Ugo Tramballi, Il Sole-24 Ore 24/6/2008, pagina 12, 24 giugno 2008
Il Sole-24 Ore, martedì 24 giugno «La democrazia è un sistema di governo per gente virtuosa. Nei giovani Paesi come il nostro abbiamo bisogno di un capo che abbia tutto il potere»
Il Sole-24 Ore, martedì 24 giugno «La democrazia è un sistema di governo per gente virtuosa. Nei giovani Paesi come il nostro abbiamo bisogno di un capo che abbia tutto il potere». In poche righe, è la giustificazione dell’essere e dell’operare di Robert Mugabe: abbiamo altro da fare che rispettare regole non nostre. Ma quella riflessione sulla democrazia come lusso e non come strumento fondamentale di sviluppo, non è di Mugabe. L’aveva fatta nel 1960 Hophouet-Boigny, il primo presidente della Costa D’Avorio, liberatore e dittatore allo stesso tempo, che sognava di diventare de Gaulle in Africa. Mezzo secolo più tardi, dopo una Guerra Fredda, il passare del colonialismo tradizionale e l’arrivo delle sue forme più nuove, multinazionali o cinesi; dopo la fine delle ideologie e l’inizio della globalizzazione; nonostante una ventina fra massacri e genocidi qui e là nel continente. Dopo tutto questo correre della Storia, nel XXI secolo in Africa accade ancora uno Zimbabwe. Un dittatore, per mantenere il suo potere oltre il tempo e il giudizio degli uomini, affama e ammazza la sua stessa gente. Il fenomeno Mugabe non ha spiegazioni se limitato alle frontiere dello Zimbabwe, dalle quali migliaia di affamati continuano a fuggire nonostante il pericolo xenofobico già esploso in Sudafrica. Lo Zimbabwe ha solo la fortuna - se è fortuna - di godere dell’attenzione della stampa internazionale. Ma di Zimbabwe in Africa ce n’è uno all’anno, anche più di uno all’anno. La ricchezza nella quale vivono i pretoriani dello Zanu, il partito di Mugabe, nonostante il resto del Paese affoghi in un’inflazione quotidiana a percentuali di migliaia, non è un’inspiegabile caratteristica dello Zimbabwe. Nel 1962 i deputati del Parlamento del Gabon percepivano un appannaggio più alto di quello dei loro colleghi di Westminster e soprattutto guadagnavano in sei mesi quello che un loro concittadino avrebbe portato a casa in 36 anni. Da allora è raro che le classi di potere africane abbiano rinunciato ai benefici del loro potere. Robert Mugabe non sfiderebbe il mondo se il resto dell’Africa che gli sta attorno non rifiutasse di sfidare lui. A cominciare da Thabo Mbeki, il presidente del Sudafrica, il faro di democrazia reale del continente, nessun leader si è scagliato contro il dittatore dello Zimbabwe. In nome dell’Africa, della sua gente, della sua democrazia e del futuro. Hanno lasciato che il lavoro più pesante lo facessero gli inglesi, gli americani, l’Unione europea, permettendo a Mugabe di vendere la storia che il male non è nel suo regime ma nelle solite, vecchie potenze coloniali. sconfortante di questi tempi leggere la stampa africana: c’è un giustificazionismo, una solidarietà terzomondista, un ritorno allo lotta di liberazione pan-africanista da anni 60. Come se la fuga di milioni di cittadini e l’inflazione dello Zimbabwe non fossero dati statistici ma invenzioni della stampa inglese sovvenzionata da un imperialismo vittoriano alla Cecil Rhodes. Nessuno può nascondere le responsabilità del colonialismo vecchio e nuovo: dalla "rissa per l’Africa" dell’Europa del XIX secolo, al duro realismo cinese nei cui investimenti africani non esistono clausole sociali. Ma se 50 anni dopo la riflessione interessata di Hophouet-Boigny è ancora così attuale, ci sono anche responsabilità del continente. Lo Zimbabwe non è un caso straordinario, è un fenomeno africano. Il primo squillo di quella che doveva essere la Grande Rivoluzione Democratica fu quando in Sudafrica l’apartheid non finì nel sangue ma pacificamente, attraverso un processo costituzionale. Il secondo quando Nelson Mandela diventò presidente. Il terzo quando si dimise: il primo presidente dell’Africa sub-sahariana che non lasciava il potere a causa di un golpe o per omicidio ma semplicemente perché «a 80 anni il mestiere di un uomo deve essere quello del nonno». Il quarto segno del cambiamento sarà, l’anno prossimo, quando Jacob Zuma, uno zulu, diventerà presidente dimostrando che il potere non è una questione tribale Xhosa - l’etnia di Mandela e Mbeki - ma un affare di Stato nazionale. Qual è tuttavia il successo di una rivoluzione se le sue conquiste restano confinate a un solo Paese; se già oltre il filo spinato delle sue frontiere, nello Zimbabwe, nessuno sa fermare i segni di un nuovo genocidio africano? Ugo Tramballi