Marco Vallora, La Stampa 25/6/2008, pagina 32, 25 giugno 2008
La Stampa, mercoledì 25 giugno Attenzione, non si gridi subito al miracolo. Non si sta dicendo che, oggi, è nato un Tiziano dal nulla, senza più alcun dubbio scientifico, anzi
La Stampa, mercoledì 25 giugno Attenzione, non si gridi subito al miracolo. Non si sta dicendo che, oggi, è nato un Tiziano dal nulla, senza più alcun dubbio scientifico, anzi. Semplicemente e giustamente, senza bleffare, la Biblioteca Ambrosiana comunica al mondo i risultati d’un rapido restauro (due mesi: quasi più per legittimi motivi di curiosità, che non di effettiva cattiva salute della tela) applicati ad un quadro apparentemente minore della pinacoteca (accanto agli spettacolari Bergognone, Bramantino, Caravaggio) ritenuto, almeno dall’Ottocento, una dignitosa replica di bottega della Maddalena penitente di Tiziano, quella che secondo Cavalcaselle si tenne tra le braccia morendo. Topos quasi ossessivamente ripetuto e variato dal pittore, con il contributo dei suoi collaboratori, e nella fattispecie qui, un’eco dell’originale, che sta a Firenze, a Pitti. Ed ecco le novità: intanto sarebbe comparso un vasetto, accanto al crocefisso, che è quello quasi obbligatorio, iconograficamente, dell’unguento «de lo alabastro», con cui la penitente deterse i piedi del Cristo, col «pianto amaro e i capegli scompigliati e disanellati», per dirla con l’Aretino, amico e suggeritore di Tiziano. E sotto un piccolo altarolo da campo, è affiorata anche la classica firma, contenuta e composta di Titianus fecit, che una nera patina di sporco non permetteva di leggere. La firma però non è certo una garanzia automatica o probante: spesso i falsari firmano, proprio perché non si fidano della loro perizia e la firma diventa un pessimo indizio di colpevolezza. Non è il caso di quest’opera, che certo non è un falso, ma che sinora era annoverata tra le numerose repliche, più o meno felici, di almeno quattro variati prototipi, enucleati da un esperto come H.E.Wethey. Che fin dal 1969 s’era pronunciato piuttosto favorevolmente su questo esemplare (quello di Stoccarda, per esempio, pur firmato, lo ritenne di bottega). In questo caso non si tratterebbedi declassare un’opera d’un maestro. Esemplare fu il caso falcidiante di Rembrandt, qualche decennio fa: una catastrofe per i musei. Oppure il discutibile balletto di Caravaggi originali o repliche, bari o non bari, rimbalzati e guerreggianti, tra musei, privati ed esperti, cui si è assistito in questi anni. Con bambocci dequalificanti per tutti, attributi al maestro, solo col pretesto di qualche incisione sottopelle della tela, come se un qualsiasi allievo non avesse potuto imitare pure quella tecnica!. Qui si tratterebbe di ritrovare un’autografia che s’era appannata Anche se non c’è analisi al carbonio che tenga, perché la contemporaneità è assicurata. Manca però la prova dell’intervento vivo di Tiziano stesso, che non lavorava ancora di «sfregazzi» e polpastrello, come poi racconterà Jacopo Palma il giovane, ma già incominciava a dipingere freneticamente in serie. Siamo presumibilmente verso il 1560, pressato dunque dal segretario di Carlo V (via una Maddalena per lui!) da Filippo II in persona e da Alessandro Farnese (via un’altra Maddalena, oggi a Capodimonte, certo non la migliore). Vasari rilevando la bellezza promiscua di questa penitente «a mezza coscia, gli occhi fissi al cielo, che mostra compunzione nel rossore degli occhi», racconta l’aneddoto di Silvio Badoer, che gettato uno sguardo libertino sulla Maddalena (oggi Hermitage) in partenza per la Spagna di Filippo II, gliela strappa con scudi sonanti, tanto il vecchio Tiziano (che si finge ancora più vecchio, col monarca, per impietosirlo a mandar soldi, finalmente, e gli storici fanno conti sbagliati) è già pronto a dipingerne un’ennesima variante. Perché, lo spiega un esperto quale Augusto Gentili: «la disequaglianza è un denominatore comune di tutto quello che esce dallo studio di Tiziano, dopo il 1560». E ci offre un indizio significativo: nelle sue Maddalene non compare mai (qui invece, dopo il restauro, c’è) il Crocefisso («lasciato ai vari Gerolami»). Ancora una volta, così, l’unico strumento valido di «prova» sarà l’occhio umano dell’attribuzionista, come è capitato con il caso recente dei Due Santi della Cini, riconosciuti da Boskovitz a Giotto, o meglio, alla «bottega di Giotto, sotto gli occhi del maestro», formula abbastanza inconsueta (mentre è caduta l’attribuzione d’una Madonna, allo stesso maestro, avanzata anni fa dal Todini, «sotto gli occhi di Zeri»). Diverso, alla mostra fiorentina, il caso del Tondo Santa Croce di Giovanni da Milano, a lungo ritenuto un falso senese dell’Ottocento, e riconosciuto ora come autentico, dall’analisi al carbonio. Oggi non si procede più col vecchio metodo positivista del dottor Morelli (da Carlo Ginzburg paragonato ad altri due «medici» della deduzione, Freud e Sherlock Holmes). Non si inseguono più solo quegl’infimi dettagli «inconsci», incontrollabili (la forma d’un sopracciglio, il formato inconfondibile d’un unghia, o di un panneggio) che «tradiscono» il colpevole: la sua vera firma. Comunque si lavora a vista. Ma saranno anche i documenti a pesare ed interessare. stato recentemente trovato un manoscitto secentesco di Biagio Guenzati, che racconta come questo «Tiziano» arrivò alla Pinacoteca, donato dal Cardinal Borromeo, nonostante il nudo piuttosto ardito, in anni di Controriforma (ma nel suo Musaeum Borromeo elogia la capacità tizianesca di equilibrare «onestà e bellezza»). Siamo negli anni della peste manzoniana. Venuto a sapere che una nobile milanese caduta in disgrazia era costretta a vendere un Tiziano a 300 scudi, invece dei previsti 700 (cifra altissima: Filippo II riservava un ricco vitalizio annuo al Tiziano di 1000 scudi) «non fia mai vero, rispose, che la povera vedova abbia a cavar meno in questo misero stato. Anzi, la povertà gli dee accrescere, non iscendere il valore. Le si paghino dunque scudi settecento». Convinto fosse un Tiziano. Certamente era un sant’uomo. Ma era anche un santo attribuzionista? Una firma, certo, non basta. Marco Vallora