Lino De Matteis, www.linodematteis.it, 21 giugno 2008
0/06/2004
Il Governatore/ 5 - La successione voluta dalla madre
L’improvvisa scomparsa del presidente della Regione Puglia, Salvatore Fitto, aveva determinato un grave vuoto di potere e di rappresentanza istituzionale in via Capruzzi a Bari, che, temporaneamente, venne colmato dal vice presidente della Giunta, il socialista Franco Borgia. In Consiglio regionale subentrò, come primo dei non eletti nel collegio di Lecce, il democristiano Leonardo Ciannamea, che nelle elezioni del 1985 aveva conseguito 25.576 preferenze. Quasi tre mesi dopo la morte di Fitto, il 23 novembre del 1988, alla guida del pentapartito fu eletto dal Consiglio regionale l’andriese democristiano Giuseppe Colasanto, un ex ufficiale che aveva combattuto contro i nazisti in Montenegro, uomo di raro garbo. Colasanto governò sino alle successive elezioni regionali, che si tennero il 6 maggio 1990, alle quali però non si ricandidò, già colpito dal male incurabile che lo porterà alla morte non molto tempo dopo. A quelle elezioni si presentò, invece, il giovane Raffaele Fitto, figlio dello scomparso presidente, che venne per la prima volta eletto consigliere regionale a soli 21 anni.
Se la crisi istituzionale seguita alla morte di Salvatore Fitto fu immediatamente risolta con la nomina del nuovo presidente della Giunta, restava, cosa ben più difficile da colmare, il vuoto politico che Fitto aveva lasciato in Puglia e, in particolare, quello elettorale nel suo collegio di Maglie. Don Totò aveva vissuto troppo in fretta ed era ancora troppo giovane per aver pensato ad eredi politici, era scomparso troppo repentinamente per aver avuto il tempo di designare un suo delfino. Secondo le leggi crudeli ed immutabili della vita, in molti dopo la sua morte, più o meno esplicitamente, si erano messi a far di conto per accaparrarsi le sue ”spoglie politiche”. Col ”cadavere ancora caldo”, già durante le esequie solenni, quel tema era stato incalzante, correva di bocca in bocca, frullava nelle menti dei politici e degli imprenditori che con don Totò Fitto avevano legami stretti, anche se il rispetto per il morto pretendeva un rigoroso silenzio e una pietosa riservatezza su questo argomento.
Chi avrebbe raccolto la grande eredità politica che lasciava Salvatore Fitto? A chi sarebbero andate le decine di migliaia di voti del suo elettorato? L’interrogativo non era eludibile e toccava sia gli ambiti istituzionali della Giunta regionale sia gli assetti interni del maggiore partito pugliese, la Democrazia cristiana, con particolare riferimento all’area jonico-salentina. L’incertezza su questo tema regnava sovrana, avendo la grave tragedia della scomparsa di Fitto trovato tutti impreparati. A sottolineare il rilievo politico della figura di Salvatore Fitto c’erano stati quei cinque ministri che avevano partecipato ai suoi funerali, Gava, Colombo, Gaspari, Lattanzio (tutti dorotei, come lo scomparso) e Maccanico, e poi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sanza, e il capo della segreteria nazionale democristiana, Gargani. Anche costoro, certamente, pensarono a come evitare che l’ingente eredità elettorale lasciata dal presidente dei pugliesi andasse dispersa. Il presidente dell’Amministrazione provinciale di Lecce, Giacinto Urso, lo aveva detto esplicitamente: ”Pensiamo adesso a raccogliere per intero la sua eredità, se la raccogliessimo limitata, recheremmo offesa alle sue virtù”.
Ma chi era in grado di ricreare, sia a Bari sia nel collegio di Maglie, quei delicatissimi equilibri che, con grande abilità, era riuscito a costruire Fitto? La pentola democristiana era già in ebollizione in vista delle elezioni europee, che si sarebbero svolte l’anno seguente e a cui si sarebbe quasi certamente candidato anche Salvatore Fitto, se fosse stato ancora in vita. La sua scomparsa complicava enormemente le cose, mandava all’aria i piani che si stavano tessendo e accorciava al minimo i tempi a disposizione per trovare una soluzione. Anche tra gli alleati della Democrazia cristiana il timore che si aprisse una fase, anche lunga, di confusione e di stallo era forte. Il capogruppo socialista alla Regione, il consigliere Francesco Saponaro, prefigurava ”un incremento degli squilibri nella Dc e tra la Dc e il Psi”. Tutti guardavano e attendevano una parola dal senatore Giorgio De Giuseppe, il padrino politico di Fitto, ma il parlamentare magliese non si sbilanciava in quelle ore ancora troppo vicine alla tragica scomparsa: ”E’ prematuro adesso, ci saranno un sacco di problemi, li esamineremo dopo. Il partito in Puglia ha perso un leader, un grande leader”.
Si era aperta la battaglia per la successione, ma molti stavano facendo i conti senza l’oste. Soprattutto gli esponenti della Dc magliese e salentina non avevano tenuto conto della vedova di Salvatore Fitto, la signora Rita Leda Dragonetti, la quale, dopo la scomparsa del marito, si rivelerà la vera stratega della lobby familiare dei Fitto e l’eminenza grigia che, almeno nelle prime fasi, muoverà abilmente sullo scacchiere politico locale e regionale il suo più riuscito strumento di potere, il figlio Raffaele, con l’ausilio di un gruppo di amici, politici e imprenditori, già fedelissimi al marito.
Andarono in molti a trovarla nei giorni dopo la scomparsa del marito. Nelle settimane e nei mesi che seguirono, nella casa dei Fitto in via Capece, a Maglie, si recarono proprio in tanti, amici veri e falsi amici di partito, ma anche molti imprenditori e professionisti della zona e di fuori, che avevano in sospeso delle pratiche, degli affari con lo scomparso presidente, degli appalti da assegnare, degli incarichi da attribuire, dei favori promessi da onorare. Sfilarono proprio in tanti: i veri amici di partito per aprirle gli occhi, i falsi amici a suggerirle soluzioni interessate, gli imprenditori e i professionisti ad offrirle il proprio appoggio elettorale, pur di portare a termine i loro affari in sospeso. Si trattava, infatti, di scegliere chi candidare nel collegio di Maglie alle successive elezioni regionali, che si sarebbero tenute circa due anni dopo la scomparsa di Fitto.
Il clan dei Fitto, come sempre nelle circostanze difficili, fece quadrato anche in questo caso. E con la scelta del candidato si consumò la definitiva rottura con la nomenclatura storica della Democrazia cristiana magliese, rappresentata da Giorgio De Giuseppe, che pure aveva mantenuto buoni rapporti con Salvatore Fitto. Scartate tutte le soluzioni esterne proposte dai notabili democristiani salentini, la signora Leda decise che la scelta doveva essere fatta in famiglia, nella ristretta cerchia della parentela e degli amici più fedeli. Doveva essere uno della famiglia a succedere a Salvatore Fitto. Proposero anche a lei di candidarsi, di prendere il posto del marito. Aveva appena quarantaquattro anni, era una bella donna, determinata, con una lunga esperienza di campagne elettorali vissute a fianco del consorte. Nervi saldi e temperamento forte, la ”lady di ferro” poteva essere la candidata ideale. La signora Leda, figlia di un medico di Muro Leccese, aveva sposato Fitto nel giugno del 1966, a ventidue anni. Il suo sogno non realizzato era stata la laurea in medicina, ma aveva vissuto intensamente l’ebbrezza travolgente della scalata al potere a fianco del marito. Leda disse di no ad una sua eventuale esperienza politica vissuta direttamente, da protagonista. Preferiva continuare a svolgere un ruolo che conosceva bene, fondamentale ma da dietro le quinte, senza esporsi in prima persona, manovrando e decidendo le scelte politiche del ”suo candidato”. Preferiva, insomma, ritagliarsi il ruolo dell’ ”eminenza grigia”, che incontra le persone, fissa gli appuntamenti, decide le strategie, fa le campagne elettorali, come aveva sempre fatto col marito.
Tutte le ipotesi furono vagliate e, man mano, scartate dalla vedova. Certamente, chi avrebbe potuto provare era uno dei cognati, il fratello minore di Salvatore, Antonio, che aveva conquistato, con l’aiuto di Totò, la carica di sindaco di Maglie. Antonio Fitto era stato eletto alla carica di primo cittadino dopo le amministrative del 1988, che sancirono il trionfo della Dc locale, con la conquista della maggioranza assoluta di voti: diciotto seggi allo scudocrociato, sei ai socialisti, tre ai comunisti, due ai socialdemocratici e uno ai missini. Era un gioco di squadra che avrebbe funzionato molto bene: don Totò a governare la Puglia e il fratello Antonio la città di Maglie. Un binomio eccezionale che alimentava e pasceva le clientele elettorali, che, come si vide proprio nelle amministrative del 1988, portarono la Dc a successi mai registrati in quel comune. Ma Antonio serviva ancora a Maglie, doveva continuare a presidiare dallo scranno di primo cittadino il feudo politico territoriale, la vera base del successo elettorale dei Fitto. La figlia Carmela, una bellissima ragazza, era ancora troppo giovane, appena diciassettenne quando le morì il padre, troppo fragile ed inesperta per affrontare l’arena della politica. Pure il figlio maggiore, Felice, anche se ventunenne, non aveva molta dimestichezza con la politica, era un ragazzo studioso e per lui era programmata una carriera da medico, come poi è avvenuto.
Restava il terzo figlio, Raffaele, secondogenito, il più piccolo dei maschi, che, fino ad allora, non aveva ancora dimostrato alcuna propensione e attitudine per una qualche professione, un interesse in particolare. Era lui la ”vittima” predestinata, voluta dalla madre, da sacrificare sull’altare del potere politico e della continuità della dinasty dei Fitto. Giocava d’azzardo la vedova, ma era pronta a rischiare tutto, contro i falsi amici di partito che contrastavano quella sua scelta. Il figlio Raffaele era effettivamente troppo giovane ed inesperto, troppo ”bambino”, e l’elettorato avrebbe potuto anche non avere fiducia in lui per la sua scarsa esperienza. Il gioco era molto impegnativo, l’eredità politica lasciata da don Totò era troppo grande, e la signora Leda sapeva che correva il rischio di perdere tutto, se fosse fallita la sua strategia. Ma doveva aver pensato: meglio perderla cercando di salvarla integra nella famiglia, che perderla, comunque, appoggiando un candidato estraneo al clan dei Fitto.
La vedova la spuntò su tutti. La signora Leda impose la candidatura del figlio Raffaele e si mise a lavorare, in silenzio e con grande abnegazione, perché quella scelta fosse vincente. Aveva un obiettivo importante da raggiungere: quello di far sedere il figlio Raffaele su quella poltrona al secondo piano di via Capruzzi, allora ancora sede della presidenza della Regione Puglia, che un tragico destino aveva sottratto all’improvviso a suo marito. Un obiettivo raggiunto, poi, nell’arco di un decennio, durante cui aveva continuato a sostenere, guidare e consigliare il figlio, restando sempre dietro le quinte e mantenendo sempre la massima discrezione e riservatezza. Ma quando, nell’aprile del 2000, suo figlio venne eletto presidente della Regione Puglia, la sua gioia fu incontenibile e si concesse, per la prima volta, di parlare liberamente con i giornalisti. Il suo obiettivo era stato raggiunto senza perdere tempo, dopo una manciata di anni di ininterrotti e continui successi politici del figlio, che lo avevano portato a ricoprire le cariche di consigliere comunale di Maglie, consigliere regionale, assessore e vicepresidente della Giunta regionale, europarlamentare, vicesegretario nazionale del Cdu di Rocco Bottiglione e leader del suo partito personale, il Cdl (Cristiani democratici per le libertà), fondato in Puglia prima di confluire in Forza Italia.
Era stata lei la vera stratega del successo, e non lo nascondeva. Era nel salotto di casa sua che si decideva la linea politica. ”D’Alema ha corteggiato a lungo mio figlio, ma in queste stanze abbiamo deciso che non si poteva fare quel matrimonio. I trasformismi non ci piacciono, l’importante nella politica è non perdere la faccia, a costo di mettersi da parte. Per questo volevo che prendesse la laurea, quel pezzo di carta è la sicurezza”, raccontò a Rosanna Metrangolo, in un’intervista pubblicata sul Quotidiano di Lecce il 18 aprile 2000, appena due giorni dopo le elezioni del 16 aprile, tenutesi per la prima volta con il nuovo sistema elettorale dell’elezione diretta del presidente della Regione e che avevano consacrato governatore il figlio Raffaele. ”Ebbi tutti contro, quando Raffaele, ventenne appena, si candidò per la prima volta – racconta ”. Io avevo colto la sua passione, l’avevo condivisa e la sostenevo. Davanti alla bara del padre lui aveva detto che ne avrebbe preso il testimone. Se non fosse sceso in campo nel ”90, saremmo stati fagocitati dagli strateghi. Dopo la morte di mio marito si precipitarono tutti in questa casa, perché pensavano di tirarci da una parte o dall’altra e di farci scomparire. Era l’epoca della Dc dalle mille correnti. Io non ho abboccato. Quello era il momento giusto. Io ero accanto a Raffaele, dovevamo farlo insieme. Gli chiesi una cosa soltanto, di non trascurare lo studio, di non rinunciare alla laurea”.
Raffaele, da bravo figlio, non ha mai negato il ruolo avuto dalla madre Leda nella sua scelta di seguire le orme del padre e nelle sue successive fortune politiche. Come quello del padre, però, è questo un argomento di cui il governatore non parla molto volentieri in pubblico. Sulla madre mantiene una pudica riservatezza, tradita solo dalle fotografie che si è lasciato scattare insieme a lei, entrambi raggianti di gioia, davanti al comitato elettorale di Maglie, il 17 aprile del 2000, il giorno dopo la sua elezione a presidente della Regione Puglia. Istantanee che ritraggono lei, una signora bella e bionda, che guarda estasiata la sua doppia creatura, di figlio e di politico di successo; lui, in pullover e camicia, che la tiene per il braccio, mentre sorride con lo sguardo rivolto al fotografo. Per entrambi un gran giorno, per entrambi un impegno onorato sulla memoria del marito e del padre.
’Sì ho una mamma splendida e con lei ho un rapporto eccezionale”, disse Raffaele Fitto, nel dicembre del 1997, nel corso dell’intervista alla trasmissione confidenziale ”A tu per tu”, rispondendo alle domande di Max Persano, dagli schermi dell’emittente leccese Telerama, in una delle pochissime occasioni in cui aveva accettato di parlare di quest’argomento. ”Un rapporto collegato con la mia attività – continuò ”, nel senso che, all’inizio, mi è stato di grandissimo conforto ed è stato per me un riferimento essenziale, perché mi ha dato quella spinta necessaria in un momento nel quale io, personalmente, forse, non avevo da solo la possibilità o la capacità di affrontare tutto ciò che c’era da fare”. Ma neanche egli è esente dal conflitto generazionale e ammette un rapporto con la madre ”con alti e bassi, perché, avendo tutti e due la testa dura, abbiamo pure molte occasioni per scontrarci. Non siamo simili di carattere, però abbiamo molti punti di vista e molti atteggiamenti simili”. Un rapporto con la madre che per il governatore è influenzato anche dai segni zodiacali: ”Siamo dello stesso segno, della Vergine – continuava a Telerama – io non sono molto addentro ai segni zodiacali, ma su alcuni aspetti fondamentali che emergono da essi, per quanto mi riguarda, io mi riconosco. E, quindi, con mia madre, avendo questo aspetto in comune, ci sono tanti momenti nei quali ci troviamo, ma anche tanti momenti nei quali ci confrontiamo. Ecco, diciamo così: che anche questo fa parte di un rapporto che io definisco bellissimo, che a me piace moltissimo”.