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 2008  giugno 20 Venerdì calendario

Petrolio, la guerra dei pozzi. Corriere della Sera 20 giugno 2008 Nascosto nelle pieghe del Growth Report della Banca mondiale, c’è un numero che spiega il risorgente nazionalismo dei Paesi produttori di petrolio

Petrolio, la guerra dei pozzi. Corriere della Sera 20 giugno 2008 Nascosto nelle pieghe del Growth Report della Banca mondiale, c’è un numero che spiega il risorgente nazionalismo dei Paesi produttori di petrolio. E’ il 13: rappresenta quanti anni sarebbero necessari al Venezuela per raggiungere i livelli di reddito pro capite dell’Ocse, il club delle economie più avanzate, nel caso il Paese sudamericano guidato dal colonnello Chavez riuscisse a crescere al ritmo del migliore tra i suoi ultimi 10 anni. La civilissima Ungheria ne impiegherebbe il doppio. Segnalate senza enfasi in uno studio di Lehman Brothers, due percentuali fanno capire perché il risparmio energetico dei Paesi Ocse non riuscirà a ridurre la domanda mondiale di petrolio. Si tratta delle variazioni del potere d’acquisto di un litro di benzina che, dal 2004 a oggi, aumenta del 34% nei Paesi del Bric (Brasile, Russia, Cina e India) e cala del 43% negli Usa. Per l’economia americana l’energia sta ridiventando sempre più onerosa, e dunque conviene risparmiarla. Per le economie emergenti, che hanno una struttura di costi dove il lavoro incide più dell’energia, spesso offerta a prezzo politico, la propensione ai consumi energetici può aumentare ancora, e dunque per loro il problema è come assicurarsi il maggior numero di pozzi. Il quarto e ultimo numero illuminante è 200 mila. Sono i barili in più che l’Arabia Saudita spillerà dai suoi pozzi entro due mesi elevando a 9,7 milioni di barili al giorno la produzione e con ciò raggiungendo il picco del 1981. Il re Abdullah bin Abdul Aziz Al Saud potrà dire di essere venuto incontro alla Casa Bianca. Ma lungi dal raffreddare i prezzi l’effetto è stato un nuovo clamoroso rimbalzo dei futures al Nymex, il New York Mercantile Exchange, dove il West Texas Intermediate è volato a 139,89 dollari al barile. Evidentemente chi compra a termine crede più alla Goldman Sachs che alla Saudi Aramco, la potente compagnia della casa reale di Riyadh. E la Goldman Sachs, nel suo più recente rapporto, dubita che l’Arabia Saudita possa aumentare nel tempo la produzione di più e meglio delle deludenti major, le quali da anni preferiscono investire in azioni proprie anziché nell’upstream, migliorando la produttività e aprendo nuovi campi per compensare il naturale declino dei giacimenti in produzione: una tendenza difficile da invertire in modo radicale, non foss’altro perché i nuovi giacimenti in acque profonde o le sabbie bituminose alzano di parecchio i costi di estrazione e prima lavorazione del greggio. Per questo Goldman Sachs conferma la clamorosa profezia di marzo che ipotizzava il barile a 150-200 dollari nel giro dei prossimi 6-24 mesi. Del resto, è bastato un incendio nel campo norvegese di Oseberg per far perdere immediatamente 150 mila barili di produzione e ridimensionare la promessa di re Abdullah. La promessa saudita, insomma, servirà a evitare una caduta ulteriore della spare capacity, ovvero della produzione di riserva immediatamente disponibile, la cui scarsa consistenza alimenta la spirale al rialzo dei prezzi, ma non a mutare il segno delle aspettative a lungo termine. Sulle quali, e questo è il punto di svolta, si è scatenato Alexey Miller alzando addirittura a 250 dollari entro il 2009 il prezzo atteso del barile. Poiché Miller è il presidente di Gazprom, colosso di Stato russo, le sue parole suonano come una proposta sulla quale il cartello dell’Opec avrà tutto il tempo per riflettere più che come un’analisi disinteressata. Se questi sono i movimenti reali, la vera partita dell’oggi si gioca sulla ridefinizione dei diritti minerari. Diversamente da quarant’anni fa, quando erano le padrone del mondo, le compagnie internazionali detengono ormai non più dell’8% delle riserve mondiali di petrolio e gas. Possono mobilitare ingenti masse di liquidità, ma le grandi compagnie statali dei Paesi emergenti, nel momento in cui si aprissero ai mercati finanziari, non sarebbero Le quattro sorelle e le compagnie europee integrate hanno capacità imprenditoriali superiori, e dunque possono dare un forte contributo all’esplorazione e alla messa in produzione efficiente dei nuovi giacimenti. Non è un caso se oggi il valore dell’impresa Gazprom (capitalizzazione di Borsa più debiti finanziari) è pari a solo 2,4 volte le sue riserve provate, mentre le major valgono 11,7 volte le riserve e le europee integrate addirittura 21 volte. Ma dal punto di vista di Gazprom (e delle sue società simili) questo significa soltanto che le potenzialità sono enormi. Che Gazprom potrebbe valere non 360 miliardi di dollari, ma un multiplo difficile da dire. Per questo, dentro e fuori il cartello dell’Opec, i «falchi» sono convinti che si debbano rivedere a proprio vantaggio i termini della collaborazione con le compagnie internazionali. Anche a costo di contrasti che rallentano della produzione. In questo contesto, l’affaire Tnk Bp diventa il paradigma di un nuovo conflitto, al momento pacifico, dove la politica di potenza prevale sul gioco di mercato. Tnk Bp è una joint venture paritetica costituita nel 2003 tra Bp, una delle quattro major oggi presieduta dall’ex commissario Ue, Peter Sutherland, e tre oligarchi russi: Mikhail Fridman, boss di Alfa Group, una conglomerata che lo accredita, secondo Forbes, di una ricchezza di 20 miliardi di dollari, Viktor Vekselberg, capo di Renova, alluminio, 11 miliardi di patrimonio, e Len Blavatnik, emigrato a New York, anche lui nell’alluminio, con 8 miliardi. Mentre gli arcirivali della Shell venivano estromessi dal progetto Sakhalin 2, Lord Brown sperava di aver assicurato a Bp un avvenire investendo 7,8 miliardi di dollari, un’inezia vista oggi: Tnk Bp è una società di diritto inglese con sede nelle British Virgin Island, attività in Russia e Ucraina, quartier generale a Mosca. Il suo successore in Bp, Tony Hayward, ha scoperto che era un’illusione. Gli oligarchi accusano il gerente Robert Dudley di lavorare nell’interesse di Londra, quasi Tnk Bp fosse una filiale. Hayward lo difende perché, contando la provincia russa, può dire di rimpiazzare le riserve all’invidiabile tasso del 112% l’anno, mentre senza si troverebbe a un preoccupante 44%. In effetti la performance della joint venture è singolare: mentre in cinque anni i profitti sono aumentati e le riserve ampiamente ricostituite oltre gli 8 miliardi di barili (uno in più dell’Eni, tanto per dare un’idea), il titolo Tnk Bp risulta in perdita rispetto al 2005, unico del settore in Russia. E così, se con Shell era stata aperta un’inchiesta giudiziaria per inquinamento, per Tnk Bp è scattato un procedimento a orologeria per presunte frodi fiscali e Dudley è stato chiamato a testimoniare. Quale sarà il finale non si sa. Certo, denunciare il ritorno alle scorrerie finanziarie della Russia eltsiniana e invocare il rispetto delle regole, come ha fatto Sutherland nei giorni scorsi, non impressiona nessuno a Mosca. Il problema è cosa negoziare. A Londra già intravedono sulla joint venture le ombre lunghe di Gazprom e di Rosneft, l’altro colosso statale russo. Ma Fridman propone una soluzione inedita: cedere a Bp l’intera quota russa di Tnk Bp avendo in cambio azioni della stessa Bp. Secondo il Financial Times, il trio potrebbe arrivare al 10%. Ammesso che basti, una tale partecipazione darebbe ai russi un’influenza notevolissima sull’assemblea di Bp, società a capitale assai frazionato. Sarà questo l’esito, invero rivoluzionario data la storia della major, o per difendere l’Union Jack i pozzi russi torneranno ai russi? Comunque vada, dopo il ruggito degli anni Settanta, i Paesi petroliferi stanno riportando a casa un’altra quota del valore contenuto nel proprio sottosuolo. Accusarli di nazionalismo serve solo a farsi dare dei nostalgici del colonialismo lasciando senza risposta la domanda cruciale: che cosa proporre, e a chi, nella battaglia politico-finanziaria per il controllo dei pozzi che ieri ha toccato il Venezuela, oggi Tnk Bp e domani potrà toccare altre joint venture internazionali? Massimo Mucchetti