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 2008  giugno 26 Giovedì calendario

La Stampa, giovedì 26 giugno I giornalisti stranieri non sono ammessi ma, all’aeroporto di Harare, basta presentarsi come turisti interessati ai safari per ottenere subito un visto

La Stampa, giovedì 26 giugno I giornalisti stranieri non sono ammessi ma, all’aeroporto di Harare, basta presentarsi come turisti interessati ai safari per ottenere subito un visto. Inaugurato nel 2001 dal presidente Robert Mugabe, al potere da 28 anni, lo scalo internazionale è ultramoderno e vuoto. Le installazioni sono funzionali, la segnaletica chiara, il traffico è inesistente. Le grandi compagnie stanno alla larga dallo Zimbabwe. Da un anno il Paese è servito soltanto da qualche piccolo vettore sudafricano. Fuori dall’edificio, uomini vestiti di bianco a strisce rosse, pala alla mano, tengono in ordine il prato. Le guardie li controllano da vicino. Sono detenuti. Sul marciapiede di uno dei viali centrali di Harare due biglietti da 100 milioni di dollari sono trascinati dal vento. Nessuno cerca di raccoglierli. Non valgono nulla. Assolutamente nulla. A metà giugno una sigaretta costava 300 milioni di dollari. Per un caffè bisognava sborsare un miliardo di dollari. Senza contare la mancia, meno di 200 milioni è considerato un insulto. I prezzi danzano da un giorno all’altro. Alla fine di giugno il biglietto verde americano valeva 6 miliardi di dollari locali. I biglietti da 100 mila che avevano corso legale nel 2007 sono già un ricordo. Sono stati spazzati via quest’anno da tagli da 10, 50, 100, poi 250 milioni. Da qualche mese circolano speciali «agro cheques» da 5 e 50 miliardi. Presto arriveranno gli «industrial cheques» da 100 o 1000 miliardi. I grandi magazzini Meikles sono una delle attrazioni di Harare. Le colonne eleganti appoggiate sul marciapiede, è un esempio di architettura dell’inizio del Novecento. Con il suo scalone monumentale, anche l’interno è magnifico. vuoto, o quasi; sembra alla vigilia della chiusura. Al piano terra qualche vestito, piatti, prodotti d’artigianato. Nel settore delle scarpe, è il deserto: «In questo momento abbiamo qualche problema di forniture», mormora il responsabile. Tutti i negozi di Harare hanno «problemi di forniture». Il settore dei prodotti freschi è un ricordo. Quello delle bevande lugubre. I clienti vanno verso l’uscita con i cestelli mezzi vuoti. Le casse elettroniche sono moderne, tutte dotate di lettore ottico. Ma ci vuole tempo per pagare perché le cassiere devono contare mazzi di banconote. L’inflazione è del 165 mila per cento all’anno, secondo le statistiche ufficiali. Il controllo dei prezzi ha effetti perversi: una parte della produzione che è sopravvissuta al tracollo economico è venduta per valuta forte all’estero, mentre nella capitale la popolazione stringe la cinghia. La gente si sbarazza il più velocemente possibile del denaro che brucia nelle mani. Solo i ricchi possono investire. I prezzi delle case decollano, come la Borsa. In una settimana l’indice ha guadagnato il 480%. Non ci sono più le file ai distributori di benzina. Ma fare un pieno è un lusso riservato agli automobilisti muniti di dollari americani. Il sistema è semplice. L’automobilista paga con buoni benzina da 20 litri. Ciascun importatore distribuisce i suoi beni nelle sue stazioni. Per ottenerli l’automobilista deve pre-pagare la somma necessaria in dollari americani su un conto bancario - legalmente. Ci si può procurare buoni da grossi consumatori che rivendono quelli che gli avanzano. I quadri delle aziende li ricevono come benefit. Le società forniscono loro anche un’autovettura. Il traffico, fluido, è apprezzabile. Per quelli che non hanno valuta forte il contrabbando è l’unica soluzione. I fuoristrada fanno avanti indietro col Botswana e col Sud Africa. Le file sono sparite dai benzinai ma riappaiono davanti ai supermercati appena viene annunciato l’arrivo di un camion di latte o pane. Carico invece di carburante. Harare si presenta meglio di quanto uno si aspetterebbe. Sui viali puliti gli edifici delle banche si succedono orgogliosi, con la loro architettura audace. Grandi nomi della finanza britannica: Standard Chartered, Barclays Bank… Vicino, numerosi centri commerciali ricordano i Paesi anglosassoni. Le strade pedonali sono piene di gente, come i parchi eredità del passato coloniale. Fuori dal centro, verso nord, ci sono i quartieri residenziali per ricchi, con le loro ville protette come fortezze. Harare non è Johannesburg. I casi di violenza sono rari. La qualità della vita testimoniata dai sette, otto campi dal golf ben tenuti, che accolgono quello che resta della popolazione bianca (10 mila persone su una popolazione del Paese di 13 milioni) e i quadri superiori neri. L’altra faccia della medaglia sono i black out, l’acqua corrente che va e viene, gli ospedali pubblici senza medicine, il degrado delle township, i quartieri popolari. Peter abita in uno di questi. Guardiano di notte in una villa abitata da bianchi, guadagna 10 miliardi al mese. Niente. «Andare al lavoro mi costa 1 miliardo al giorno. Ci rimetto», dice. Sopravvive con il lavoro della moglie, che compra e rivende verdura. «L’ultima volta che abbiamo mangiato carne è stato a Natale, il padrone mi aveva regalato un pezzo di pollo. Siamo il Paese dei miliardari alla fame». Il telegiornale delle 20, sull’unica rete che trasmette, è edificante. Un susseguirsi di servizi sulla campagna del partito al potere, lo Zanu-Pf. La denigrazione dell’avversario, il candidato dell’opposizione Morgan Tsvangirai, non conosce vergogna, il «clima di terrore» creato dal suo partito, l’Mdc, denunciato in continuazione. Le telecamere mostrano scene di defezioni, non si sa se vere o inventate, dei suoi militanti. La stampa scritta non riequilibra certo la situazione. C’è un solo quotidiano, The Herald, controllato dal governo. Sopravvivono a stento, tra minacce e vessazioni, due settimanali d’opposizione, The Standard e lo Zimbabwe Independant. La stampa straniera non circola più da quando Mugabe ha imposto un tassa sull’importazione che ha moltiplicato per otto il prezzo dei giornali. Trudy Stevenson abita in una casetta vicino all’Università, a Ashbrittle, quartiere residenziale di Harare. Deputata dell’opposizione, bianca, fa campagna elettorale per Morgan Tsvangirai. Non dorme più a casa sua. Ha ricevuto minacce al telefono. Dieci giorni fa, ha saputo che era stato ritrovato il corpo carbonizzato della moglie di un suo amico, consigliere municipale nella capitale. La donna - vent’anni - aveva gambe e braccia amputate. Era stata rapita, con il figlioletto, la sera prima a casa sua, da un gruppo di uomini arrivati con due fuoristrada. Il bambino era stato lasciato, sano e salvo, davanti a un posto di polizia. «Ho sempre detto che non lascerò mai lo Zimbabwe. Ma oggi mi chiedo se presto non sarò costretta a partire». Jean-Pierre Tuquoi Copyright Le Monde