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 2008  giugno 18 Mercoledì calendario

E il biondo Sigfrido finì ai piedi di Joe piccolo autista nero. Corriere della Sera 18 giugno 2008 Fu ben più di un match di pugilato: durò appena 124 secondi, un round scarso, ma resterà per sempre nella storia

E il biondo Sigfrido finì ai piedi di Joe piccolo autista nero. Corriere della Sera 18 giugno 2008 Fu ben più di un match di pugilato: durò appena 124 secondi, un round scarso, ma resterà per sempre nella storia. Fu il match che lanciò in orbita la stella di Joe Louis e affossò la carriera di Max Schmeling, protagonisti, loro malgrado, di un evento che andava oltre il significato sportivo. E oltre la gloria, come dice il titolo del serrato e documentatissimo racconto-saggio che l’americano David Margolick ha dedicato a quell’evento sportivo ( Oltre la gloria, il Saggiatore). New York, 22 giugno 1938: sullo sfondo di una sfida fra pesi massimi c’era un mondo che stava scivolando verso la guerra. I due pugili, il nero Louis e l’ariano Schmeling, erano bandiere sventolate dalla propaganda. Hitler nella primavera aveva invaso l’Austria. Nei campi di concentramento era già cominciata l’eliminazione fisica di milioni di ebrei e prigionieri. Il Führer chiedeva allo sport di interpretare a suon di vittorie la superiorità razziale del popolo germanico. Grandi manovre anche al di qua delle Alpi, dove Mussolini, a caccia di muscolosi simboli fascisti, puntava dritto su quell’anima candida del colosso Carnera. L’Olimpiade di Berlino, nel 1936, era stata l’apoteosi dello sport tedesco, appena macchiata da incresciosi episodi come le vittorie in serie del «negro» Jesse Owens. Il pugile Max Otto Adolph Siegfried Schmeling, nato a Luchow nel 1905, soprannominato l’«ulano nero del Reno », era uno degli ambasciatori sportivi della grande e potente Germania. Max aveva vinto il titolo mondiale dei pesi massimi nel 1930, battendo in quattro riprese Jack Sharkey, ma il suo regno era stato breve: due match appena, compresa la rivincita con Sharkey, che nel ’32 lo superò ai punti. Quattro anni dopo, il 19 giugno 1936, aveva affrontato Joe Louis per la prima volta in un match senza titolo in palio. Lo aveva battuto ai punti. La fama di Max era tornata al picco e Hitler intendeva approfittarne. Per il giovane Joe (all’epoca ventiduenne) la sconfitta si trasformò in un incubo e in un’onta da cancellare. Avrebbe continuato a combattere solo per questo: per battere Max Schmeling. Nato in Alabama ma cresciuto a Detroit, Louis nel 1937 era diventato il primo nero dopo Jack Johnson a conquistare il titolo dei pesi massimi: a Chicago aveva piegato James «Cinderella Man» Braddock in otto riprese. Per «the brown bomber» (il bombardiere bruno, diretto riferimento alla sua carnagione non scurissima, termine spesso tradotto in italiano con «nero»), l’occasione per la rivincita con Schmeling scoccò il 22 giugno di 70 anni fa. Tre settimane prima, Louis aveva fatto visita al presidente degli Usa Franklin Delano Roosevelt. Il «New York Times » riportò una frase del presidente: «Joe, abbiamo bisogno dei tuoi muscoli per battere la Germania». Nella sua autobiografia, Louis scrive: «Avevo le mie ragioni per vincere contro Max, ma sapevo anche che un intero Paese contava su di me». Quando Schmeling sbarcò a New York, davanti al St. Moritz Hotel decine di manifestanti lo aspettarono al grido di «Nazi, nazi». Erano pacifisti: un giornale tedesco aveva scritto che il pugile avrebbe offerto la sua paga all’esercito germanico per acquistare qualche carrarmato. La rivincita ebbe luogo allo Yankee Stadium davanti a 70.043 spettatori paganti. Milioni di persone erano collegate via radio in tutto il mondo: la radiocronaca fu fatta in inglese, tedesco, portoghese e spagnolo. Max aveva 32 anni e pesava 87,6 chili. Joe aveva 24 anni e pesava 90 chili. Il match si rivelò meno incerto e spettacolare del previsto: al suono della campana, Louis aggredì come una furia Schmeling, che finì al tappeto tre volte, costringendo l’arbitro Art Donovan a intervenire. Umiliazione pesantissima per il Sigfrido tedesco, oltre a un ricovero in ospedale per sistemare alcune costole rotte: Joe Louis, il bombardiere che portava con sé un intero Paese, aveva vinto in soli due minuti e 4 secondi. Hitler impiegò ancora meno a disconoscere il suo pupillo, al punto da intervenire personalmente per evitare un terzo match fra i due pugili, sicuro che Schmeling avrebbe subito un’altra sconfitta. «Il declino della potenza nazista – fu scritto qualche anno dopo, come riporta anche Margolick, riferendosi a uno dei mille lavori che Louis aveva fatto da ragazzo – ebbe inizio con un gancio sinistro di un autista senza alcuna nozione di politica estera». Scoppio la guerra e Schmeling si arruolò come paracadutista: combattè senza convinzione e, a conflitto terminato, diventò l’icona positiva dello sport della nuova Germania. Nel 1946, le autorità militari britanniche esclusero ogni sua complicità in crimini di guerra. Nel ’93, l’Università americana di Rhode Island produsse un lavoro in cui si certificava che Max Schmeling aveva salvato la vita a due ragazzi ebrei. Morì nel 2005, quasi centenario. Louis, com’era prevedibile, diventò un eroe americano: fu celebrato come il più grande pugile della storia anche da quella parte del Paese che, per convenienza o per gratitudine, aveva «dimenticato» il colore della sua pelle. Dopo Max, il bombardiere difese il titolo ventun volte, attraversando tre anni di inattività causa guerra. Ma invecchiò male, sbagliò gli investimenti, fu travolto dai debiti e morì senza un centesimo in tasca, dimenticato da tutti ma non da Schmeling, che andò a trovarlo ogni anno fino alla sua morte, avvenuta nel 1981. Oltre la gloria, l’amicizia eterna. CLAUDIO COLOMBO