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 2008  giugno 26 Giovedì calendario

Riina Giovanni

• Palermo 21 febbraio 1976. Mafioso. «[…] sul suo futuro è stata già abbassata la saracinesca. Sulla scheda personale di ”definitivo”, nel carcere di Terni, è stata aggiunta la frase che ogni detenuto non vorrebbe mai leggere: ”Fine pena: mai”. E così, Giovanni, il figlio primogenito di Totò Riina, ”u picciriddu che tramanda il nome del nonno, si avvia a seguire le orme paterne, ma senza neppure avere avuto il tempo e la possibilità di vivere una vera vita, di ”gustare” il sapore del potere che, invece, don Totò ha ben conosciuto. Giovanissimo e già perduto per essere stato indotto, a scopo mafioso-educativo, ad ”uccidere a mani nude”. Sì, esattamente: strangolando con la sola forza delle dita. Aveva solo 19 anni, Giovanni. Ma la sua vita era segnata, come era stata quella del padre, del nonno, quella dello zio, il terribile Bagarella cui era affidata la ”crescita” dell’erede. Destino infame, nascere in quel mondo, figlio di un ”re” senza identità, fantasma che per trent’anni ha inferto ferite alla sua terra e, infine, persino ai suoi affetti più cari. Eredità pesante, il cognome che Giovanni ha ricevuto senza poter praticamente scegliere di discostarsene. Ergastolano a 29 anni, ”iniziato” al rito tribale del sangue da un tabù indistruttibile, tenuto in vita da zii, parenti, amici, da un ambiente sempre uguale a se stesso, irredimibile e immutabile come la trasmissione dei geni ereditari. Da una madre ingombrante, almeno quanto il padre. [...] Non è stata allegra, la giovinezza di Giovanni Riina. A cominciare dal fatto di non avere avuto una vera identità. Partorito (come anche gli altri tre) in clandestinità, anche se in una delle migliori cliniche di Palermo, col cognome da nubile della madre, ha fatto il giro delle sette chiese sempre sfuggendo ad una vita normale. Per lungo tempo i figli del boss non sono andati a scuola. Ci pensava la madre ad istruirli e ad educarli. Non era forse maestra? Non aveva frequentato il magistrale, quando andare a scuola, per una ragazza di paese, era un’impresa? Istruirli, va bene, Ma come fare a spiegare ai ragazzi l’isolamento in cui erano costretti a vivere? Che si facevano chiamare Bellomo solo perché non potevano usare né il cognome del padre né quello della madre? Come giustificare il fatto che non andavano a scuola? Non è stato facile il ruolo di donna Ninetta, lacerata tra i doveri di madre mai portati ad un vero compimento e la difesa, quasi fisica, del marito. stata la sorella piccola, Lucia, a raccontare alla giornalista Sandra Amurri lo smarrimento di una vita da fantasma. Ed anche Concetta ricordava: ”Una volta vedemmo la foto di mio padre in tv. Lui ci stava seduto accanto e gli chiedemmo: ”Perché dicono che ti chiami Riina?’. Lui ci rispose che si erano sbagliati”. Ma i dubbi restavano ed era difficile liberarsene, tanto che Lucia - anche dopo l’arresto del padre e il ritorno alla vita normale - continuò a scrivere ossessivamente sui muri il proprio nome e cognome. Quello vero. E Giovanni? Era il maschio grande e su di lui pesava l’obbligo dell’eredità. Il fisico non l’aiutava, impacciato e di eccessiva mole. La salute non perfetta: il ragazzo soffriva di problemi alle gambe, tanto che doveva sottoporsi a lunghe sedute di riabilitazione motoria. Il suo orizzonte cominciava e finiva nel gruppo familiare ”stretto”: padre, madre, fratelli e zii. Già, lo zio. Lo zio Leoluca Bagarella, il fratello della madre, ma anche il braccio destro del padre, assassino freddo e fedele luogotenente del padrino di Cosa nostra. Sapeva, Giovanni? probabile: il primogenito del boss se non sa intuisce. E poi, quello era il suo mondo. Di che gli parlava lo zio ”Leoluchino”? Chi vedeva, Giovanni, quando andava ad incontrarlo? Chi erano gli amici dello zio? Erano i Brusca, i Vitale, Tony Calvaruso e tanti altri ”bravi ragazzi”. Era un secondo padre, per il ragazzo, Leoluca Bagarella. lecito pensare che lo tenesse d’occhio per verificarne, come si dice, l’attitudine alla militanza in Cosa nostra. Per questo era ammesso alle scampagnate tra uomini d’onore, alle ”mangiate”, ai discorsi grevi di adulti maliziosi, alle gite all’Euromare, residence balneare degli ”amici”. E Giovanni Mangiava pane e e mafia. Una volta, mentre stava in giro con lo zio, il giovanotto fu preso dal mal di pancia. La colpa del malessere fu data ad ”un’arancina comprata a Corleone”. ”U picciriddu aveva acidità di stomaco a causa di ”un cornuto” che gli aveva venduto un’arancina andata a male. Questa la sentenza di Bagarella, il quale - ovviamente - pronunciò anche la sanzione da infliggere al povero commerciante: ”Andiamo a sparagli”. Per fortuna Giovanni confessò che di arancine ne aveva mangiate più d’una e forse il mal di pancia era giustificato. Ecco i discorsi che Giovanni ascoltava. E così, quando si convinse che a Corleone - il padre era stato da poco arrestato - qualcuno voleva fargli del male, si confidò con lo zio ”Luchino”. Bagarella indagò e decise che a Corleone c’erano amici del pentito Contorno pronti alla controffensiva mafiosa. Fu catturato il giovane figlio di un capomafia di Canicattì, che venne torturato e poi strangolato. L’’onore” di stringergli il collo fu riservato a lui, a Giovanni che aveva poco meno di 19 anni. Poi i ”soldati” di Cosa nostra finirono il ”lavoro”, uccidendo una coppia di sposi a Corleone, ma sempre per dare soddisfazione al piccolo che così sosteneva il battesimo del fuoco. Inutilmente, Concetta e la madre hanno cercato di proteggere Giovanni, nello stesso modo con cui avevano tentato di descrivere ”don Totò” come un integerrimo padre di famiglia. Dicevano che ”Giovanni è buono”, anche contro i fatti certi che lo avevano visto protagonista di episodi allarmanti come le risse nelle discoteche, il gusto della velocità, le amicizie pericolose che lo avevano già inguaiato ai tempi della denuncia per la distruzione della lapide dedicata a Giovanni Falcone. Ma la mafiosità, in quelle famiglie, è sempre stata più forte di qualunque richiamo di civiltà. Il disprezzo per i pentiti, l’omertà come valore, la difesa, contro ogni evidenza, di qualunque verità paterna, sono stati gli argomenti trasmessi dalla madre. Ore di intercettazioni ambientali e telefoniche, in casa Riina e persino durante i colloqui in carcere coi figli, hanno consegnato agli investigatori una donna dura e decisa che, però, ha fallito la missione di salvare i ragazzi. suo il sarcasmo sui pentiti: ”Sapete la nuova moda? Quella della dissociazione”, rilanciato da Giovanni e ”Salvo”: ”Ma se uno non è associato, da che cosa si deve dissociare?”. ”Mio padre non è associato neppure al Milan, sennò avremmo vinto lo scudetto”. ”Noi purtroppo siamo di quelli che mangiano pane e galera”. E non può meravigliare l’atteggiamento del più piccolo, ”Salvo”, che parlando con un amico davanti al guard-rail dove avvenne la strage di Capaci, commenta il successivo arresto del padre: ”Abbiamo avuto questa botta... Se non fosse stato così non so come sarebbe andata a finire, se allo Stato non avremmo fatto abbassare le corna”. Chissà se donna Ninetta ripensa a quei discorsi, ora che la mannaia dell’ergastolo, dopo aver colpito il marito, si è abbattuta anche sul suo Giovanni» (Francesco La Licata, ”La Stampa” 27/1/2005).