Libero 12 giugno 2008, FRANCESCO SPECCHIA, 12 giugno 2008
GIULIANO GEMMA
La leggenda sussurata del John Wayne italiano. Libero 12 giugno 2008
In effetti era più funambolo che cowboy. Con con quel fisico a metà fra un peso medio e un acrobata epilettico (e - diavolo - lo era stato, sia boxeur che trapezista), con quel sorriso attiraschiaffi attraversato come un canyon dalla cicatrice dovuta allo scoppio d’un ordigno bellico raccattato in un prato da bambino; bè, insomma, Giuliano Gemma avrebbe voluto essere Burt Lancaster. Quello che zompava dalle balustre, il casinaro, l’eroe allegramente muscolare del "Corsaro dell’Isola verde". Ci teneva proprio. Però il Dio del cinema e delle colt lo rese, suo malgrado, il nostro John Wayne: un bombardiere carico d’onori e valori che mai avresti detto. Due notizie. La buona è che il XXVIII° Fantafestival Internazionale di Roma omaggia Gemma, alla bell’età di anni settanta. E ci produce un brivido d’orgoglio il fatto che si ricordino di lui, dopo il Nastro d’argento 2008 alla carriera, la diffusione in America e Giappone dei suoi film e un saggio che ha spopolato in Spagna ("Giulia no Gemma El factor romano" di Carlos Aguilar ) e un po’ c’imba razza che in una tavola rotonda dal titolo "Il titano dalla pistola facile" oggi si scappellino pure gli stessi critici togati che, prima, l’avevano ritenuto un ceppo di mogano che recitava in sole tre espressioni -e, comunque, sempre una in più di Clint Eastwood-. La notizia cattiva è che questa zaffata celebrativa potrebbe provocare nel vecchio Montgomery Wood - il nome d’arte del suo primo lavoro da protagonista, "Una pistola per Ringo"- un effluvio di rimpianti. Non che sia un problema. Coi rimpianti Gemma ci ha riempito sogni e borracce di quando faceva western nell’Agro Pontino e immaginava di cavalcare con Toro Seduto. Da piccolo voleva fare il ginnasta, ma col suo 1.80, era troppo alto. Si buttò sul ring; ottenne qualche incontro vinto e una tecnica pugilistica che gli consentì, in seguito, di allenare davanti alla macchina da presa il campione del mondo Nino Benvenuti. Passò ai tuffi, al paracadutismo; ma, a differenza del suo coevo Bud Spencer olimpionico del nuoto, non gliene andò bene una. Fino, almeno, al mestiere di stuntman sul set del "Ben Hur" di William Wyler. Fu la sua fortuna: la foto di scena in cui Gemma s’in terpone con un coltello tra Charlton Heston e Stephen Boyd fece il giro del mondo; e Alberto Sordi lo convocò nel suo primo ruolo parlato in "Venezia la luna e tu". Non un granchè ma un inizio. Ma Giuliano aveva sempre la fissa di Lancaster, che riuscì perfino a conoscere, nei panni d’un generale garibaldino, nel "Gattopar do". E, a dire il vero, del contorsionista del set, aveva le physique e la vaporosa follia. Fu il primo italiano a non usare controfigure, un po’ per risparmiare sul cachet un po’ perchè impazziva per i salti, le scazzottate e i cavalli montati a pelo come un Apache. Quando Duccio Tessari lo scelse per il film mitologico più divertente d’ogni tempo, "Arrivano i titani" (’61) il provino fu un triplo salto mortale con sorriso in macchina; ottenuta la parte del titano Crios era costretto, rientrando alla sera nella caserma dei vigili del fuoco dove prestava servizio, a tingere di nero i capelli che durante il giorno si platinavano per ragioni di scena. Vabbè. Aneddoti a parte, bisogna capire perchè Gemma, inesausto traversatore di generi -commedia, western, peplum, denuncia - è il nostro John Wayne. E qui potremmo affermare che il Ringo di Gemma ha la stessa anima nobile odorosa di polvere da sparo di quello dello Wayne di "Ombre rosse". Ma sarebbe troppo facile. Di gemma, invece, bisognerebbe ricordare il suo film più bello. Che non è di indiani e cowboy, ma di mafia e briganti: quel "Prefetto di ferro" (’77) di Squitieri musicato da Morricone dove si staglia, nei panni del funzionario Cesare Mori trasferito da Mussolini nel ’25 da Bologna a Palermo per debellare Cosa Nostra con metodi violenti e anticonvezionali. Un piglio, il suo, a metà fra El Grinta (sigaro compreso), "Un uomo tranquillo" e il tenente Parker, tutti personaggi di wayniana memoria. Potremmo parlare anche dell’unica interpretazione da cattivo accanto a quel genio di Vittorio Gassman: il ruolo del maggiore Matias nel Deserto dei tartari che «nel romanzo di Buzzati è un ciccione laido e autoritario, mentre nel film il regista Valerio Zurlini volle trasformarlo in un militare sadico ossessionato dalla disciplina, mi impose contro tutti e tutto». E vinse un David di Donatello, tanto per sfatare il mito del ceppo parlante di cui sopra. Si potrebbe dire che, nella sua leggenda sussurrata, Giuliano Gemma ha davvero lavorato coi più grandi: Douglas, Hayworth, Fonda, Delon, Deneuve, e via diveggiando. E, come Wayne, non era lui che s’adattava al cinema, ma viceversa. E qui ci affiorano i fotogrammi di "California" e "Sel la d’argento", coi loro eroi spicci dalla morale d’acciaio; e "Tex e il signore degli abissi" col suo senso dell’onore fuoco fatuo scintillante sulla stella da ranger. Amore per la libertà, coerenza, pietà per i vinti. Roba polverosa, tradizionalista. Come Gemma -e lo stesso Wayneche in 50 anni di cinema sono stati noiosamente fedeli alla famiglia e alla propria privacy (Gemma fa anche lo scultore). Gemma, oggi, oltre che a donne e cattolici, piace ai gay. Specie dopo che, ottenendo al test sul grado di omosessualità latente di Costantino della Gherardesca a Markette, un "75%: più di Giurato ma decisamente meno di Giletti", rispose con voce virile: «Oggi ho imparato qualcosa». La colt rimase nella fondina. Ecco, forse col vecchio John non sarebbe successo.
FRANCESCO SPECCHIA