Paolo Valentino , Corriere della Sera 26/6/2008, pagina 15, 26 giugno 2008
Corriere della Sera, giovedì 26 giugno WASHINGTON – Prima di dimettersi da consigliere di politica estera per aver definito Hillary Clinton un «mostro», Samantha Power aveva lasciato intravedere qualcosa
Corriere della Sera, giovedì 26 giugno WASHINGTON – Prima di dimettersi da consigliere di politica estera per aver definito Hillary Clinton un «mostro», Samantha Power aveva lasciato intravedere qualcosa. «Nel valutare il ritiro dall’Iraq, da presidente, Obama non si farà legare le mani dalle posizioni della campagna, ma avrà a disposizione i rapporti dell’intelligence e dei capi militari», aveva detto, subito smentita, la più fidata dei guru di Barack. Succedeva d’inverno. Le notizie da Bagdad erano ancora in chiaroscuro. Troppo fragile la tregua, inconsistente il governo di al-Maliki, la guerra civile incombente. Ma il «surge» del generale Petraeus cominciava a dare risultati. Cinque mesi dopo, le notizie dalla Mesopotamia segnalano che probabilmente un angolo importante è stato svoltato. L’Iraq rimane un Paese senza, lacerato e impoverito, dove gli scherani dell’Iran continuano a spargere il seme velenoso del settarismo. Ma la violenza e il numero dei morti militari e civili sono al livello più basso degli ultimi 4 anni, giungono segnali credibili di riconciliazione tra gli sciiti al potere e i gruppi sunniti opposti ad Al Qaeda, mentre il ricostruito esercito iracheno si concede, con l’aiuto alleato, perfino la riconquista di Bassora. Lo ammettono gli editoriali dei quotidiani progressisti, dal Washington Post al New York Times. Anche un osservatore critico come Tom Friedman riconosce che «la realtà sul terreno in Iraq non è più una horror story». L’escalation decisa dalla Casa Bianca all’inizio del 2007, finisce ufficialmente in luglio, ma come spiega Jason Campbell della Brookings Institution, «ci sono speranze che il miglioramento possa essere durevole». E’ uno scenario che rischia di porre un problema molto serio alla campagna di Barack Obama. Potrà, il candidato democratico, continuare a promettere, come fa, il ritiro di tutte le forze da combattimento entro 16 mesi dal suo insediamento, mentre John McCain potrà più facilmente accusarlo di resa e di abbandono di fronte a una situazione nettamente migliorata? Il rovello tormenta da settimane gli strateghi di Obama, divisi tra la promessa che è stata la cifra della campagna e il realismo indispensabile per aspirare credibilmente alla guida del Paese, anche al costo di dar ragione ex post a George W. Bush. «Non c’è dubbio che in Iraq si registri un progresso politico. Un ritiro precipitoso metterebbe a rischio i guadagni ottenuti e comprometterebbe gli interessi americani», dice Campbell. Per Friedman, Obama «farebbe un errore a rinunciare all’impegno del ritiro cadenzato », soprattutto perché la maggioranza degli americani desidera chiudere l’avventura irachena. Ma commetterebbe un errore ancor più grande, «se non cercasse di salvare qualcosa, a costi accettabili». Dal campo di Obama giungono segnali contraddittori. I piani del ritiro entro 16 mesi rimangono, ma la nuova parola d’ordine è «flessibilità», che lascerebbe un più ampio spazio di manovra al futuro presidente. Lo stesso candidato, abbandonato l’impegno originario del ritiro totale, ripete da mesi che «sarà tanto attento nel-l’uscire, quanto eravamo stati affrettati e scriteriati nell’entrare ». Due o tre brigate verrebbero riportate a casa entro i primi mesi dall’insediamento, ma il resto verrà deciso su base pragmatica. La formula del ritiro delle combat troops lasciando una presenza militare a tutela delle installazioni Usa, si presta a molte interpretazioni. In aprile, Colin Kahl, un professore di Georgetown che coordina il team di Obama sull’Iraq, ha scritto un paper dove proponeva che gli Usa lasciassero nella regione da 60 a 80 mila soldati, fra cui unità speciali anti-terrorismo. Una parte di queste dovrebbero essere però basate in Kuwait, pronte a rientrare in caso di crisi. Sono all’incirca la metà di quelle attuali, ma non ciò a cui pensano i militanti democratici, quando osannano Barack nei comizi in cui annuncia che porrà «fine alla guerra in Iraq». Kahl ha detto di aver fatto una proposta a titolo personale. Ma la settimana scorsa, il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, ha detto di aver parlato al telefono con Obama, il quale gli avrebbe promesso che «non prenderà alcuna decisione drastica». Proprio come aveva già anticipato a febbraio la signora Power. Paolo Valentino