Massimiliano Parente, Libero 24/6/2008, pagina 25, 24 giugno 2008
Libero, martedì 24 giugno Non si sa se non siamo un paese per vecchi, come il Texas spietato di Cormac McCarthy, ma siamo un paese dove se dici che il romanzo di Saviano artisticamente ti fa schifo, se dici che "Gomorra" è un romanzo mediocre, ti guardano male come se fossi uno del clan dei casalesi, i quali casalesi, da quanto leggiamo sulle cronache, dobbiamo pensare processati e condannati grazie alle "rivelazioni" del suddetto romanzo di denuncia («è stato tutto merito tuo!»), senza la fiction di Saviano i magistrati non avrebbero saputo dove cercarli
Libero, martedì 24 giugno Non si sa se non siamo un paese per vecchi, come il Texas spietato di Cormac McCarthy, ma siamo un paese dove se dici che il romanzo di Saviano artisticamente ti fa schifo, se dici che "Gomorra" è un romanzo mediocre, ti guardano male come se fossi uno del clan dei casalesi, i quali casalesi, da quanto leggiamo sulle cronache, dobbiamo pensare processati e condannati grazie alle "rivelazioni" del suddetto romanzo di denuncia («è stato tutto merito tuo!»), senza la fiction di Saviano i magistrati non avrebbero saputo dove cercarli. Siamo un paese, fra l’altro, dove ricevo sms come questi: «La Bompiani mi ha mandato il tuo romanzo, ci metterò del tempo, sai quanto io sia renitente alla lettura dei romanzi» e non ci sarebbe niente di strano se a mandarlo non fosse Alfonso Berardinelli, e attenzione, non sto rivelando niente perché Alfy lo scrive anche nei suoi libri: non legge romanzi, solo saggi, i romanzi sono stupidi. Professione: critico letterario, giustamente. Come un idraulico che non si occupi d’idraulica, o un genetista refrattario allo studio del dna. Filippo La Porta, il critico dell’"esperienza", amico e allievo di zio Alfy, tempo fa mise la sua ciliegina sulla torta ribadendo: gli scrittori in Italia sono stupidi, i critici sono intelligenti. E anche, poco dopo, sul Corriere della Sera: «la saggistica vince sulla narrativa». Da notare che gli stessi critici succitati e altri, con inquietante regolarità, mi inviano i loro libri, a me scrittore: per farmeli recensire, incredibile. E appunto come se l’idraulico ti convocasse per farsi riparare il cesso otturato di casa sua, magari aspettandosi pure di essere pagato. I CARISSIMI AMICI - Siamo un paese dove gli stessi "critici" elogiano se stessi e i saggi dei vicini di banco, e oltre a Berardinelli e La Porta presto sono arrivati anche Giorgio Ficara e Massimo Onofri per timbrare il cartellino "non è un paese per scrittori", ma per saggisti, che sarebbero loro, wow, fighi. Siamo un paese dove ogni giorno la critica giornalistica dà il suo triste spettacolino di sé: apri il "Corriere della Sera" e c’è Giorgio De Rienzo che sale in cattedra per attaccare un’opinione di Vladimir Luxuria riguardo alla «poesia gay» di Montale, sfogli "Panorama" e magari trovi Maria Rosa Mancuso che accusa «la casta dei critici» prendendo Paolo Di Stefano (che paragonerà presto il libro sulla stupidità di Vassalli a Samuel Beckett) come esempio di critico super partes (e perfino citando me tra i critici della casta, come citare Marco Pannella come simbolo di Tangentopoli). E questo mentre ogni fine settimana fioccano le rubrichine dei piccoli disappunti, pisciatine di cani per delimitare il territorio, punzecchiature e sassolini tirati fuori da scarpe in verità puzzolentissime, pulpiti incorniciati da cui dire la propria, anche se non conta niente, anche se è solo la propria. Come i "Contrappunti" e le "Vespe" di Chiaberge sul "Sole 24ore", o i "Fulmini" di Nico Orengo su "La Stampa", o la pagine e la posta e le stroncaturine di venticinque parole di Antonio D’Orrico che si scrive pure le lettere di complimenti da solo (è un’insinuazione, ma impossibile esistano quei lettori lì, c’è un limite anche all’assenza di limiti...). E dunque, in questo paese per vecchi o non, tra critici "renitenti" ai romanzi, e ultimi della classe che hanno occupato i banchi rimasti vuoti (e perfino le cattedre), e casalinghe disperate opinioniste datesi alla letteratura che oggi si chiama "lipperatura", e pubblicitari della narrativa a buon mercato che leggono quattromila pagine al mese e lottano contro Musil, Kafka, e Joyce («non hanno più niente da dirci»), e giurie di premi Strega e Campiello dove premiano sempre lo stesso libro alla moda spinto sempre dagli stessi editori, insomma... qualsiasi cosa siano costoro, su cosa poggiano la loro autorevolezza? A un oncologo chiedete una laurea e una specializzazione, oltre a una certa esperienza sul campo, e a un critico, o supposto tale, cosa chiedete? Quali libri di critica hanno scritto Giorgio De Rienzo, Maria Rosa Mancuso, Fabrizio Ottaviani, Sergio Pent, Paolo Di Stefano, Mirella Serri, Loredana Lipperini, Camillo Langone, Filippo La Porta e perfino Alfonso Berardinelli, che fra tutti è il migliore ma di certo non è Giacomo De Benedetti (il quale infatti leggeva Proust, mica gli altri critici)? E vogliamo confrontare "Il romanzo del Novecento" con "La nuova narrativa italiana" di Filippo La Porta o peggio, con "L’autoreverse dell’esperienza", sempre del medesimo La Porta? Vogliamo confrontare i saggi illuminanti di Leo Spitzer, del Dr. Leavis, di George Steiner, o perfino di Roscioni su Gadda o di Raimondi su Manzoni, con i "saggi", spesso sottoprodotti del lavoro giornalistico (che già dovrebbe essere un sottoprodotto di una ricerca), di Manica o di Onofri, o con il nulla pubblicato da D’Orrico o Viganò? Non ci sono più grandi scrittori, dicono i critici italiani? Ci sono solo i critici italiani? Va bene, e dunque, scremate le mezze calze e i calzini appesi alle rubrichine, chi sarebbero il Maurice Blanchot, il Dwight Mc Donald, il Dr Leavis italiani? Come mai un secolo fa (o poco più) di libri se ne occupavano sui giornali scrittori come Henry James, George Eliot, André Gide, Virginia Woolf, Charles Baudelaire, Paul Valéry, Stephane Mallarmé, e in Italia Pavese, Calvino, Gadda, Moravia, Pasolini, e oggi dobbiamo sentire cosa scrive al massimo Piperno e compagnia bella? Ci si può consolare sul fatto che non è una storia nuova e non solo italiana, per esempio se ne lamentava già, in Polonia e mezzo secolo fa, il grande Wiltold Gombrowicz («Come può un inferiore giudicare un superiore?» disse dei critici), già Thomas Bernhard in Austria, e in Francia Gustave Flaubert a metà Ottocento («siamo invasi dalla merda»). LA PROFEZIA DI ALBERTO - Da noi con sorprendente precisione non si può non citare il fratello d’Italia Alberto Arbasino, esperto di dejà vu culturali ma anche capace di radiografie istantanee precisissime, che descrisse fin dagli anni Cinquanta il confine di una cialtroneria e un provincialismo a statuto speciale rispetto al resto d’Europa. Così poteva benissimo dirsi, nel 1964, che quando «l’affrettato feuilletton per il quotidiano o il settimanale è la principale attività del recensore - e non il sottoprodotto occasionale di impegni più seri, come la saggistica o l’insegnamento - come non definire questo tipo di critico un architetto che non abbia costruito né una casa né una scuola, ma solo cabine da spiaggia o la cuccia del cane?». Massimiliano Parente