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 2008  giugno 22 Domenica calendario

Valerio Mastandrea la Repubblica, domenica 22 giugno Uno dei suoi film più noti è quello in cui non ha mai recitato

Valerio Mastandrea la Repubblica, domenica 22 giugno Uno dei suoi film più noti è quello in cui non ha mai recitato. A distanza di tre anni, ancora, qualcuno lo ferma per la strada e gli fa i complimenti per l´ottima interpretazione in Romanzo criminale. Chissà per quale motivo tanti spettatori lo hanno immaginato, fino a crederci veramente, come protagonista di quel film. Sarà perché Romanzo criminale è un film su Roma. E quando lui, in un sabato mattina d´inizio estate, arriva nel quartiere Garbatella, la piazza si accende. L´asfalto liquido riflette come uno specchio la sua camminata vivace. Lo storico teatro Palladium, sonnacchioso per il giorno di festa, si risveglia e apre il grande portone come per dargli il benvenuto. Sembra fargli l´occhiolino. Il meccanico gli parla dell´ultimo modello di motocicletta, il vecchietto del bar gli racconta una disavventura, il giornalaio l´apostrofa: "´A Valè!". Lui risponde a tutti. Sorride morbido. Fluido con la sua città. Perché Valerio Mastandrea è decisamente romano. Anche se la sua è una versione moderna ed edulcorata della romanità: pigra ma gentile. Mai sbruffona. Involontariamente comica. Triste e dolce insieme. Proprio lui che in tanti film è stato poliziotto bastardo, eroe confuso, ragazzaccio disadattato, è nella vita un equilibrato. Questo equilibrio, sostiene mentre si accende l´ennesima sigaretta, gli deriva dal buon rapporto con le donne. Soprattutto quelle che lo hanno allevato: la mamma femminista ma, sopra ogni altra, la nonna. Tormenta un giornale con il pennarello, come per trovare la concentrazione, e spiega: «Tutta la violenza di cui si parla nei confronti delle donne è frutto della paura di conoscerle, di questa grossa fatica dell´identità maschile di affermarsi nel lavoro e nella famiglia. Per gli uomini è difficile assumere un ruolo ma è ancora più atroce perderlo e vivono un´impotenza sociale». Milioni di persone, per l´incapacità di essere in due, vivono senza partner fingendo che sia una scelta. Altrettante coppie si sbriciolano generando dolore. «I ragazzi della mia generazione sono soli per impossibilità di comprendere le donne». Sono proprio questi, in fondo, i temi di Un giorno perfetto, il film di Ferzan Ozpetek che uscirà nei prossimi mesi con Valerio protagonista. L´attore interpreta un marito lasciato che deve fare i conti con una donna dell´ultima generazione. Nel frattempo, nelle sale cinematografiche, ci sono Tutta la vita davanti di Virzì e Non pensarci di Zanasi. In entrambi i casi Mastandrea è un eroe un po´ sgangherato che ha a che fare con una realtà più sgangherata di lui. Nel mese di luglio, invece, inizierà le riprese del film di Giuseppe Piccioni che interpreterà con Valeria Golino.  un lavoratore Mastandrea. Un soldato del set. Poi, come tutti, ha le sue pause. I tempi morti tra un ciak e l´altro. Quei momenti li impegna per ritrovarsi. Per vivere una vita normale: pagare le multe, andare dal dentista, dormire sino a tardi. Non sembra soffrire dell´ansia tipica degli attori. Di quel troppo vuoto e troppo pieno che è il ricorrente incubo di chi fa parte del cinema o del teatro. Della sfrenata nevrosi da tempo liquido. «Mi restituisce un sano equilibrio prendermi cura di me e realizzare quelle cose che, quando sono sul set, devo trascurare. Credo che la mia forza stia nel fatto che preferisco essere una persona felice piuttosto che un grande attore». Eppure sono in molti, tra il pubblico e i critici, a considerarlo un grande. In teatro come nel cinema. Due realtà tra cui si divide benissimo. «Il cinema è cinema come diceva Franco Citti a Pasolini». Il teatro è costruzione, metodo. «Il teatro è come la casa al mare: richiede tanta cura, ci spendi parecchi soldi per la manutenzione ma alla fine sei contento perché ti serve per ricarburarti». Due modi di esprimersi diversi ma ugualmente importanti anche se, forse, gli occhi brillano di più quando dice: «La verità è che il cinema è mito». Il set e il palcoscenico Valerio li affronta con una sua disciplina. Ha anche interpretato Rugantino in un musical dove, per duecentocinquanta repliche, ha cantato e ballato. «Sono un autodidatta e questo ha avuto i suoi svantaggi, che cerco di compensare con un forte senso di abnegazione. La mia carriera è iniziata quando, a diciannove anni, sono voluto andare al Maurizio Costanzo show perché avevo qualcosa da dire e sentivo l´urgenza di apparire». Il primo incontro con la telecamera è stato devastante. Un caos emotivo. Entropia allo stato puro: «Mi nascondevo le mani con le maniche del golf, un tic nervoso, perché mi vergognavo. Ma poi ho deciso di affrontare la telecamera con sincerità e questo, da allora, è il mio pregio e il mio difetto». Ultimamente, poi, il primo passo dietro la telecamera come regista. Un cortometraggio sulle morti bianche, Trevirgolasette, con Elio Germano come protagonista. E, anche in questo caso, un grande impegno. «Il lavoro è sacro e va onorato, quello che faccio deve essere sempre al meglio. Nonostante ciò ho fatto tante cazzate, ma le rifarei, perché ho imparato anche dagli errori». Le parti che i registi riservano a Mastandrea sono sempre al limite tra cattiveria, confusione e disordine sociale. Senza punti di riferimento. Però, quando interpreta ruoli da duro, sembra non riuscire a essere cattivo sino in fondo. In qualche modo si ribella al peggio di se stesso. Come succede in L´odore della notte di Claudio Caligari, dove è il boss di una piccola banda di periferia con un´improvvisa crisi di coscienza. «Io sono un acquario ascendente vergine e, del mio segno zodiacale, ho ereditato in pieno la poca indulgenza verso me stesso e un forte autocontrollo. I miei amici mi chiamano "il saggio" o "don Valerio", perché sono quello che si lascia meno andare». Non necessariamente un pregio, anzi. Per fortuna fare l´attore è terapeutico. «Recitare ruoli differenti permette di accettare metaforicamente delle parti di se stesso. Io, per esempio, sto cercando d´imparare ad essere più indulgente. Prima quelli che si sanno perdonare li guardavo con disprezzo, ora li ammiro. Ai tempi della scuola leggevo la Divina Commedia e confondevo l´indulgenza con l´ignavia. Adesso ho capito che è una grande risorsa». Uno dei personaggi che somigliano di più a Valerio è tra i protagonisti di un film di dieci anni fa: Tutti giù per terra di Davide Ferrario. Un ribelle che attribuisce a se stesso tutte le cause del suo malessere. Un disadattato ma in fondo un puro. Perché Mastandrea questa storia della purezza ce l´ha nella pelle. Su un braccio si è persino fatto tatuare la scritta «Tutto è puro per i puri». «Un errore di gioventù», ride, ma in fondo è contento di averlo fatto. Anche L´orizzonte degli eventi di Daniele Vicari ha lasciato il segno: «Era un film sulla piccolezza e la pochezza di un uomo e mi ha lavorato dentro». Le sfide gli piacciono, soprattutto quelle oneste. «L´onestà è il mio difetto e il pregio più grande. Diventa una forza quando mi costringo a fare una cosa anche se non vorrei». La prossima sfida è un figlio. «Oggi il gesto più rivoluzionario è avere dei figli. Prima si facevano per fuggire, ora si fanno per affermare la voglia di resistere». Un figlio anche come antidoto all´egocentrismo: «Avere un bambino è un atto coraggioso perché sposta l´attenzione da se stessi. Viviamo in un epoca individualista che, portata all´eccesso, genera crisi di panico e depressioni». Lui è stato un figlio unico. Figlio unico di genitori separati. Praticamente è cresciuto da solo. «Non avere fratelli ti rende diverso verso l´esterno, genera maggiori aspettative e una necessità di legarsi, di fare amicizie. In questo lo sport di squadra, la pallacanestro, mi ha placato e fatto sentire parte di qualcosa». Gli amici li ha sempre salvaguardati come un tesoro: dentro e fuori dal cinema. Poi, forse per quest´abitudine alla esclusiva compagnia di se stesso, è andato prestissimo via di casa. «Ho rischiato, ma ero troppo consapevole che le nevrosi si originano nella famiglia. L´altro modo per salvarsi, oltre ad uscire dal nido appena possibile, è sdrammatizzare». Per Mastandrea è tutto molto italiano, sia subire le follie familiari che riuscire a riderci sopra. «I "bamboccioni" in fondo non hanno colpe, sono sopraffatti dal sistema e non hanno gli strumenti per venirne fuori». La cosa più gratificante dell´essere attore è quando qualcuno lo ringrazia. «Fermare il tempo delle persone, distrarle dalla propria testa e dal quotidiano è già un gran successo. Se qualcuno entra nel camerino e dice che gli ho cambiato l´umore sono contento». Mastandrea rimane modesto. «So bene come l´attore è vissuto nell´immaginario della gente, ma la verità è che si può fare questo mestiere restando normali». Vede il modello americano, la superstar di Hollywood, come qualcosa di lontano. «Non ho mai sentito il bisogno di lavorare all´estero. Quando in Francia ho fatto un film d´azione, ho fatto perdere credibilità al film. In sala prima c´era tensione poi, appena sono entrato io, si sono tutti messi a ridere». L´ironia è la sua carta vincente. La usa nella vita come nella professione. La televisione non gli interessa proprio per questo: la mancanza d´ironia. «Una volta ho fatto un programma di televisione sperimentale, l´hanno mandato in onda il mese di agosto. Lo hanno apprezzato solo i pochi disperati che erano rimasti in città inchiodati davanti al video». Del cinema italiano, invece, in questo momento è orgoglioso. «I film di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone premiati a Cannes sono una speranza, perché hanno raccontato una parte del Paese e il pubblico ha avuto la prontezza di rispondere». Una cosa non gli è mai riuscita: imparare a nuotare. Da piccolo lo hanno buttato in mare all´improvviso e si è spaventato. Ora l´acqua la vede come una minaccia. «Tanto alla fine mi ritrovo sempre a lavorare in luglio ed agosto. Uno pensa "faccio l´attore così vado in vacanza quando mi pare", invece io salto tutte le estati». E quest´estate, tra gli altri impegni, ci sarà anche la direzione artistica, insieme a Paola Cortellesi, del Teatro biblioteca Quarticciolo, nella più estrema periferia di Roma. Perché, anche se lui non lo racconta, Mastandrea è quel che si dice socialmente impegnato. Quest´inverno ha fatto piangere tutto il teatro quando, all´Ambra Jovinelli, ha recitato con passione Il ferro, il fuoco e gli invisibili, una lettura sulle morti atroci degli operai della ThyssenKrupp di Torino. Ha recitato in parecchi film del cinema indipendente. E, dopo tanti risultati, ha ancora tanti sogni. Uno, forse, più grande degli altri: «Mi piacerebbe girare un film diretto da Mario Monicelli, peccato che non lavori più». Alla fine ringrazia e sorride umile, scusandosi perché durante l´intervista ha rovinato il giornale con il pennarello. Ma quale duro, Mastandrea è decisamente un romano dal cuore tenero.