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 2008  giugno 25 Mercoledì calendario

Il Messaggero, mercoledì 25 giugno Si è svolta il 23 scorso a Jeddah l’attesissima conferenza sul petrolio, patrocinata dall’Arabia Saudita

Il Messaggero, mercoledì 25 giugno Si è svolta il 23 scorso a Jeddah l’attesissima conferenza sul petrolio, patrocinata dall’Arabia Saudita. Il premier britannico - Gordon Brown, interprete degli auspici dei ministri finanziari del G-8 - sperava di ottenere una riduzione del prezzo del barile. Ha ottenuto solo la promessa che l’Arabia Saudita aumenterà la produzione, con un "caveat" però: che la domanda mondiale rimanga sostenuta. Nella conferenza è stato affermato che l’aumento dei prezzi del petrolio non deriva da un insufficiente rifornimento del mercato, né da incrementi anomali della domanda. I paesi produttori hanno il coltello dalla parte del manico. Hanno dimostrato di saperlo usare. In pratica, hanno rimandato la richiesta di riduzioni al mittente. Il prezzo del barile non diminuirà. I paesi produttori hanno affermato che 130-140 dollari sono del tutto ragionevoli. Stranamente - ma non molto! - gli Stati Uniti sono rimasti taciturni. Sono gli unici a poter fare pressioni sull’Arabia Saudita, ma si sono astenuti dal farlo. La ragione è più che chiara. Hanno bisogno dei Sauditi per stabilizzare il Medio Oriente. Riyad gioca un ruolo essenziale su molti versanti: per il Libano, che hanno recentemente fatto uscire dalla paralisi istituzionale, facendo eleggere come presidente il Capo di Stato Maggiore; per l’Iraq, dove il loro sostegno ai Consigli sunniti del Risveglio è stato determinante per il successo della strategia del generale Petraeus; per la pace fra Israele e la Siria, sponsorizzata dalla Turchia, e per il mantenimento della tregua, accettata da Hamas su pressione egiziana, entrambe effettuate su forte sollecitazione - forse anche finanziaria - saudita. A parte la volontà di non avere problemi con Riyad, c’è da pensare che Washington sia tutto sommato soddisfatta per gli alti prezzi del petrolio. I suoi cittadini ne soffrono. La sua economia meno, come dimostrano i positivi risultati del primo trimestre. Ne soffre invece grandemente l’economia cinese, il che non addolora molto gli americani. Pechino ha deciso la scorsa settimana di aumentare di quasi il 20% il prezzo al consumo dei carburanti. Essi godevano di consistenti agevolazioni finanziarie, tali da convincere le compagnie petrolifere cinesi, su cui venivano caricate, a ridurre la raffinazione in Cina, in modo da contenere le loro perdite. La Cina poi ha grosse difficoltà a controllare l’inflazione, ormai a due cifre. Lo stesso vale per la Russia, il Brasile ed altri paesi emergenti. I vantaggi geoeconomici globali così incassati dagli USA spiegano anche la politica della FED di aumentare la liquidità del mercato. Essa sembra mirata ad una speculazione al ribasso del dollaro. Si avvera così l’affermazione che "il dollaro è la nostra moneta, ma è il vostro problema", un problema cioè per il resto del mondo, specie per l’Europa, ma anche per i paesi con moneta ancorata al dollaro. Ma allora che cosa ha causato un aumento tanto abnorme del prezzo del petrolio? Per prima cosa, occorre notare che il petrolio è in buona compagnia. Gli aumenti riguardano tutte le materie prime, sia minerarie sia agricole. Poiché essi non dipendono dal gioco della domanda e dell’offerta, la spiegazione più semplice e politicamente più confortevole è che essi derivino dalla speculazione. Ma speculazione di chi? Non tanto delle compagnie petrolifere occidentali, che controllano solo il 20% dell’offerta. Forse delle compagnie nazionalizzate dei paesi produttori, che ne controllano il restante 80%. Dipendono poi dalla finanziarizzazione selvaggia di tutte le commodities, su cui si sono rovesciati a massa Hedge Funds e fondi pensioni e di investimento. Mentre la massa degli esperti prevede o un loro ulteriore aumento o il mantenimento dei prezzi attuali del barile, altri prevedono lo scoppio di una bolla petrolifera. Essa potrebbe avvenire per massicci disinvestimenti dal settore, dovuti al fenomeno ben conosciuto teoricamente, ma imprevedibile praticamente, dell’"economia della paura", oppure ad una crisi economica mondiale. Quella asiatica degli anni novanta, riducendo la domanda del 10%, fece crollare il prezzo del barile di quasi il 70%. Tale possibilità sta certamente preoccupando i paesi produttori, soprattutto quelli che dipendono dagli introiti petroliferi per soddisfare le esigenze della vita di ogni giorno, come l’Iran. Il pericolo di un crollo della domanda potrebbe indurre i paesi produttori a ridurre i prezzi. Però, l’esperienza degli ultimi sei anni - in cui il prezzo del barile è più che quintuplicato - dimostra che, nonostante le più fosche previsioni, il temuto crack non si è verificato. I problemi che conosce l’economia mondiale derivano più dalle crisi finanziarie statunitensi che dal prezzo delle materie prime. Non si vede quindi perché i produttori debbano rinunciare alla "manna", piombata su di loro. Se continua, tanto di guadagnato. Se cessa, avranno messo da parte un "tesoretto" che consentirà loro di sopravvivere negli anni delle "vacche magre". Resta da capire da che cosa siano derivati aumenti tanto rilevanti. La risposta non è semplice. Lo dimostra la richiesta fatta al fondo Monetario Internazionale dai ministri finanziari del G-8 nella loro recente riunione a Tokio, di studiare i motivi sia reali che finanziari di un aumento tanto rilevante dei prezzi del petrolio e le sue conseguenze sull’economia mondiale. Nella riunione è stato anche raccomandato ai paesi produttori di adottare misure di maggiore trasparenza. Il mercato petrolifero è infatti uno dei più opachi, anche per l’uso disinvolto delle informazioni sull’entità delle riserve e delle capacità estrattive da parte dei paesi produttori e delle compagnie private. Così alimentano la speculazione e traggono certamente benefici colossali. Questi non possono essere colpiti dalla Robin Hood Tax, ultima geniale trovata del ministro Tremonti. Geniale perché ha polarizzato il dibattito, facilitando così una complessa manovra finanziaria, decisiva per il futuro di tutti gli italiani, ma che avrebbe potuto trovare ostacoli da parte del "fronte del no" e di quello "del non fare". Carlo Jean