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 2008  giugno 27 Venerdì calendario

TREVI Mario

TREVI Mario Ancona 3 aprile 1924 (in un’intervista a Repubblica precisò: «[...] sebbene ufficialmente fossi nato il 3 aprile, mio padre temo avesse sbagliato giorno [...]»), 31 marzo 2011. Psicoanalista • «[...] uno dei grandi psicoanalisti italiani. Le cronache lo definiscono di scuola junghiana. [...] Ha una moglie e una figlia - due psichiatre - e un figlio, Emanuele, che è un noto e bravo scrittore. Anni fa, padre e figlio diedero vita a una bellissima conversazione, che poi divenne un libro (Invasioni controllate, Castelvecchi). [...] “Ho avuto Emanuele a 42 anni e lui, quando è diventato adulto mi ha spesso vissuto come il vecchio padre da proteggere. [...] Sono nato ad Ancona, mia madre era una langarola. Ricordo la casa della nonna materna, un palazzotto che ereditammo, non so come, dal quale si vedevano tutte le Alpi. Mio padre era ingegnere. Aveva lavorato in Africa e fu fatto prigioniero dagli inglesi durante la guerra. Morì poco dopo il suo ritorno ad Ancona. La vita per noi, si complicò. Diventammo poveri, anche in seguito alle leggi razziali. Studiavo e mi mantenevo con i lavori più umili. Mi laureai a Bologna, in filosofia con una tesi su Berdjaev. Ricordo che i miei amici mi prendevano in giro dicendomi: come fai ad occuparti di Berdjaev e insieme ad essere iscritto al partito comunista?”. Berdjaev era un intellettuale russo che Lenin cacciò via dopo la rivoluzione. [...] “Semplicemente uscendo dal partito nel 1948. Cominciava a infastidirmi la versione edulcorata dell’educazione marxista su come si dovevano leggere i libri. Erano le direttive di Zdanov [...] Continuavo a lavorare e a studiare. Ebbi la fortuna a un certo punto di essere trasferito a Roma in un ufficio di carattere finanziario. Ricordo che stabilii un patto con il direttore: avrei prodotto lo stesso lavoro degli altri colleghi in un tempo più breve, dedicando il resto della giornata lavorativa a quello che volevo. Fu un accordo segreto e intelligente. Poi, mi pare nel 1964-65, ci fu un concorso per insegnare nei licei e lo vinsi. Girai in varie scuole d’Italia, l’ultima fu a Formia. Facevo tutti i giorni avanti e indietro con Roma [...] Nei primi anni romani frequentavo un gruppo di amici, tutti più o meno contagiati da Freud e Jung. E col tempo mi accorsi di patire nei loro riguardi una sorta di nevrosi di adattamento. Sentii parlare di uno psicologo ebreo tedesco, un certo Ernst Bernhard, che era riuscito a sfuggire a Hitler e si era rifugiato in Italia. Dove in seguito fu rinchiuso in un campo di concentramento. Quando finì la guerra Bernhard si stabilì definitivamente nel nostro paese. La sua storia mi incuriosiva [...] andai a trovarlo. Abitava in una casa meravigliosa dalle parti di San Luigi dei Francesi. E fin dal primo momento sentii in lui una personalità paterna. Stetti in analisi per tre anni. Poi, grazie anche al consiglio di un’amica, gli chiesi se accettava di prendermi per un’analisi didattica e fu così che intrapresi la professione di psicoanalista [...] Bernhard era dotato di un’intuizione formidabile. Credo che questo affascinasse le persone dotate di talento artistico. Io divenni amico di Fellini negli ultimi anni della sua vita. Un giorno mi cercò e al momento non ne compresi la ragione. Scherzando mi capitò più volte di chiederglielo. Su questo punto evitava di rispondermi. Poi, ho capito che mi aveva cercato perché ero il più vecchio allievo di Bernhard e lui voleva, attraverso me, assorbire gli ultimi sprazzi di quel mondo e di quella intelligenza [...]”» (“la Repubblica” 29/6/2010) • «Gran personaggio della cultura junghiana, ci ha piacevolmente abituati al suo sguardo aperto, tollerante, profondamente laico nei confronti del mondo e del sapere psicoanalitico che coltiva con la statura indiscussa del teorico e la riconosciuta amabilità del terapeuta: sul piano delle idee come sul terreno impervio della pratica clinica. Da sempre, per lui sembrano non esistere amici e avversari, sono inconcepibili gli steccati di scuole e scuolette, i pensieri rigidi e immutabili: a prevalere è invece un atteggiamento di perenne ricerca, un’attenzione critica a modelli mentali diversi che difficilmente si integrano ma neppure si contrappongono, la considerazione della dignità di ogni essere umano nella sua complessità, nell’imperfezione e nell’inevitabile sofferenza. [...]» (Luciana Sica, “la Repubblica” 27/6/2008).