Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  giugno 22 Domenica calendario

Corriere della Sera, domenica 22 giugno Kabul. Il parlatoio del carcere distrettuale in centro città è uno stanzone lungo e sporco, diviso a metà da una grata arrugginita cementata al soffitto e al pavimento

Corriere della Sera, domenica 22 giugno Kabul. Il parlatoio del carcere distrettuale in centro città è uno stanzone lungo e sporco, diviso a metà da una grata arrugginita cementata al soffitto e al pavimento. Dove i fori sono troppo larghi, i secondini hanno aggiunto filo di ferro. Ma, nella confusione di grida e decine di persone accalcate le une sulle altre, non riescono a bloccare il passaggio di banconote, bigliettini, persino piccoli dolci dal pubblico ai detenuti. All’entrata una guardia ha requisito i cellulari e firmato in pennarello il suo nome sul polso dei visitatori. «Così non vi confondete con i prigionieri», spiega. Pochi secondi di attesa appoggiati a un bancone di cemento scrostato ed ecco apparire il «blasfemo». «Sayed, Sayed», lo chiama il fratello Yaqub. Si riconoscono immediatamente. Il prigioniero sorride. Appare meglio di quanto potrebbe essere dopo 8 mesi di cella e una condanna a morte. Capelli neri a spazzola, le occhiaie, ma lo sguardo vivo, attento. L’aiutano i suoi 23 anni, la fibra forte, e forse anche l’intima certezza di essere nel giusto. «Sono un prigioniero politico. Le accuse nei miei confronti sono assurde, artificiali», dice ad alta voce, quasi gridando per sovrastare la ressa. Aggiunge che è in cella con otto detenuti comuni: «Nessun assassino, solo ladri, che non mi disturbano. Però non esco mai nei corridoi, temo che qualche militante filo-talebano possa cercare di uccidermi, come avevano minacciato nel carcere di Mazar-e-Sharif». Pensi davvero che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini? Riscriveresti oggi quello che hai scritto su Internet l’anno scorso, e cioè che se per il Corano un uomo ha diritto a quattro mogli anche una donna dovrebbe poter avere quattro mariti? Lui ci pensa sopra un attimo, poi replica: «Certo che le donne sono eguali agli uomini. Sono solo alcuni mullah estremisti a distorcere il Corano per affermare le loro interpretazioni. Ma altro non voglio dire, rischio di pregiudicare la mia posizione processuale. Purtroppo temo che il presidente Karzai non mi aiuterà, è troppo occupato a ingraziarsi i circoli religiosi più conservatori nella speranza di vincere le elezioni dell’anno prossimo. Ma, visto che parlo a un giornale italiano e che l’Italia ha contribuito a finanziare la ricostruzione del nostro sistema giuridico, vorrei dire che qui siamo ancora dominati da giudici medioevali. Non servono tribunali nuovi, se poi gli amministratori della legge sono vecchi».  disarmante incontrare in carcere Sayed Parwez Kambakhsh: uno dei casi più indicativi di una nazione che ha perso le speranze sorte dopo la sconfitta talebana del 2001 e ora sta rapidamente ricadendo nelle lotte tribali tra signori della guerra e sotto il dominio delle teocrazie religiose più conservatrici. Lo scorso 27 ottobre Sayed viene infatti arrestato dai servizi di sicurezza interni nella sua città natale, Mazar- e-Sharif, con l’accusa di «ehaant be Islam», il termine usato dalla «Sharia» (la legge religiosa) per i blasfemi. I fatti sono ancora sotto inchiesta. Lui, studente di giornalismo, ha mandato via e-mail ai compagni un articolo di un intellettuale iraniano dove si sostiene che le donne dovrebbero avere gli stessi diritti degli uomini, anche in materia di matrimonio. Secondo il pubblico ministero, avrebbe aggiunto del suo. La difesa nega. Il fratello, Yaqub Ibrahimi, è tra l’altro noto per le sue inchieste contro droga e corruzione, che danno un mucchio di fastidio ai signori della guerra e mafiosi locali. La vicenda è raccontata dai media di tutto il mondo. E tanta fama lo trasforma in vittima. Sostiene di essere stato torturato e messo al buio in cella d’isolamento. Yaqub assieme alle associazioni dei giornalisti locali cercano di aiutarlo: da Mazar, dove è stato riconosciuto colpevole di avere offeso il Corano e la figura del Profeta e rischia la condanna a morte, viene trasferito per il processo d’appello a Kabul. «Ma è peggio che andar di notte. Qui il giudice capo, Abdul Salam Qazizada, è noto per i legami con le ali più conservatrici degli Ulema (i capi religiosi sunniti, ndr) e persino i mullah più filo-talebani», dice il suo avvocato, Afzal Nooristani, a sua volta già minacciato di morte perché ha accettato di difendere Sayed. Tra gli esponenti dell’Unione Europea è diffusa l’opinione che in qualche modo ne verrà fuori, magari spedito in sordina all’estero, come avvenne un paio d’anni fa per Abdel Rachman, il convertito al cristianesimo poi fuggito a Roma in esilio. Però non subito. Spiegano: «Se il caso di Sayed fosse avvenuto tre anni fa, Karzai sarebbe intervenuto immediatamente per liberarlo. Ma i tempi stanno cambiando. In Parlamento i conservatori stanno proponendo leggi degne del tempo dei talebani, per esempio il divieto alle donne di uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo di famiglia. E Karzai sta cercando consensi tra i religiosi pashtun in vista delle presidenziali nell’estate 2009. Ecco perché non ha risposto agli appelli, neppure dopo l’ultima seduta del processo una settimana fa. Addirittura si è detto favorevole alla censura delle telenovelas indiane sulle tv locali». Lorenzo Cremonesi