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 2008  giugno 25 Mercoledì calendario

L’uomo che non era JFK. Vanity Fair 25 giugno 2008 Tutto il mondo parla di Barack Obama. E fa paragoni con JFK (più una mano di colore)

L’uomo che non era JFK. Vanity Fair 25 giugno 2008 Tutto il mondo parla di Barack Obama. E fa paragoni con JFK (più una mano di colore). Io tifo Obama, penso vincerà McCain e continuo a coltivare la mia ossessione per JFK. Si sa: tutti gli americani che all’epoca erano capaci di intendere e volere ricordano con precisione dove si trovavano e che cosa stavano facendo il giorno in cui fu ucciso il presidente Kennedy. Poi ci sono due italiani che, per ragioni diverse, conservano un ricordo altrettanto nitido: uno sono io, l’altro è il mio amico Fabio. Il diario di giugno racconta di me, di lui e della presidenza degli Stati Uniti. Con il nostro incontro, JFK non c’entrava. Accadde a New Orleans. Io dovevo scrivere un reportage di viaggio, lui fare le foto. Un monumentale nero di nome Vernell ci servì, alle dodici e dieci del primo giorno, abbastanza birra e ostriche da renderci amici. Il resto fu discesa. Andammo anche a un comizio di Al Gore, allora candidato democratico, e Fabio guardò l’aspirante presidente, la folla festante, le bandiere, il Mississippi e la favolosa bruttezza dell’America con l’aria di uno che pensa: "Un giorno tutto questo avrebbe potuto essere mio". Quanto a me, pensavo a JFK. Il giorno in cui fu ammazzato ero dentro una macchina per cucire. Avevo compiuto da poco tre anni e ci passavo un sacco di tempo, nella macchina per cucire. Almeno credo: perché il giorno in cui uccisero JFK è il primo ricordo netto della mia vita. L’uomo della televisione annunciò: "Il presidente Kennedy è stato assassinato". Spalancai lo sportello della Singer e uscii, deciso a vendicarlo. Ascoltai tutto, persino a un bambino di tre anni sembrava incredibile. Si ammazza così un presidente? Davvero? La sera, quando mia madre tornò dal lavoro in ospedale, glielo domandai: "Chi ha ucciso Kennedy?". Se la cavò con la versione ufficiale: " stato un uomo cattivo, chiamato Oswald". Qualche tempo dopo aggiunse: "L’uomo cattivo chiamato Oswald è stato ammazzato da un altro ancora più cattivo di nome Ruby". Prima che arrivassero l’orco e la matrigna, smisi di fare domande e cercai di imparare a leggere. Avevo sette anni quando, a casa di una zia, trovai un volume intitolato La tragedia di Dallas. Me lo portai a casa. C’erano tutte le teorie sui possibili complotti. Capii: JFK non era stato ucciso da un uomo cattivo chiamato Oswald, gli adulti mentono, i governi anche, gli uni e gli altri sono convinti di avere a che fare con bambini stupidi. Negli anni ho collezionato ogni sorta di testo, documento, gadget, riguardante "la tragedia di Dallas". Poi ho cominciato a dimenticare, perché anche le ossessioni hanno la loro, lunga, stagione. Infine, quando ne ero ormai fuori, ho incontrato Fabio, "l’uomo che non era stato JFK". VARAZZE Non fu a New Orleans che mi raccontò la storia. Avvenne mesi dopo, alla Maddalena. Seduto nel terrazzino disse all’improvviso: "Sai, io sono stato JFK. O quasi. Per un po’. Ho avuto l’America, perso mio padre, sono diventato quel che sono. Tutto per una fotografia...". Va bene, aspetta, raccontami tutto dall’inizio. La storia cominciava a Varazze, in Liguria. Ci passava i pomeriggi, su quella riva. Aveva tre anni il giorno di luglio in cui si allontanò da solo verso le barche ormeggiate. Non se ne accorse, ma un uomo lo seguiva. Qualcosa, nel bambino, l’aveva attratto. Da ore stava sulla spiaggia cercando invano una preda, ora, forse… ma doveva avvicinarsi, per esserne certo, senza farsi notare. Fabio arrivò alle barche di legno. Lo affascinavano per i colori stinti, ma soprattutto perché portavano lontano. Era cresciuto guardando l’orizzonte e sperando di raggiungerlo e superarlo. Le barche, per quel che ne sapeva, erano il solo modo di riuscirci. Aveva addosso un costumino blu. Tirava vento, gli scompigliava il ciuffo, che aveva folto. L’uomo, appostato dietro un moscone, lo inquadrò, sempre più affascinato. Fabio salì sulla barca. Avanzò fino all’orlo, restò lì, in piedi. Cercava di scorgere la propria immagine riflessa e, non riuscendoci, si preoccupava: che fosse un vampiro di mare? L’uomo lo mise nel mirino e quel che vide gli tagliò il respiro: identico. In scala, ma identico. Aveva visto le foto del presidente americano Kennedy scattate da Jacques Lowe durante la campagna elettorale. Ce n’era una fatta mentre, dal bordo di una barca, guarda l’acqua, attraversato da una preoccupazione imperscrutabile. Ne scattò la replica in miniatura, perché quel bambino davanti al mare di Varazze era la piccola copia di JFK sull’Atlantico. Il colpo dell’estate. L’uomo, professione fotografo, era stato mandato sulle spiagge liguri in cerca di immagini per le pagine estive. Aveva trovato il piccolo Kennedy italiano. Più simile all’originale di John John. Fabio vide l’uomo avvicinarsi. Da lontano, sua madre si accorse che parlava con uno sconosciuto e si avvicinò, preoccupata. Il fotografo estrasse dalla tasca un biglietto da visita: c’era il marchio di una grossa casa editrice. Lei l’osservò perplessa. " che suo figlio è uguale… potrebbe essere il figlio, anzi… di un uomo famoso… tanto che, non so…". "Uguale a chi? Il figlio di chi?". "Scusi, signora, ma lei ha mai conosciuto il presidente Kennedy?". La madre prese Fabio per mano e lo portò via, allontanandolo da quell’uomo che era sicuramente un pazzo, o peggio. Dieci giorni dopo tutta Varazze aveva in mano La Domenica del Corriere. Titolo: "Il piccolo sosia dell’uomo più grande". Sommario: "Un bambino di Varazze è la perfetta replica del presidente americano John Kennedy _ Il nostro fotografo ha colto la straordinaria somiglianza e le due immagini ravvicinate la dimostrano – Il ragazzino ha oggi tre anni, la madre esclude di aver incontrato JFK nel ”59, né risulta che lui fosse in Liguria – Un capriccio della genetica?". Le due pagine erano occupate da grandi fotografie con didascalia. A sinistra il presidente Kennedy. Didascalia: "John Kennedy, alla vigilia della sua elezione a presidente, guarda l’acqua, ma si intuisce che la sua mente è assorta in pensieri che lo conducono lontano, forse oltreoceano". A destra il bambino di Varazze. Didascalia: "Il piccolo Fabio G., tre anni, guarda l’acqua, come il presidente a cui tanto rassomiglia e anche la sua mente fugge lontano, come sognasse qualcosa di irraggiungibile che pure gli appartiene: l’America?". Il padre di Fabio depose il giornale, guardò il figlio e disse: "L’America… bastarda l’America e tutti gli americani, son venuti qua a fare i padroni, loro… e ci hanno lasciato i comunisti… si sono spartiti il mondo, loro, l’America e i comunisti… e anche questo Kennedy qua, io lo so, perché me l’hanno detto, garantito… è un comunista". Guardò il figlio: "Hai capito?". Fabio fece segno di sì con la testa. Guardò la moglie: "E tu, hai capito chi è questo Kennedy?". La donna si alzò per sparecchiare. Disse, stancamente: "Un comunista". L’uomo annuì soddisfatto. Si avvicinò al bidone della spazzatura e ci buttò la rivista. Uscì senza dare spiegazioni. Fabio rimase seduto a tavola. La madre finì di liberare la tavola, poi, prima di cominciare a lavare i piatti, si chinò e raccolse La Domenica del Corriere dai rifiuti, la ripulì con la mano e se la infilò nella tasca del grembiule. Non lo sapeva, ma le loro vite stavano per cambiare. Il postino consegnò la lettera raccomandata alle dieci del mattino. Fabio era in casa con la madre. Lei la depose sul tavolo di cucina. La guardarono come fosse un pacco dono sotto l’albero di Natale alle ore 23 e 30 del 24 dicembre: "Che facciamo, l’apriamo o aspettiamo papà?". Attesero. Il padre rientrò a zig zag e fu sorpreso di trovare un comitato d’accoglienza. "Ti abbiamo aspettato per aprire una lettera". "Da soli non ci riuscivate?". " indirizzata alla famiglia, viene dall’ambasciata americana a Roma". "Ehhh… addirittura… avrà scritto il presidente Kennedy!". Aveva scritto il presidente Kennedy. NEW YORK Più o meno. Per interposta persona, certo, tramite l’ambasciatore, ma il diplomatico non aveva fatto altro che comunicare la volontà dell’uomo più potente del mondo. Queste: "Cara famiglia G., essendo rimasto colpito dall’immagine del vostro bambino pubblicata dal settimanale La Domenica del Corriere e dalla innegabile rassomiglianza con il Presidente Kennedy, mi sono permesso di inviarGli copia della rivista. Sono lieto di comunicarvi che anche Lui è stato impressionato, al punto da pregarmi di farvi sapere che è Sua volontà, se accetterete, che vi trasferiate negli Stati Uniti d’America. Il Presidente vi concederà la cittadinanza onoraria, vivrete, come lui, a Washington, il vostro Fabio conoscerà il piccolo John John, avrete una casa e l’Amministrazione provvederà a una rendita per il bambino e a un lavoro per il capofamiglia. Siete pregati di contattare il numero in calce per ulteriori informazioni. Vogliate, nell’attesa, gradire i miei cordiali saluti e quelli del Presidente". Fu la madre di Fabio a leggere, in un crescendo di incredulità. Alla fine non disse nulla. Fabio urlò: "Andiamo in America!". Il padre gli tirò uno schiaffo. La madre lo attirò a sé e lo abbracciò. La lettera cadde sul pavimento. Ora, io non so davvero perché JFK ebbe quell’idea, ma ho visto la lettera e sono sicuro che la storia di Fabio è vera. Neanche lui sa spiegarsela: era troppo piccolo all’epoca e i fatti successivi, per come accaddero, non diedero le risposte necessarie. Può darsi che il presidente volesse fare un gesto paternalistico, chiamare a sé un ragazzo italiano che gli somigliava e regalargli qualcosa di simile alla sua vita. Può darsi che volesse ingraziarsi la comunità italo-americana. O che fosse soltanto curioso di vederlo da vicino e non avesse tempo per andare a Varazze. Può darsi, ma questo è fantascienza, che avesse in mente un progetto tipo quello del film I ragazzi venuti dal Brasile: studiare e creare suoi cloni, "i ragazzi venuti dalla Liguria". Non sapremo mai perché. "Perché no", rispose il padre quando Fabio domandò: "Perché non vuoi che andiamo in America?". "E non se ne parli più", aggiunse chiudendo l’argomento. Non se ne parlò più. La lettera dell’ambasciata fu archiviata in cucina, in una zuppiera di ceramica, insieme con le ricevute delle bollette. Fino alla domenica seguente. Al sabato il padre di Fabio andava al casinò di Sanremo. Quel sabato giocò tutta la notte. Quando ebbe finito i soldi dello stipendio e quelli del conto bancario, spacciò assegni scoperti ai cambisti. Perse tutto, anche quello che non aveva. Tornò a casa all’alba. Sua moglie e suo figlio dormivano, ignari. Solo in cucina, pensò a una rapina in banca, al suicidio, poi aprì la zuppiera e chiamò l’ambasciata americana. "Ci saranno anche la domenica mattina?", si domandò. C’erano. Presero atto. Predisposero. Quando Fabio e la madre si alzarono per fare colazione, lo trovarono intento a spalmare fette biscottate per tutti. "Tra sette giorni partiamo", annunciò. "Per l’America!", aggiunse, ma tutti, benché increduli, avevano capito. Non immaginavano perché, ma non lo chiesero: "Perché sì". L’ambasciata non badò a spese: viaggiarono in business class, con tutte le attenzioni. Il padre di Fabio chiese tre volte champagne e ogni volta fu sorpreso di ottenerlo. La madre ordinò un profumo dal catalogo del duty free e quando lo ebbe si sentì dire: " un omaggio". "E questo è per il bambino", aggiunse la hostess, porgendo a Fabio un orso di peluche vestito di stelle e strisce. "Chissà se viaggeremo anche noi sull’Air Force One, qualche volta", si chiese la madre, che nella settimana di preparazione si era letta tutto quel che aveva trovato sul presidente. "Lui in questo momento ci sta volando", aggiunse, "e va a fare qualche visita al Sud con Jacqueline". Chissà, magari sarebbero diventati amici, tutti quanti. Una sera avrebbero pranzato alla Casa Bianca, poi John John e Fabio avrebbero giocato sotto la scrivania del presidente, mentre Jackie le avrebbe mostrato il corredo e JFK avrebbe discusso davanti al caminetto con suo marito ("Speriamo che non gli dia del comunista"). Ma anche se non fosse successo tutto questo, quanto accadeva era già straordinario. E tutto perché suo figlio assomigliava a JFK mentre guarda l’acqua. "In fondo", pensò lei, "me lo sono meritato, sono stata io a farlo così". Atterrarono a New York. Un funzionario dell’amministrazione spiegò che era stata "espressa disposizione del presidente", in attesa che lui tornasse a Washington dal suo viaggio. Li alloggiarono sulla Settima Strada, a pochi isolati da Broadway. Li scortarono a vedere un musical e a mangiare bistecche alte tre dita, sull’Empire State Building e alla Statua della Libertà. Ogni mattina, sul giornale che trovavano davanti alla porta della stanza, apparivano immagini del presidente in viaggio. Il padre di Fabio ne osservò attentamente una, poi commentò: "Mah, secondo me non gli assomiglia neppure". La moglie gli strappò la pagina di mano, furibonda, e lo guardò come se avesse bestemmiato in chiesa. Anche Fabio si offese, un po’, e si chiuse in bagno per non mostrare le lacrime. Fu la madre a consolarlo: "Vedrai, quando vi incontrerete, tu e il presidente, tutti rimarranno a bocca aperta. Oggi andiamo a comprarti una giacchetta blu con i bottoni d’oro, proprio come quella che ha John John". Bastò a fargli tornare il sorriso. Uscirono verso le undici del mattino. Un vento autunnale spazzava le Avenues. Fabio sollevò il bavero del cappottino e molti si fermarono a fissarlo, come se l’avessero già visto da qualche parte. La madre si riempiva gli occhi di vetrine, il padre camminava a testa insù, allegro: un altro uomo. A pochi passi da loro, seguiva l’agente dei servizi di sicurezza. Fecero trenta isolati prima di fermarsi per comprare la giacca a Fabio, in un negozio di Union Square. Mentre la commessa cercava la taglia giusta, l’agente disse qualcosa al proprietario, che annuì: anche quello sarebbe stato un omaggio. Fabio indossò il blazer e si guardò allo specchio: sembrava un piccolo principe, di più, un piccolo presidente. Sorrise. Erano da poco passate le dodici e trenta. Alle spalle della sua immagine riflessa vide la commessa scoppiare in lacrime. La madre di Fabio avrebbe voluto consolarla, ma non sapeva quali parole usare. Poi si accorse che anche il proprietario piangeva e il grosso agente della sicurezza, lui più di tutti. Sul banco del negozio, accanto ai due uomini in lacrime, una voce rotta alla radio diceva, a fatica, cose misteriose e terribili. La famiglia G. non capiva, ma la sua sorte era segnata. In quello stesso istante io uscivo dalla macchina per cucire, stupefatto dall’annuncio dell’uomo della televisione che a Dallas, "nel lontano Texas", il presidente Kennedy giungeva all’ospedale dove, mezz’ora dopo essere stato colpito da uno o più "uomini molto cattivi", sarebbe stato dichiarato morto. L’agente si avvicinò ai G. Fece segno di togliere la giacca al piccolo Fabio: non c’era più omaggio, non c’era più niente. RITORNO Furono riaccompagnati in hotel e lì capirono. Lo videro nella hall, videro la limousine che avanzava lenta, JFK che sorrideva (Fabio si avvicinò per toccarlo col dito), la sua testa che esplodeva (Fabio si ritrasse inorridito) mentre Jackie si lanciava sul cofano per raccogliere i grumi di cervello sparsi: "Oh, no", dicono gridò. "Oh, no!", disse la mamma di Fabio. "E adesso?", si chiesero i G., tornati nella loro stanza, che parve rimpicciolita. Il padre di Fabio si guardò allo specchio: "Ma se io mi radessi la testa, qua davanti, non potrei somigliare a Johnson?", domandò. Nessuno rispose. Era finita. O quasi. Restavano le briciole. L’agente della sicurezza comunicò che li avrebbe accompagnati all’ultima cena e l’indomani li avrebbe imbarcati sul volo New York – Roma. Segue pullman per Varazze. Andarono alla "Rainbow Room". L’orchestra non suonava: lutto nazionale. Nessuno parlava. E pioveva. Da spararsi. O da innamorarsi. Perché quando piove, d’autunno a New York, e tu te ne stai a un piano alto e i vetri si rigano e nel temporale ci sei dentro, può succedere che tu non te ne voglia andare mai più. Fabio era troppo piccolo perché toccasse a lui. Sua madre l’amava troppo perché accadesse a lei. Capitò al padre di Fabio. Non disse una parola, ma lo decise. Certo, influirono anche i cambisti che non avrebbe potuto ripagare, una volta tornato in Liguria, ma, ne sono certo, non fu solo quello. Si alzò nella notte, indossò gli abiti che aveva la sera prima, uscì dall’albergo e scomparve. Per sempre. Gli agenti venuti a prelevare la famiglia G. per condurla all’aeroporto Kennedy, che allora si chiamava ancora Idlewild, si stupirono, si consultarono, ma non fecero nulla: avevano altro a cui pensare. Fabio si ritrovò orfano di padre e di presidente. Assomigliava a due persone che non c’erano più, che non l’avrebbero più aiutato. Lasciò l’America insieme con la madre. Sulla strada, fino alla scaletta dell’aereo, nessuno si voltò a guardarlo. Tornata a casa, la madre di Fabio mise in una cartellina il vecchio numero della Domenica del Corriere, il programma del musical che videro, il menu della "Rainbow Room" e la chiuse a chiave in un cassetto della cucina. Un giorno, ventisette anni dopo, ha ricevuto una telefonata da Milano, da parte di un addetto al cimitero Monumentale. Le ha chiesto se lei era la moglie del signor G. Ammise. "Gli si è incrinata la lapide", annunciò l’addetto. Seppe così che suo marito era morto, in Italia, cinque anni prima. Fabio è diventato fotografo. Lo ha fatto perché scoprì, in un lontano giorno d’estate, che una foto può cambiarti la vita. Fa soprattutto reportage di viaggi. Tornando da Broome, sulla costa australiana, portò in dono a quella che era la sua principessa degli scogli una collana, senza sapere che da lì, rigorosamente, JFK faceva venire le perle da regalare a Jacqueline. A me ha regalato questa storia, io ho aggiunto cose dove lui aveva vuoti, di memoria o di affetto. Quando l’ha letta ha detto: " più vera della verità". una teoria del complotto, è uno sparo nel nulla: JFK è ancora vivo. Gabriele Romagnoli