Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  giugno 13 Venerdì calendario

la Repubblica, venerdì 13 giugno Esistono mille buone ragioni per modificare il sistema contrattuale nel mercato del lavoro: non solo un miglioramento di efficienza; ancor più, come argomentano da tempo Pietro Ichino, Tito Boeri, Pietro Garibaldi, una riduzione delle iniquità causate dalla coesistenza di un assetto rigido e antiquato con esperimenti di liberalizzazione privi di reti di protezione, normativa e sindacale

la Repubblica, venerdì 13 giugno Esistono mille buone ragioni per modificare il sistema contrattuale nel mercato del lavoro: non solo un miglioramento di efficienza; ancor più, come argomentano da tempo Pietro Ichino, Tito Boeri, Pietro Garibaldi, una riduzione delle iniquità causate dalla coesistenza di un assetto rigido e antiquato con esperimenti di liberalizzazione privi di reti di protezione, normativa e sindacale. Fra quelle ragioni, tuttavia, ve n´è una che persuade proprio poco, perché non regge alla verifica. Al convegno di Santa Margherita dei "giovani imprenditori" (che non devono essere poi tanti, se nel 2006 in neppure il 2 per cento delle imprese industriali gli imprenditori avevano non più di 35 anni, mentre in oltre 50 per cento ne avevano più di 56), la presidente signora Guidi ha sostenuto che un maggior spazio della contrattazione aziendale (e magari individuale) risolverebbe il problema della bassa produttività del lavoro. Ma si può davvero credere che il disperante andamento negli ultimi sette anni – nell´industria manifatturiera produttività in calo nel quinquennio 2001-2005 e piatta nell´ultimo biennio – sia imputabile all´assetto contrattuale nazionale, e non piuttosto a scelte ragionate delle imprese? Se il livello e la dinamica della produttività del lavoro dipendessero in prevalenza dall´impegno dei lavoratori, pur condizionato dal regime contrattuale, dovremmo concludere che negli ultimi vent´anni si è verificato un impigrimento collettivo della cosiddetta forza lavoro. Si sa invece che le determinanti principali sono la dotazione di capitale e, ancor più, il ritmo dell´innovazione, che migliora l´efficienza dei processi produttivi ed è misurato dalla produttività totale dei fattori. Nell´industria in senso stretto (un aggregato più ampio della manifatturiera) il calo della produttività del lavoro fra il 2001 e il 2006 è spiegato da una riduzione ancor più vistosa della produttività totale dei fattori, mentre è aumentata di poco l´intensità di capitale. L´industria italiana, dunque, non ha innovato (la spesa privata in ricerca e sviluppo in rapporto al prodotto è pari alla metà di quella media europea) e ha investito poco. Le ragioni? Usiamo le parole di una relazione della Banca d´Italia, che fra i problemi della bassa crescita dell´economia italiana mette al primo posto «la capacità di innovare del sistema produttivo»: «L´aumento nella flessibilità dell´utilizzo, la lunga fase di moderazione salariale e la rapida crescita dei flussi migratori hanno reso meno costoso l´impiego del fattore lavoro rispetto al capitale». Si è scelto così un modello basato sulla crescita dell´occupazione piuttosto che sull´investimento e sull´innovazione; e neppure troppo attento al merito individuale, se è vero che «i premi aziendali sembrano poco correlati ai risultati». L´andamento della produttività dipende dunque da scelte libere, e legittime, delle imprese, che il regime contrattuale non sembra aver condizionato più di tanto (se non, come, si è visto, per una maggiore flessibilità). Piuttosto, al di là di noti condizionamenti esterni (eccesso di regolazione, inadeguatezza delle infrastrutture pubbliche, istruzione insufficiente), vi erano condizionamenti interni al sistema produttivo: soprattutto una struttura dimensionale e una composizione della produzione difformi da quelle dei maggiori Paesi europei, che hanno ostacolato l´adattamento al nuovo mondo della tecnologia e della concorrenza internazionale. L´investimento, l´innovazione, e dunque la produttività, sono inversamente correlati alla dimensione; i processi di riconversione produttiva sono lenti e costosi. Non sorprende che, per anni, queste difficoltà abbiano provocato scelte difensive e di retroguardia e, pertanto, gli esiti di produttività sopra richiamati. Le scelte delle imprese non dipendono, grazie a Dio, da un contratto, nazionale o aziendale (e si vorrebbe che non dipendessero per nulla da interventi pubblici). Ma esiste un altro contratto implicito, che alla lunga ne indirizza i comportamenti in vista del profitto: quello del libero scambio in un mercato globale. Gli effetti, benefici, si cominciano a vedere. Da un paio d´anni, mentre è aumentata la mortalità nell´universo delle imprese, quelle che rimangono si rafforzano, per sopravvivere: «La crescente pressione competitiva…e la disciplina del cambio…sono tra i principali fattori che hanno messo in moto la ristrutturazione del sistema produttivo italiano, attraverso un´intensa riallocazione di risorse…in favore delle imprese più efficienti e profondi cambiamenti nelle strategie aziendali». ripresa la crescita delle esportazioni; in alcuni settori l´andamento della produttività ha invertito il segno. La riforma del sistema contrattuale serve: ma, per creare sviluppo, serve soprattutto che il cambiamento del modello seguito per troppo tempo dalle imprese italiane continui e si consolidi. Luigi Spaventa