con la Dinamo Kiev), nel 2008 ha vinto con la Spagna il titolo europeo • «C’è una foto straordinaria del dopo finale. Il re di Spagna Juan Carlos di Borbone abbraccia José Luis Aragones Suarez. L’allenatore invece gli sta spiegando qualcosa. Il Re è nato il 5 gennaio del 1938, l’ex c.t. della Spagna il 28 luglio dello stesso anno. Eppure il re sembra suo figlio. Forse Aragones sta spiegando a Juan Carlos che, se la Spagna è campeon, lo deve al fatto che lui è così, che viene da un posto, Hortaleza, alla periferia di Madrid, dove ”de mierda” si usa come da un’altra parte userebbero ”caro”. Forse sta spiegando al Re che, se la Spagna ha vinto, c’è molto del suo metodo, aspro nell’aspetto, brillante nella sostanza. Forse gli sta spiegando che il segreto del successo spagnolo è la sua giovinezza mentale. Luis Aragones, che i suoi giocatori chiamano ”Opa”, nonno, non si è mai vergognato di se stesso. ”Io dico più spesso vaffanculo di buongiorno”. Preferisce la tuta alla divisa, i radi capelli bianchi sono sempre spettinati. Al chewing-gum, che è il rimedio di tanti suoi colleghi al divieto di fumare in campo, preferisce una cicca. Era un centrocampista difensivo che eccelleva nelle punizioni, non per niente lo chiamavano ”Zapatones”, stivaloni. Correva come un trattore. Quando, sbarcato a Dortmund con la Spagna, ai Mondiali del 2006, una gentile signorina gli regalò un mazzo di fiori gialli (colore ritenuto iellato), li infilò direttamente in un cestino dei rifiuti. Luis, però, è un abile stratega, giovane tra i giovani. Ha imposto ai suoi giocatori, a furia di urlacci, la filosofia del ”toque”, del passaggio breve, rapido, del possesso palla senza interruzioni. La lezione degli ottavi del Mondiale 2006, quando i suoi ragazzi vennero travolti da Vieira e dai mastini francesi, ha portato a questi schemi adatti a interpreti disposti al sacrificio, alla duttilità, all’interscambiabilità: ”Se hai davanti uno più grosso, aggiralo”. Risultato? ”La vittoria nella vittoria è che la Spagna è stata presa ad esempio di come il calcio dovrebbe essere giocato”. Un allenatore ruvido, che sorride raramente anche quando vince, ma moderno nelle idee, al punto da prendere spunto dal metodo del suo amico Pepu Hernandez, coach della Spagna campione del mondo di basket del 2006, che viene, come lui, dalla periferia, dalla città satellite di Canillejas, separata da Hortaleza dalla Nazionale 2. Pepu diceva: ”Io lavoro con delle persone, non con dei giocatori”. Luis Aragones ha fatto lo stesso. Ha inciso sul gruppo: spirito, mentalità, briglie sciolte. [...] concedeva un giorno libero dopo le partite, ma senza coprifuoco: potevano rientrare o non rientrare in hotel. [...]» (Roberto Perrone, ”Corriere della Sera” 1/7/2008) • Nel 2004 grandi polemiche per un insulto al calciatore francese Thierry Henry: « [...] Negro sarà un aggettivo e basta, va bene. Però negro di merda insomma. Anche se [...] sei una leggenda del calcio nazionale, anche se hai giocato 11 anni nell’Atletico Madrid e hai vinto tre campionati, anche se hai segnato quel gol contro il Bayern in finale di Coppa dei Campioni. Anche se hai allenato otto squadre diverse, l’Atletico varie volte, 757 presenze in panchina e non c’è in Spagna un altro come te. Ecco, anche se sei l’allenatore della Nazionale e sei nato a Hortaleza dove nei campi si dice negro per dire negro: ok, però negro di merda insomma. Anche perché poi succede che per un mese le curve urlino ”negro” e ”scimmia” e facciano "bu bu bu" il verso del babbuino a tutti i neri in campo, e se sono neri inglesi scatta l’incidente diplomatico, e poi tutti dicono che è colpa tua che sei il primo dei razzisti. Persino i tifosi del Getafe si sentono autorizzati a urlare negro di merda a Samuel Eto’o, il senegalese del Barcellona, tanto l’hai detto prima tu. [...] ”[...] Io stavo parlando con un mio giocatore, in allenamento. Parlavo con Reyes”. [...] ha detto a Reyes: ”Al negro digli che giochi da solo. Digli: negro, sono meglio di te. Digli: me cago en su puta madre negro de mierda. Sono meglio di te”. Il negro di merda era Thierry Henry. Gli inglesi non l’hanno presa bene. ”Ma che significa? Io facevo il mio lavoro, parlavo con un mio giocatore di un suo compagno, lo saprò io come fare, o no? Potrò usare in privato il linguaggio che voglio, o no? Se poi c’era lì un giornalista che era dove non doveva essere di chi è la colpa? Io sono amico dei negri, e dei gialli e dei rossi. Ho girato il mondo, ho vissuto con loro. Stavo parlando con un mio giocatore, che tra l’altro è gitano. Sono amico anche degli zingari [...] Ho allenato negri, jugoslavi, bianchi, gialli e blu. Con tanti ci sentiamo a distanza di anni, siamo amici. Altri paesi hanno il problema del razzismo. La Spagna no. Noi siamo arabi. Ci siamo mescolati con tutte le razze: mori, celti, italici. Siamo andati emigranti in Germania, in Sudamerica. Abbiamo patito il razzismo altrui, noi non lo siamo. Poi certo, io con un mio giocatore mi esprimo come mi pare: c’è un argot calcistico condiviso. Non siamo all’Accademia della lingua, in campo. Nemmeno in allenamento. In allenamento sono a casa mia [...] Non mi dimetto nemmeno in cartolina. Sono tranquillissimo. I miei figli hanno amici negri. A casa mia si dice negro, io parlo così, poi con quelli come Eto’o ci mangio e ci dormo insieme”. Una volta gli ha anche dato uno schiaffo, a Eto’o, quando era un ragazzino del Mallorca. ”Non me lo ricordo. L’avrò fatto per una buona ragione, era molto mosso il negrito. Se fosse stato bianco o verde gliel’avrei dato lo stesso. Avrei detto verdito, in questo caso: so riconoscere i colori”» (Concita De Gregorio, ”la Repubblica” 6/12/2004) • «[...] Il giallo gli dà in testa, lo spaventa, al suo primo giorno da selezionatore della Spagna, a Tenerife, si è rinchiuso negli spogliatoi e ha preteso che venissero tolti i birilli gialli che dividevano il campo prima di uscire, quando allenava l’Atletico Madrid ha fatto cambiare la divisa (in parte gialla) agli impiegati del centro sportivo. Luis Aragones segue la cabala e secondo la mistica ebraica il giallo è il colore dello zolfo, del diavolo, una tinta che si porta dietro sciagura e che lo Zapatones, come chiamavano Aragones quando giocava, non sopporta. Per la cabala ermetica, in più, Giuda era vestito di giallo la sera dell’ultima cena e in questa versione il colore gronda falsità, avverte di un tradimento. [...] Quando dopo una carriera da attaccante, specialista in punizioni è passato alla panchina dell’Atletico Madrid lo hanno ribattezzato ”il saggio di Hortaleza”. Usava frasi essenziali e senza scampo, recitava le formazioni sempre con una certa solennità, ma il saggio ha già dato segni di squilibrio. [...]» (’La Stampa” 26/5/2006) • «In Spagna, Luis Aragonés (anzi: Luis) è un’autentica istituzione. Una brillante carriera come calciatore, trascorsa quasi per intero all’Atlético Madrid, dove tra il 1964 e il 1975 ha conquistato tre campionati e una storica finale di Coppa dei Campioni contro il Bayern, persa nella ripetizione dopo che al primo tentativo il gol biancorosso (proprio di Luis) era stato neutralizzato solo al ”94 da Schwarzenbeck. però in panchina che Luis è diventato una leggenda, allenando otto squadre diverse in prima divisione (e l’Atlético a più riprese) e segnando con 757 presenze un record inarrivabile per tutti i suoi colleghi. Una specie di Mazzone iberico, insomma: altrettanto naïf e altrettanto sanguigno. [...]» (Andrea De Benedetti, ”il manifesto” 10/10/2004).