La Repubblica 19 giugno 2008, PIETRO CITATI, 19 giugno 2008
Amor cristiano. La Repubblica 19 giugno 2008 Quando abbiamo finito di leggere i meravigliosi Trattati d´amore cristiani del dodicesimo secolo (2 volumi, pagg
Amor cristiano. La Repubblica 19 giugno 2008 Quando abbiamo finito di leggere i meravigliosi Trattati d´amore cristiani del dodicesimo secolo (2 volumi, pagg. CII-3l8, XX-684, Fondazione Valla-Mondadori, euro 27 a volume, eccellentemente curati da Francesco Zambon), veniamo presi da una specie di desolazione. Là si parlava di Dio, dell´anima umana e delle forme diverse dell´amore per Dio; e ogni istante della vita intellettuale e psicologica era avvolto, imbevuto, intriso di Dio, senza che niente gli restasse estraneo. La lingua era la continuazione musicale di quella evangelica. Negli scritti religiosi del nostro tempo, non c´è quasi traccia di Dio: l´ardore e la pienezza dei padri del dodicesimo secolo sono perduti: si chiacchiera, si parla d´altro, si divaga, si polemizza, si discute di politica e di sociologia, si costruiscono mediocri teologie; mentre si dimentica completamente che la lingua cristiana, che nasce dalla musica e dal profumo dei Vangeli, deve ricordarli in ogni frase. Qualche volta, si ha la terribile impressione che il nostro sia un cristianesimo decaduto e degradato. Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, frate Ivo, Riccardo di san Vittore non parlano della vita celeste, ma soprattutto della vita terrena. Sanno di essere ancora lontani da Dio, che sta altrove, lontanissimo, al culmine dei cieli. Ma, mentre abitano questa terra, pregano, viaggiano, predicano, ripetono i riti, essi anticipano la vita celeste, la rendono attuale e quotidiana, come si fosse già incarnata tra le pianure, le colline e i conventi di Europa. Ciò che è futuro è presente. Ciò che è invisibile viene visto. Per usare il robusto linguaggio fisico dei padri, essi pregustano la vita celeste. Il loro amore per Dio cresce: viene via via appagato, ma continua a crescere; non ha fine e non può mai avere fine. Conosce soltanto il desiderio ininterrotto, mai l´ansia. Quanti toni aveva il linguaggio dei Padri! Ora era analitico e preciso come quello del più sottile psicologo: ora corposo come quello della natura: ora pieno di una gioia e di una felicità traboccanti: ora toccava l´estasi: ora sfiorava la follia: ora era liquido e limpido come l´acqua: ora univa la quiete e l´eccesso; ora era moderato e discreto: Soprattutto, era leggero, perché «il giogo del Signore è soave e il suo peso leggero», ripetevano Guglielmo, Bernardo, Aelredo, Ivo, Riccardo, ricordando il passo di Matteo. Il primo segno del Cristianesimo è proprio quello di trasformare tutti i pesi - il peso del dolore, della sventura, della legge, del comando, dell´incertezza, dell´analisi, dell´inquietudine, del dubbio, dell´angoscia - in qualcosa di sovranamente leggero: leggero come il respiro e il battito di una piuma. Chi non conosce la leggerezza, diceva Aelredo, non conosce nemmeno la fede cristiana. [* * *] Il più bello tra questi scritti è probabilmente I quattro gradi della violenta carità di Riccardo di san Vittore: composto attorno alla metà del dodicesimo secolo, nell´abbazia di San Vittore, a Parigi. Che l´amore terrestre e quello divino discendano dalla stessa fonte, era una convinzione diffusa tra i maestri spirituali dell´epoca. Ma Riccardo va più lontano. Descrive i due amori; e vi ritrova la stessa struttura, le stesse manifestazioni, i medesimi gradi: l´amore che ferisce, che lega, che rende languidi, che fa venir meno. Aveva letto san Paolo e il suo inno alla caritas, nella Prima lettera ai Corinzi. San Paolo sottolineava la sobrietà, la misura, la mitezza, la quiete di questa forza, che «tutto sopporta» e ci conduce verso il futuro: Riccardo ne sottolinea, invece, la violenza, la veemenza: sopra i sentimenti di umanità, di amicizia, di parentela e di fraternità, «c´è quell´amore ardente e impetuoso, che penetra nel cuore e infiamma i sentimenti e trapassa la stessa anima fino alle midolla». Queste pagine lucidissime e ardenti non finiscono di meravigliarci. Siamo disposti ad attribuire a questo monaco scozzese la conoscenza dell´amore divino: il suo profondo inoltrarsi in un terreno al di là di ogni psicologia; ma poi ci accorgiamo che egli sa tutto anche del nostro cuore, nessun sentimento umano gli sfugge, nessuna passione terrena gli nasconde il suo aculeo, come se fosse Baudelaire proiettato all´indietro nel dodicesimo secolo. Non importa se egli abbia avuto esperienza del desiderio terreno: o ne abbia letto in un libro; o l´abbia scoperto in sé stesso per intuizione, come accade ai genii. Ciò che conta è la sua idea tragica dell´amore: la sua venerazione per la suprema «grandezza della passione», e la coscienza della catastrofe che essa rappresenta per noi. Quando Riccardo spiega che la passione nasce dal dolore: quando descrive l´ossessione e il carcere, che essa costituisce per la nostra anima; quando racconta la concentrazione, la passività, l´insaziabilità, l´odio nascosto; quando descrive come essa diventi una malattia, una follia e una morte - quanti ricordi echeggiano nella nostra memoria. Tutta la narrativa amorosa d´Occidente sta nascosta in queste poche pagine, e soprattutto l´ultimo romanziere, che ne raccolse ed elaborò la tradizione - Marcel Proust. [* * *] «L´arte delle arti è l´arte dell´amore» scrive Guglielmo di Saint-Thierry; e questa frase potrebbe venire scritta come epigrafe a questi bellissimi trattati, che fioriscono nel dodicesimo secolo in Francia, ricchi e inesauribili come le chiese, che rivestono di «un candido manto la terra». Il fondamento è la frase di san Giovanni: «Dio è amore: chi sta nell´amore dimora in Dio, e Dio dimora in lui». L´amore è visione: è intelligenza: è conoscenza: è verità: è infinito; ed è addirittura superiore a Dio. Tutto risuona in queste pagine: ogni filo si intreccia con altri fili: ogni voce trova voce in altre voci: ogni passo biblico viene incessantemente chiosato; ogni estasi suscita un´altra estasi. All´inizio del suo percorso, l´anima è una mendicante, «allevata in campagna e avvezza a un cibo rozzo», che entra nel salone del Re. Ogni tanto viene ignominiosamente scacciata e violentemente espulsa: ma correndo di continuo alla porta, intempestiva, insistente, affannata, sperando e sospirando, guarda dentro, guarda in alto se le porgono qualcosa e le aprono. E finalmente, con la sua intempestiva insistenza, supera ogni ostacolo e passa e si insinua fino alla mensa interiore della Sapienza, e vi si siede. Sta lì seduta, e piena di desiderio guarda il Signore che la vede mentre lei non lo vede, e a lui offre tutta sé stessa, tutto ciò che è, tutto ciò che può, tutto ciò che sa, e il fatto stesso che languisce e viene meno. «Ma dove posso trovarti, non trovo. Dove sei, Signore, dove sei? E dove, Signore, non sei? So che tu sei con me. Ma poiché tu sei con me, perché anch´io non sono con te? Cosa è di ostacolo? Cosa lo impedisce? Cosa vi si frappone?». L´anima è stanca di vivere nella regione della dissimilitudine: stanca di promesse, segreti oscuri, parabole, specchi e enigmi e riflessi. Vorrebbe la rivelazione faccia a faccia, gli occhi negli occhi. Vive di desiderio, mentre Dio si avvicina e si sottrae. «O presente assenza e assente presenza di colui che nello stesso tempo si perde e si tiene». Così l´anima si slancia verso il Dio nascosto, mentre una dolcezza segreta le tocca appena il cuore. Scossa dai sospiri e svegliata dai propri singhiozzi, non può dissimulare la malinconia, né calmare il fuoco doloroso. Non sa più prendere decisioni, né affidarsi alla ragione: ignora la misura e l´ordine, e si affligge pensando a quando possa ritornare la dolcezza di colui che, per quanto sia veloce, pare sempre troppo lento. Alla fine prova una felicità insperata. «Che cos´è questa felicità che cresce in modo così violento e dolce, al punto che mi sento distaccare da me stessa ed attrarre verso qualcosa che non comprendo? All´improvviso mi sento rinnovata e trasfigurata, provo un benessere che non posso esprimere in parole. Il mio spirito esulta, l´intelligenza diventa limpida, il cuore è illuminato, mi pare di trovarmi in un altro luogo e non so dove». Così l´anima arriva finalmente al proprio culmine. Dio si rivela. E come una piccola goccia d´acqua, versata in molto vino, sembra perdervisi completamente prendendo il gusto e il colore del vino: e come il ferro, tuffato nel fuoco, diventa incandescente e si confonde col fuoco; e come l´aria inondata dai raggi del sole si trasforma in luce - così l´anima si scioglie e si liquefa nella sostanza di Dio. Ma il tocco della grazia è rapidissimo. L´invasione luminosa di Dio avviene di passaggio, in rari momenti, e appena «per lo spazio di un istante», dice san Bernardo. Dio appare e scompare. «Appena il Verbo, rispondendo all´appello delle veglie e delle implorazioni, all´istanza delle lunghe pene e alla pioggia delle lacrime, si presenta, subito fugge alla presa dell´anima che crede di tenerlo. E se accorre a dei nuovi pianti, si lascia afferrare, ma non trattenere, e sfugge ancora a mani che tentano di chiudersi su di lui. E se l´anima si dà una volta di più alle suppliche e alle lacrime, ritorna, ma per scomparire di nuovo». Le due sostanze non si fondono: la sostanza umana non diventa sostanza divina; quella goccia d´acqua non è veramente vino, quel ferro non è fuoco, quell´aria non è luce. Forse tutto è soltanto un lieve gioco di Dio con le tenere e desolate anime umane. Nei Quattro gradi della violenta carità di Riccardo, conosciamo le prime fasi dell´ascesa. L´anima dimentica sé stessa: abbandona le passioni carnali: non ha più volontà né desideri né pene; la mente si sveste di sé, e si affida completamente alla disposizione divina. Ma, in quel punto, avviene il «rapimento» di cui aveva parlato san Paolo: impetuoso, profondo e sovrabbondante. L´anima viene assorbita in Dio: si trasforma, cambia sostanza. Riccardo non parla, e non vuole parlare, di durata: l´estasi non è misurata col tempo. La metamorfosi in Dio è assoluta: questa volta il paragone non viene accompagnato da nessuna riserva. «Quando si getta il ferro nel fuoco, esso si dimostra dapprima scuro e freddo. Ma dopo che è rimasto a lungo nella fiamma, si riscalda un poco alla volta, perde progressivamente il colore scuro, diventando gradualmente incandescente, a poco a poco diventa simile al fuoco, fino a liquefarsi completamente, a perdere tutte le sue proprietà e ad assumerne altre. Allo stesso modo l´anima, assorbita nel rogo dell´ardore divino e nella fiamma di un amore che penetra nel profondo, circondata ogni parte da uno stuolo di desideri eterni, dapprima si riscalda, poi si arroventa, infine si liquefa e perde tutte le proprietà del suo stato precedente «Tutto è fuoco e liquefazione», come dicono i Salmi e i testi del Tao. In questo momento fuori dal tempo, l´anima conosce i misteri della sapienza divina: «quelle parole misteriose che non è lecito all´uomo proferire». Crediamo di essere giunti all´ultimo grado dell´amore: crediamo che l´ascesa si arresti qui, dove il ferro diventa per sempre fuoco, la goccia d´acqua si scioglie per sempre nel vino, e il vento è luce. Come si può andare oltre? Invece, nell´ultimo grado dell´amore, secondo Riccardo, tutto si capovolge. L´anima, che era morta a sé stessa in Dio, rinasce: ma, al tempo stesso cade, precipita, divenuta nuovamente umana; si svuota, si umilia, assume la condizione del servo e del perseguitato. Se prima si era identificata con Dio, ora si identifica con Cristo, e la sua compassione. E se nella contemplazione estatica aveva cessato di agire, ora ritorna attiva: non è più che compassione, desiderio fraterno, carità operosa, con una insaziabilità che ci ricorda il furibondo e insaziabile amore erotico. Credo che sia la pagina più bella che Riccardo di san Vittore abbia scritto. L´anima non è misurata e virtuosa, come qualcuno potrebbe credere: non compie «opere buone»; ma è posseduta da una specie di ebbrezza e di follia, che le fa violare qualsiasi regola. La Bibbia raccontava che Abramo, Mosé e Aronne si erano opposti a Jahvé per amore di Israele, e ora, nel «quarto grado» di Riccardo, l´anima torna ad opporsi a Dio, per amore di Dio e degli uomini, «rendendo la stessa onnipotenza in qualche modo impotente». In questo momento l´uomo si spinge oltre l´umano, come non si era mai spinto. L´Eros celeste e terrestre giunge al culmine del suo excessus; e proprio ora lo incorona la caritas di Paolo - più sonante di ogni bronzo, più squillante di ogni cembalo. Quasi tutti questi testi sono dei capolavori di letteratura, sebbene il cristianesimo, non la letteratura, li abbia ispirati. Come in Agostino, l´eloquenza diventa dolcezza: la dolcezza eloquenza. I versetti biblici ed evangelici danno spunto ad infinite, sottilissime variazioni musicali, che li estendono, li espandono, imbevendo ogni frase del testo. Il procedimento non è mai lineare: non muove da un punto ad un altro: procede a onde, a ripetizioni, a cerchi sempre più vasti, come se soltanto così potesse avvolgere e intenerire il cuore. Dio (o Cristo) è il centro: eppure questo centro non è mai stabile, o è stabile come l´acqua: si sposta, si allontana e poi ritorna, e poi si allontana di nuovo, procede dall´esterno all´interno e dall´interno all´esterno, poiché Dio (e Cristo) abita sempre qui e altrove, e non finisce mai di circondarci da tutte le parti. Vorrei che questi testi fossero sottratti alla conoscenza esclusiva degli specialisti. Vorrei che tutti li leggessero, con una passione molto più intensa di quella che dedichiamo a un romanzo o a un saggio dei nostri giorni. Quel poco, o pochissimo, che conserviamo ancora della tradizione cristiana, può riprendere vita soltanto se lo riaccendiamo al fuoco inesauribile dei Padri: il quale può trasformare ogni freddo ferro in fiamma, ogni acqua in vino, ogni vento in splendore di luce. Quanto ne apprenderebbe il nostro stile. La meravigliosa concentrazione, densità e compattezza, il gioco della variazione e della ripresa, le ansiose domande senza risposta, che ci attraggono tanto in Guglielmo, Bernardo, Aelredo, Ivo e Riccardo, possono scendere su ciò che scriviamo, rendendolo lieve e incandescente. PIETRO CITATI