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 2008  giugno 25 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 25 giugno Scampato al naufragio e giunto senza forze su una spiaggia sconosciuta, Gulliver si risveglia prigioniero dei lillipuziani, una razza di uomini alti appena quindici centimetri; mentre dormiva, l’hanno tutto avviluppato con piccoli lacci e laccioli che non gli consentono di muoversi

La Stampa, mercoledì 25 giugno Scampato al naufragio e giunto senza forze su una spiaggia sconosciuta, Gulliver si risveglia prigioniero dei lillipuziani, una razza di uomini alti appena quindici centimetri; mentre dormiva, l’hanno tutto avviluppato con piccoli lacci e laccioli che non gli consentono di muoversi. L’allegoria settecentesca di queste vicende, narrate nel notissimo romanzo satirico di Jonathan Swift, appare particolarmente adatta a descrivere le condizioni attuali dell’Italia, così come emergono con impietosa chiarezza nella relazione annuale che Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, ha presentato ieri: l’eroe addormentato e spossato, reduce da un naufragio, potrebbe benissimo essere l’Italia del 2008, mentre i lillipuziani sono le varie corporazioni, i vari interessi incrociati che tengono prigioniero il paese, che, pur potenzialmente molto forte, non riesce a liberarsi. Si prenda a esempio il settore alimentare che tanto interessa la spesa quotidiana: in 267 circuiti alimentari messi sotto osservazione dall’Antitrust nel 2007, il ricarico medio sul prezzo finale è stato del 200 per cento, con punte fino al 300 per cento, assai più che in quasi tutti gli altri paesi avanzati. Il che significa che dal produttore al consumatore il prezzo aumenta esageratamente non per la «cattiveria» di qualcuno ma per la lunghezza della «catena», ossia per il maggior numero di intermediari. Insomma, sulla vendita degli alimentari vive in Italia un numero proporzionalmente maggiore di persone che in altri paesi e la preoccupazione di garantir loro da vivere fa vivere un po’ peggio tutto il Paese. Quello che succede per gli alimentari è solo un caso della vastissima enciclopedia dei nostri orrori economici quotidiani presentata da Catricalà. Sono infatti assai numerosi i settori, in cui i «circuiti» produzione-distribuzione quasi non si fanno concorrenza tra loro, ma intrattengono rapporti fissi e consolidati. Per conseguenza, quando dall’estero importiamo tensioni inflazionistiche, queste vengono semplicemente spostate in avanti sui prezzi perché nessuno ha un vero incentivo a far concorrenza al «collega». Forse se nella realtà italiana ci fossero meno «colleghi» e più «competitori» (una parola che, non a caso, suona strana alle nostre orecchie) dal punto di vista dei prezzi le cose andrebbero meglio. Operando senza farsi una sana guerra commerciale, che rappresenta una delle basi di un sistema di mercato che operi in un paese democratico, è facile che gli operatori compiano delle trasgressioni ai danni dei consumatori. L’Antitrust ha accertato nel 2007 quasi un’infrazione al giorno del Codice del Consumo. Il viaggio tra le oltre 250 pagine di questa relazione narra, tra l’altro, di pubblicità ingannevoli o con informazioni carenti nel settore dei telefoni; di proposte di voli scontatissimi che riguardano solo pochi posti e non tengono conto di tutte le voci di costo; di offerte finanziarie nelle quali non è sempre chiara l’indicazione del tasso da pagare; fino alle imprese della cosmetica, sul cui presunto «cartello» per tenere prezzi alti l’Antitrust sta lavorando da pochissimo tempo. L’Italia, insomma, si scopre paese di intese, tacite o palesi, implicite o esplicite, tra imprese di vari settori che dovrebbero lottare l’una contro l’altra e invece non si fanno concorrenza. Più si sale, più si toccano punti dolenti: dalle banche, forse l’unico settore in cui la sensibilità dell’opinione pubblica si è effettivamente risvegliata in questi anni, alle società di assicurazioni e alle imprese energetiche e petrolifere. Si scoprono così quelli che Catricalà chiama i «cartelli segreti» che negli Stati Uniti aprono le porte della galera. L’Antitrust, ci assicura, sta lavorando a una dozzina di casi. E soprattutto ci sono le «chiusure» al vertice: quasi la metà delle società quotate in Borsa annovera imprese concorrenti tra i propri soci. Incredibilmente quattro su cinque contano tra i loro consiglieri di amministrazione persone che siedono anche nel consiglio dei loro concorrenti. Non fa meraviglia che per un’impresa il modo migliore di crescere non è fare concorrenza ma acquistare un’impresa concorrente che già indirettamente conosce molto bene; che i «salotti buoni» in cui un ceto dirigenziale ritrova la propria omogeneità siano più rilevanti di una buona concorrenza in cui lo stesso ceto sperimenti le proprie differenze. Non è necessario accettare posizioni estreme che vorrebbero ridurre tutto a concorrenza per concludere che nelle forti limitazioni della concorrenza, nell’esistenza di corporazioni e di interessi che dovrebbero essere contrapposti e che invece sono collegati sta uno dei motivi per cui, nel corso della storia, dopo ottime partenze ogni tanto in Italia tutto tende a fermarsi; precisamente come è successo in questi ultimi 15-20, quando l’Italia-Gulliver nata con il miracolo economico è stata gradualmente avviluppata dalle corde dei piccoli e «cattivi» lillipuziani che ne hanno gradualmente limitato la libertà d’azione. Anche senza erigerla a principio generale, qualche dose in più di concorrenza, invocata in linea di principio ma disattesa in pratica, farebbe sicuramente bene, dal settore petrolifero a quello delle libere professioni. Accettare un aumento di concorrenza significa prendersi dei rischi (il che agli italiani non piace quasi mai) ma non accettandoli avremo una grande certezza: quella di precipitare al fondo delle classifiche europee non solo della crescita ma anche della ricchezza, un’isola di strana povertà a Sud delle Alpi che già comincia a formarsi - come mostra il confronto con la più concorrenziale Spagna - e che tra venti-trent’anni gli altri paesi europei guarderanno con curiosità e un po’ di compassione. Mario Deaglio