Marco Valsania, Il Sole-24 Ore 22/6/2008, pagina 9, 22 giugno 2008
Il Sole-24 Ore, domenica 22 giugno Chi ha tenuto il conto sostiene che siano 935.E soltanto nei due anni precedenti l’invasione
Il Sole-24 Ore, domenica 22 giugno Chi ha tenuto il conto sostiene che siano 935.E soltanto nei due anni precedenti l’invasione. Senza considerare, cioè, la successione di sbagli, o più spesso le menzogne agli occhi dei critici, nei quattro anni successivi. La guerra in Iraq, con tutte le sue tragedie dal 2003 a oggi, quando è misurata con il metro dell’onestà intellettuale e della correttezza delle scelte somiglia, più che all’evento che definisce un’epoca, a una commedia degli errori, voluti o meno: la simbolica cifra di 935 bugie è merito del Center for Public Integrity, think tank forse poco noto ai più ma non per questo meno dedito al suo ruolo di gran controllore del Governo. Da qualche mese il Centro ha creato un vero e proprio sito internet sulla veridicità o meno delle affermazioni dell’amministrazione americana nella marcia verso la guerra. E il responso è imbarazzante: in almeno 532 occasioni sono stati colti in flagrante direttamente il presidente George W. Bush o il suo ministro della Difesa, poi rimpiazzato, Donald Rumsfeld, il vicepresidente Dick Cheney o il segretario di Stato Condoleezza Rice e il suo predecessore Colin Powell. A Bush sono imputate ben 232 affermazioni sull’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, mai trovate. Altre 28 hanno riguardato presunti - e presto screditati - legami tra Baghdad e al-Qaida. Powell ha inanellato 244 dichiarazioni infondate sugli armamenti e dieci sui rapporti con l’organizzazione di Osama bin Laden. Rumsfeld ha totalizzato 109 dichiarazioni sospette, cui aggiungere le 85 di Paul Wolfowitz, il suo ex vice e oggi anche ex presidente della Banca mondiale. La Rice ha 56 macchie sulla sua reputazione, Cheney 48 e l’ex portavoce di Bush, Scott McClellan, 14. Il conto di mancanze e manipolazioni non è isolato. Proprio McClellan ha appena dato alle stampe le sue memorie, primo atto d’accusa contro la Casa Bianca in arrivo da un membro della cerchia più ristretta dei collaboratori di Bush. In What happened denuncia un’amministrazione permeata da una cultura dell’inganno, mobilitata a favore di una «permanente campagna» politica e di una «aggressiva propaganda» per «vendere» il conflitto. Un recente rapporto del Senato ha fatto altrettanto: la Commissione di intelligence della Camera alta ha preso a esempio cinque discorsi di alti esponenti dell’amministrazione e li ha confrontati con le informazioni messe allora a disposizione dai servizi segreti. I funzionari sono Bush, Cheney, Rumsfeld e Powell. La conclusione: tra l’ottobre 2002 e il marzo 2003, mese dell’invasione, la Casa Bianca collegò Saddam Hussein ad al-Qaida, affermò che Baghdad avrebbe potuto fornite arsenali chimici, biologici o nucleari e che l’Iraq stava sviluppando velivoli comandati a distanza per attaccare gli Stati Uniti. Tutto glissando sui forti dubbi espressi su simili "verità" dai servizi segreti, sovente usati dalla Casa Bianca come capro espiatorio per giustificare gli errori. Non manca neppure la continua scoperta di nuove affermazioni da mettere alla berlina: nel settembre 2002 Rumsfeld disse alla Commissione Forze armate del Senato che gli arsenali iracheni erano talmente ben protetti che per distruggerli non bastavano bombardamenti aerei. Solo due mesi dopo il National Intelligence Council affermava invece l’esatto contrario, che simili depositi erano vulnerabili a bombardamenti convenzionali, una tesi che venne nascosta al Congresso. Ma la saga della preparazione e dell’esecuzione delle guerra attraverso la parole dell’amministrazione culmina con il discorso sullo stato dell’Unione di Bush il 28 gennaio 2003. Verso la fine del suo intervento davanti al Paese, il presidente afferma: «La nostra intelligence stima che Saddam possa produrre 500 tonnellate di gas nervino sarin e Vx in grado di mietere migliaia di vittime». Ancora: «Il Governo britannico sa che Saddam ha cercato di ottenere significative quantità di uranio dall’Africa». E continua: «L’intelligence ci dice che ha tentato di comprare tubi di alluminio adatti alla produzione di armi nucleari. E che aiuta e protegge terroristi, tra cui membri di al-Qaida. Segretamente potrebbe fornire una delle sue armi ai terroristi o aiutarli a svilupparle». La minaccia è presto detta: «Se Saddam non si disarma, guideremo una coalizione per disarmarlo». Quel discorso alla nazione riassume la débâcle irachena. I suoi singoli elementi sono stati più volte ripetuti - e smentiti - nella corsa verso il conflitto e dopo. I legami tra Iraq e al-Qaida, con il ricordo ancora fresco degli attentati dell’11 settembre, sono stati oggetto di polemiche fra le più intense. «Abbiamo solide informazioni su contatti ai massimi livelli tra funzionari iracheni e di al-Qaida nell’ultimo decennio»: è la dichiarazione scritta del direttore della Cia George Tenet il 7 ottobre 2002, rilanciata da Bush. Una forzatura dell’intelligence: i servizi americani sapevano solo di contatti casuali agli inizi degli anni 90, che non risultarono in alcun vero rapporto. Nonostante questo, ancora il 6 aprile 2007 Cheney in un’intervista a Rush Limbaugh, re dei talk show radiofonici conservatori, sostenne che «al-Qaida era presente in Iraq prima dell’invasione». Nelle stesse ore, un rapporto del Pentagono indicava che simili legami stretti non esistevano. E Powell, intervistato dalla Abc l’8 settembre 2005, negò a sua volta di aver mai visto prove di simili legami. Le armi di distruzione di massa hanno offerto un terreno altrettanto fertile di affermazioni e smentite. Powell il 5 febbraio 2003, all’ultima seduta cruciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prima del conflitto, sostenne: «Le stime più prudenti indicano che l’Iraq ha una scorta tra le 100 e le 500 tonnellate di sostanze per ordigni chimici, abbastanza per riempire 16mila razzi». Per dar peso al monito, Powell mostrò una fiala di anthrax. Il 16 marzo 2003, a uno dei più ascoltati programmi politici in televisione, Meet the Press di Nbc, Cheney alzò il tiro: «Siamo convinti che Saddam Hussein abbia ricostituito i suoi arsenali nucleari». Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il 30 marzo 2003, dichiarava alla stampa: «Sappiamo dove sono le armi di distruzione di massa. Sono attorno a Tikrit e Baghdad». Ancora: «Abbiamo trovato un laboratorio biologico», disse Bush durante un viaggio in Polonia il primo giugno 2003. Nulla di meno vero. I camper descritti da Bush servivano a gonfiare palloni aerostatici per previsioni atmosferiche. Successive ispezioni americane nell’estate 2003, sotto l’egida dell’Iraq Study Group guidato da David Kay, non trovarono traccia di arsenali. E l’intelligence sospettava già da prima del conflitto che se simili arsenali fossero esistiti sarebbero stati inutilizzabili perché troppo vecchi. Kay si dimise nel gennaio 2004 affermando: credo che «le armi di distruzione di massa non esistono». Sull’uranio per i presunti progetti atomici, inoltre, la Cia aveva già messo in forte dubbio dei documenti che descrivevano un’operazione attraverso il Niger. I servizi segreti avevano mandato a verificare la vicenda l’ambasciatore Joseph Wilson, che il 6 luglio 2003, sul New York Times pubblicò un articolo dal titolo emblematico: «Ciò che non ho trovato in Africa». Da qui nacque un altro scandalo per l’amministrazione: gli sforzi per screditare Wilson portarono a svelare l’identità di sua moglie, Valerie Plame, agente clandestino della Cia. E i tentativi di depistare le indagini sul Ciagate hanno portato alla condanna del capo di staff di Cheney, Scooter Libby. I tubi di alluminio, stando all’Iraq Survey Group, servivano a produrre razzi da 81 mm, non centrifughe per l’uranio. La smentita più clamorosa arrivò sottovoce dallo stesso Powell: nell’intervista alla Abc del settembre 2005, ammise che il suo discorso all’Onu rappresentava una «dolorosa macchia» sulla sua carriera. E il suo ex capo di staff, il colonnello Lawrence Wilkinson, in agosto l’aveva già definito «il momento peggiore della sua vita». I piani di gestione della guerra dopo l’invasione hanno dato adito ad altre escalation di verità sbugiardate. Durante la già citata puntata del marzo 2003 di Meet the Press, Cheney disse di credere davvero che sarebbero stati «salutati come liberatori». Una convinzione decisamente malriposta e che portò a un’altra catastrofe: le insufficienti truppe. Rumsfeld ne fu l’alfiere, sostenne per mesi che sarebbero bastati pochi soldati sul campo. Ma già nel febbraio 2003, un mese prima del conflitto, il generale Eric Shinseki, capo di stato maggiore dell’esercito, lo aveva smentito: davanti al Congresso affermò che sarebbero servite «centinaia di migliaia di soldati». Shinseki venne messo alla porta. Adesso, ormai cacciato Rumsfeld, l’inadeguata pianificazione e insufficiente presenza di truppe per garantire sicurezza e ricostruzione sono unanimamente riconosciute. Sempre Rumsfeld il 18 giugno 2003 definì alla stampa gli attacchi contro le truppe americane né più né meno che l’equivalente della violenza quotidiana in una grande città statunitense. Gli insorti furono descritti come piccole bande senza coordinamento. Una tesi che trovava ancora eco due anni dopo, il 20 giugno 2005, nelle parole di Cheney: l’insurrezione è «agonizzante». La smentita è tutta nelle cifre. Nel 2006 furono 822 i soldati americani uccisi, 902 nel 2007. I conti economici della guerra hanno causato altrettante bufere sulla loro attendibilità. Le spese sono state ampiamente sottostimate: il 31 gennaio 2002 il direttore dell’ufficio di budget della Casa Bianca, Mitch Daniels, aveva calcolato i costi di un eventuale conflitto iracheno tra i 50 e i 60 miliardi di dollari. Nel settembre di quell’anno il consigliere economico Larry Lindsay, colpevole di aver ipotizzato fino a 200 miliardi, era stato costretto a lasciare il posto. Oggi la guerra ha superato i 500 miliardi, in aumento di due miliardi la settimana. Una classifica dei momenti politici più imbarazzanti vede ancora Bush, comandante in capo e presidente, nel ruolo di protagonista assoluto. Un presidente che ancora oggi, reduce dall’ultimo viaggio in Europa a pochi mesi dalla fine del suo mandato, non si lascia andare a "mea culpa": si rimprovera forse un’eccessiva retorica bellica ma non le ragioni del conflitto. Il primo maggio 2003 Bush era atterrato sulla portaerei Abraham Lincoln sotto uno striscione che dichiarava «Mission Accomplished in Iraq», missione compiuta. Bush annunciò in quell’occasione «una vittoria nella guerra al terrorismo» e «la fine dei combattimenti». Con la violenza e il caos solo all’inizio, fu la stessa Casa Bianca a doversi ricredere: sei mesi più tardi sostenne che era stata la marina, senza autorizzazioni presidenziali, a issare lo striscione. L’"insabbiamento" più tragico, per gli americani, spetta invece forse a una piccola saga familiare, quella dei Tillman. Pat Tillman, stella del football americano che rinunciò a una redditizia carriera per arruolarsi, servì in Iraq e morì in Afghanistan nell’aprile del 2004. Il Pentagono raccontò di una morte eroica, mentre dava l’assalto a una collina assieme ai suoi commilitoni. La verità uscì solo a fatica: sei inchieste del Congresso e delle Forze armate hanno accertato che Tillman fu ucciso da fuoco amico. Ma le responsabilità di questo cover up restano da stabilire. La madre, Mary Tillman, ha scritto e pubblicato in maggio un libro, Boots on the Ground by Dusk (Stivali al fronte al tramonto), per chiedere ancora adesso che sia fatta piena luce sulla morte di Pat. Marco Valsania