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 2008  giugno 24 Martedì calendario

Piera Degli Esposti Liberazione, martedì 24 giugno Una ciclica Musa, per generazioni di autori talentuosi

Piera Degli Esposti Liberazione, martedì 24 giugno Una ciclica Musa, per generazioni di autori talentuosi. Da Pasolini, Taviani, Ferreri, fino a Bellocchio, da Tornatore a Sorrentino. Anche scrittrice e regista di opere liriche, Piera Degli Esposti è però soprattutto attrice tra le più prestigiose del nostro teatro, ma sempre più rivolta al cinema. E con soddisfazione: David di Donatello nel 2003 come attrice non protagonista ne L’Ora di religione , quest’anno nomination al Nastro d’Argento - sempre non protagonista - per Tre donne morali , il "Ciak d’Oro" alla carriera. E in questi giorni nelle sale la sua preziosa partecipazione a il Divo e al cortometraggio Lettera d’amore a Robert Mitchum , abbinato al film L’Anno in cui i miei genitori andarono in vacanza . Una vita per la recitazione come strumento per «impegnare il sovraccarico di energia e dare forma alle immagini»... Penso che tutti, crescendo, abbiamo un’energia in più, che a volte ci viene contro e altre ci aiuta. Questa seconda ipotesi è rara, bisogna conquistarla e utilizzarla, nel mio caso l’ho fatto per scrivere e recitare. Ho cercato di dare la priorità alla voce, recitando in casa da sola perché così mi facevo compagnia. Ho scoperto questa energia in più anche nella fede - di cui ho capito recentemente il valore - quando preghi ad alta voce. Essendo di formazione laica, ho trovato molto tardi dei compagni di fede e di preghiera: non avrei mai pensato di scoprirli, né tantomeno di essere io a praticare con loro. Sto diventando buddista e sto riscoprendo l’importanza di stare insieme agli altri e, di nuovo, la voce come strumento; a parte poi la gratificazione dello stato vitale gioioso che questa fede mi procura. Ora sono un’attrice conosciuta, sebbene sempre elitaria e non da rotocalco. Per arrivare a questo però ho dovuto superare gli ostacoli della solitudine che porta a dire: «ce la farò?». Sono stata tenace, un boxeur che ha preso molti pugni e ho saputo accettarli. Non era tanto importante darli, quanto rimanere sul ring, perseverare. Mi hanno aiutato la pazienza, anche nei momenti in cui mi sembrava di perdere tempo e il superamento della mia timidezza. Non a caso ha sempre voluto scoprire i grandi "appartati", ovvero gli artisti che non emergevano subito per via della loro timidezza… Sono stata infermiera, a volte, di chi mi sembrava faticare a trovare una strada, una visibilità. Forse per un profondo senso di compassione o per una solidarietà con chi mi somiglia. Ho sempre preferito gli "appartati", anche se è difficile trovarli in quest’epoca fracassona. Il cinema mi è stato molto amico fin dagli inizi, ma io non volevo mostrare la mia faccia da vicino. Il teatro era più misterioso per me, rituale, liturgico, vicino a qualcosa di religioso. Lì ho ottenuto quello che desideravo, e c’è voluto molto tempo. In seguito, da Bellocchio in poi, mi son sentita pronta a farmi vedere da vicino, proprio nell’età in cui tutte le donne si modificano il viso o lo allontanano dall’obiettivo. Il monologo "Molly cara" per la regia di Ida Bassignano, tratto da "Ulisse" di Joyce, l’ha rivelata al grande pubblico. E Eduardo vedendola le disse: «Sei ”o verbo nuovo». Quel ruolo, sostiene«segnò la possibilità di essere me stessa in scena. Da allora non sono stata più un’attrice che lasciava la sua vita in camerino». E’ questo a fare la differenza in un’attrice? Non potevo nascondermi dietro al personaggio. E’ un atto generoso portare sul palcoscenico se stessi insieme al personaggio, al quale si dà così linfa vitale, proprio in senso frankensteiniano. Alla fine in scena arriva una sorta di connubio, una buona mistura con la giusta cottura. Molly - ed è importante che alla regìa fosse una donna - è stata l’interpretazione di un pensiero che parlava, non di una situazione o di un carattere che si muoveva e questo mi ha aiutato a portare Piera in scena. Dei tanti personaggi interpretati, qual è quello che sente più suo? Clitennestra, un personaggio poco compreso perché giudicato crudele, mentre per me è una vittima. E’ una donna molte volte tradita dal marito lontano, è dovuta diventare capo di una casa, le è stata uccisa una figlia, è rimasta sola. Ha pensato di conquistare i suoi sudditi, un compagno e il figlio che credeva morto. Questo loro rapporto è sempre stato condannato, ma bisogna pensare che Clitennestra è una donna che si trova di fronte un uomo che lei non ha mai vissuto come una madre. Mi piace per questo, perché non è riuscita a mettere in atto il suo proposito di recuperare il figlio prima che questi la uccidesse. Credo alla sua buona fede, e non vedo perché nel tempo sia sempre stata assolta la sorella Elena, che di responsabilità invece ne aveva tante. Non lo trovo giusto. Le piacciono la passione e la tragedia del Mito, mentre il cortometraggio "Lettera d’amore a Robert Mitchum" è un sogno romantico. Che parte ha l’amore nella sua vita? Ora sono meno coinvolta nell’amore, mi sento più proiettata verso l’altro per rapporti di amicizia o di lavoro. Questo perché di amore ne ho avuto molto e gli ho dato un’importanza enorme come la ruota, la forza che muove la vita; così come ho dato importanza alla conquista, perché avevo bisogno di conferme. Ci sono voluti molti anni di analisi per arrivare a capire che sì è importante, ma non così preponderante, e che anche le conferme del pubblico sono una forma d’amore. Cosa l’attraeva in Robert Mitchum? Generalmente di lui si pensa che sia un macho, invece a me piaceva perché in lui vedevo contemporaneamente sia la sua parte maschile che femminile. E’ un felino, morbido. Ha nel suo ancheggiare - che apprezzavo tanto - qualcosa che potrebbe avere una top model con i tacchi. Quel suo corpo lento e rotondo mi ha eccitato la fantasia, proprio perché non capivo dove in lui cominciasse il maschio e dove la femmina. Il regista Francesco Vaccaro ha trattato il materiale Mitchum con mani altrettanto ambivalenti, e il risultato è così soddisfacente che il suo è uno dei pochi cortometraggi ad arrivare nelle sale. Il produttore Andrea Occhipinti della Lucky Red ha sentito questo sogno e ha fatto un’operazione, in piccolo, "fitzgeraldiana". Cosa pensa della morte? La morte prende troppo spazio, questa è un’ingiustizia. La vita è corta, non eterna come la morte. Dunque chiedo alla morte di lasciarci vivere la vita, senza pensare a lei. Credo che il modo giusto sia quello di non crederle, non pensare alla sua esistenza finchè si è in vita. Non si può vivere con la prospettiva di aspettare la morte o di sapere che un giorno o l’altro verrà. Se si vuole stare dentro la vita, bisogna cacciare la morte. Medici e scienziati possono irridermi, scettici di fronte a questa presa di posizione perché tutto, nel nostro corpo, fa capire l’attesa della fine. Sembra che ogni cosa ci debba ricordare questo, anche una società troppo "giovanile". Io cerco di vivere secondo quella che può essere considerata una fiaba. Ne "Il Divo" è Vincenza Enea, la segretaria di Andreotti. Qual è il suo giudizio storico sul personaggio politico? E’ tutt’ora un enigma irrisolto. Mi piacciono i gialli, i delitti insoluti e gli enigmi, al punto da essere rimasta affascinata, fin da piccola, da Turandot , che uccideva chi non riusciva a risolverli. Sembra riduttivo dire:Andreotti mi ricorda La settimana enigmistica , ma secondo me lui contiene tutto questo. E’ un uomo che è stato indagato, processato, e non solo non ne è rimasto traumatizzato, ma anzi sembra più "vivo" di prima: presenta libri, va ospite alle trasmissioni televisive, determina spostamenti politici, e mi sembrano addirittura in aumento le sue capacità di sintesi e velocità di associazione, segni di una mente che invece di deteriorarsi acquista in lucidità. La maggioranza pensa di lui più o meno le stesse cose, però non mi sembra che ciò porti alla scoperta dell’uomo vero e delle sue responsabilità. Dire che è colpevole è banalissimo, ma è impossibile indagarlo e averne confermate le prove. Così facendo non procediamo di un passo. Sono rimasta stupita di sentirlo a "Porta a porta", dove c’era anche la figlia di Aldo Moro. Gli hanno chiesto cosa ne pensasse dell’affare Moro e lui ha risposto: «E’ un avvenimento troppo lontano e allo stesso tempo troppo vicino per poterne parlare». Ha anche detto: «Per descrivere un fatto, Moro usava quattro aggettivi, a me ne basta uno». E’ il padrone assoluto della sua mente. Ecco, a proposito della morte, io sono tra coloro che ritengono Andreotti immortale, proprio perché sa vivere la vita e saprà anche tenere lontana la morte, semplicemente non considerandola. La moralità è non adattarsi, non tradire la propria storia e identità? Per me è fedeltà al proprio credo. Non ritengo morale la persona cinica, indifferente, bugiarda, pressappochista. Io devo somigliare al mio essere, parlare col mio dentro, che deve venire fuori. Quando mi esprimo voglio essere sempre fedele alle mie immagini interiori. Federico Raponi