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 2008  giugno 18 Mercoledì calendario

Il fascino del ring. La Repubblica 18 giugno 2008 Albert Camus, che disputò numerosi incontri da dilettante nella categoria dei pesi medi, definiva la boxe come uno sport «assolutamente manicheo»

Il fascino del ring. La Repubblica 18 giugno 2008 Albert Camus, che disputò numerosi incontri da dilettante nella categoria dei pesi medi, definiva la boxe come uno sport «assolutamente manicheo». Come quasi tutti gli scrittori che si sono occupati di pugilato, non lo ha mai considerato un gioco, alla stregua del calcio o del tennis, e neanche un vero e proprio sport, ma «un rito che semplifica tutto. Il bene e il male, il vincitore e il perdente». La definizione di Camus è utilizzata da Kasia Boddy come incipit di un imponente libro (Boxing, a cultural history, pagg. 480, $ 35), nel quale analizza perché la boxe, a differenza di altre discipline, abbia suscitato sin dall´antichità un enorme fascino nei confronti di scrittori e artisti. Non esistono sport che sono stati raccontati, celebrati e condannati come il pugilato, e questa appassionante storia culturale ha generato negli Stati Uniti un vivace dibattito intellettuale che ha portato alla ripubblicazione del celebre On Boxing di Joyce Carol Oates e all´uscita di un lungo saggio a firma della stessa scrittrice sul New York Review of Books (The Mystery of the Ring), a commento del quale campeggiano Andy Warhol e Jean Michel Basquiat fotografati con i guantoni. I motivi di questo fascino sono molteplici, ed iniziano con un elemento ancestrale: insieme alla corsa, si tratta dello sport più antico, ed ogni incontro porta con sé una forte componente metaforica, un senso di sfida che mette in gioco il senso di dominio e la virilità dei contendenti, e, soprattutto, una straripante potenza evocativa che genera il mito. Ogni incontro che si combatte sul ring ripropone le sfide a cui siamo condannati ogni giorno, e, nello stesso momento, i duelli che hanno combattuto avversari giurati, nemici mortali e cavalieri galanti. Personaggi diversissimi come Jack London e Thomas de Quincy, Lord Byron ed Ernest Hemingway, hanno intuito in quella disciplina brutale la quintessenza di un rito eterno, e ne hanno celebrato la capacità di trasformarsi nella «noble art». Il testo della Boddy spazia dalla letteratura al cinema, dall´animazione alla pubblicità, ricordando tuttavia un paradosso aberrante: ciò che rende spettacolari gli incontri è l´abilità nell´uso della violenza. Le sfide più grandiose e memorabili sono quelle in cui si affrontano un pugile dalla potenza devastante contro un rivale che ha la propria forza nella tattica e l´intelligenza. La storia del pugilato ha dimostrato ripetutamente che sono quasi sempre questi ultimi a prevalere, perpetuando la storia di Davide e Golia: è stato così nelle sfide sanguinose tra Jake La Motta e Ray «Sugar» Robinson (il funambolico pugile di colore prevalse cinque volte su sei nei confronti del campione italo-americano), ed è stato così nell´indimenticabile Ali- Foreman, dove «il più grande», sovvertendo tutti i pronostici, umiliò e mise al tappeto il gigantesco rivale, ritenuto imbattibile. Il rapporto tra intelligenza e potenza trova un vero e proprio itinerario narrativo nella storia dei tre incontri tra Roberto «Mani di pietra» Duran e Ray «Sugar» Leonard. La differenza dei rispettivi soprannomi indica chiaramente le opposte attitudini dei rispettivi pugili, e tra i due non scorreva affatto buon sangue. Nel primo match, Leonard fece l´errore di accettare lo scontro puramente fisico e finì per soccombere alla potenza del rivale, ma nella rivincita impose la propria scienza pugilistica e lo ridicolizzò al punto che Duran abbandonò il combattimento all´ottavo round dopo aver detto «No Mas» (mai più). Venne disputata un´inevitabile bella, nella quale Leonard ribadì la superiorità della propria tecnica e vinse riuscendo a tenere a distanza il campione detronizzato. Il «No Mas» rimase nella leggenda pugilistica così come altre frasi come «Qual è il mio nome?» detto da Ali a Terrell dopo ogni violentissimo colpo (Terrell lo aveva provocato chiamandolo Cassius Clay) e «Non sei riuscito a buttarmi giù», detto da La Motta con il volto sfigurato al vincitore Robinson. Insieme alle frasi, anche i soprannomi rappresentano una suggestiva risorsa letteraria: basti pensare al «Maglio di Manassa» (Jack Dempsey), «il bombardiere nero» (Joe Louis), «la grande speranza bianca» (Gerry Cooney) o agli appellativi che riflettono modi opposti di concepire la professione e forse l´intera l´esistenza: John Sullivan, primo grande campione dei massimi, sceglieva il «forzuto di Boston» per sottolineare il virile orgoglio di appartenenza alla comunità irlandese, mentre il successore Jim Corbett si faceva chiamare semplicemente «il gentiluomo». Il libro dedica molte pagine alla storia del pugilato nell´antichità con riferimenti ai poemi omerici, all´Eneide e perfino a Platone. Ma probabilmente la sezione più interessante è quella relativa al cosiddetto periodo aureo della «noble art»: in piena epoca vittoriana, la boxe cominciò a conquistare anche le classi intellettuali e nobili, ed ispirò scrittori come Washington Irving ed artisti come Hogarth e Gericault. E´ il momento in cui si diffonde l´apprezzamento per l´elemento profondamente umano e nello stesso tempo mitologico di questo sport estremo, e con esso la riflessione su un altro paradosso, su cui Scorsese ha impostato Toro Scatenato: il talento maggiore di un pugile consiste nel saper procurare del male. Joyce Carol Oates teorizza che quando è combattuta al massimo livello, la boxe è più simile agli scacchi che ad una rissa di strada, e gli artisti che cominciarono ad immortalare gli incontri in quel periodo esaltarono il gioco di sguardi, l´eleganza della posa e la paura che incombe in chi sa di essere più debole. Il loro approccio è opposto rispetto a quello di pittori americani quali Thomas Eakins e George Bellows: in particolare quest´ultimo ha esaltato nella boxe gli aspetti più grandi della vita, venandoli in alcuni casi di elementi omoerotici. Ma si tratta quasi sempre di una celebrazione iperbolica, che trasfigura la realtà: nel suo quadro più celebre Bellows immortala il momento in cui Firpo scaraventò Dempsey fuori dal ring, ma in realtà l´incontro terminò dopo che il «Maglio di Manassa» risalí sul ring e mise al tappeto il rivale per sei volte consecutive. Una delle storie più interessanti relative all´epoca vittoriana è quella di Daniel Mendoza, un pugile ebreo che sfidò ripetutamente l´idolo britannico Richard Humphries: gli incontri, pubblicizzati come la sfida tra l´«Ebreo» ed il «Galantuomo», consacrarono definitivamente la diffusione dello sport, e nel giro di poco tempo molti scrittori cominciarono a cimentarsi con i guantoni, tra i quali Conan Doyle. La storia della boxe va di pari passo con quella delle emigrazioni e del razzismo, e nel libro è pubblicata una canzone che iniziava con le parole «gli italiani pugnalano i loro amici alla spalle, ma i britannici sono coraggiosi e gentili e combattono alla luce del sole». Il pugilato spostò il baricentro in America nel Novecento e visse il proprio momento eroico dagli anni trenta agli anni sessanta, prima di iniziare un lungo e forse ineluttabile periodo di declino. Sia l´autrice che la Oates individuano nelle dirette televisive un sintomo di decadenza: la mancanza del contatto fisico o di una cronaca affidata solo a chi aveva il privilegio di essere testimone, minimizza la possibilità di generare il mito a scapito di una condivisione alla portata di tutti. Oggi la boxe è surclassata da sport decisamente più brutali che non hanno alcuno dei suoi elementi di fascino, ma le potenzialità metaforiche e narrative continuano ad affascinare gli artisti. Ma non è un caso che a distanza di venticinque anni da Toro Scatenato, Clint Eastwood abbia realizzato un film di grande potenza e bellezza come Million Dollar Baby, raccontando tuttavia una realtà un tempo inimmaginabile come la boxe femminile. Antonio Monda