Tuttolibri 24 maggio 2008, ALBERTO PAPUZZI, 24 maggio 2008
Milena Gabanelli. Tuttolibri 24 maggio 2008 Dopo oltre dieci anni di Report e oltre vent’anni di Rai, Milena Gabanelli è diventata il simbolo del giornalismo che non si arrende
Milena Gabanelli. Tuttolibri 24 maggio 2008 Dopo oltre dieci anni di Report e oltre vent’anni di Rai, Milena Gabanelli è diventata il simbolo del giornalismo che non si arrende. Il giornalismo watch-dog, cane da guardia delle libertà democratiche e dei diritti di ciascuno. Quello di denuncia contro gli arbìtri e le malefatte del potere. Quello ostinato di Bob Woodward e Carl Bernstein che portò alla caduta di Richard Nixon. Con il suo gruppo di giornalisti free-lance, piccola telecamera invece del taccuino, domande dirette senza riguardi, la Gabanelli ha percorso l’Italia avanti e indietro, per scavare nei disastri della burocrazia, nelle sacche di arretratezza culturale, nei misfatti del sottobosco politico, ma soprattutto per spiegare i meccanismi che regolano la nostra economia. Figura relativamente nuova nel panorama televisivo italiano, metà investigatrice metà anchorman, con una spontanea capacità di entrare in sintonia con il pubblico dei telespettatori, si è detto che con lei il giornalismo televisivo si è riappropriato dell’inchiesta, è tornato a scoperchiare altarini, ha recuperato il valore della denuncia. Il personaggio è tutto dentro questo modello di giornalista. Per il resto la conduttrice di Report appare schiva e appartata, rispetto ai riti della vita pubblica. L’argomento libri diventa un grimaldello per aprire un varco nel suo stile di giornalista militante, forzando una sua propensione alla laconicità e alla riservatezza. La si interroga sul suo rapporto coi libri per andare oltre l’immagine sul monitor della domenica sera. Ci sono letture che diventano necessarie per il suo lavoro? Che diventano testi di riferimento per esempio per le sue inchieste? «No. Libri che diventano testi di riferimento per le nostre inchieste direi di no. Ci sono invece libri necessari per comprendere il contesto di una vicenda che raccontiamo o di un caso che indaghiamo. Questo succede, senza dubbio. Per esempio con i saggi di Guido Rossi». Cosa pensa del successo dei libri che si occupano della politica, o meglio dell’antipolitica, dalla «Casta» di Rizzo e Stella alle denunce di Travaglio? «Io credo che la gente ha voglia di capire perché non se ne esce più. La Casta è un po’ più populista, Travaglio è forse più per addetti, ma in ogni caso c’è questa voglia di svelare i fatti, di capire perché sia impossibile cambiare i meccanismi. Questi libri rimandano a intrecci ormai ossidati. Ciò almeno è quello che io avverto, anche per i feed-back che ho con Report nella tantissima posta che riceviamo». A proposito del suo lavoro e delle inchieste di «Report», come si concilia una posizione di parte, un’interpretazione dei fatti su una forte tesi, con il problema dell’imparzialità, con quella che gli americani chiamano la «fairness»? «Perché pensa che interpretiamo i fatti su una forte tesi? Di solito il punto di vista matura strada facendo. Spesso si parte con un’idea e si finisce con un’altra». Il suo lavoro quanto tempo le lascia per la lettura? «Pochissimo. Giusto lo spazio dei numerosissimi viaggi in treno… ma è una lettura sempre distratta, interrotta da telefonate, mie, e di quelli che stanno seduti di fronte, di lato, di dietro». Dove compra, in genere, i libri che sceglie e come li sceglie? «In libreria. Mi piace stare nell’ambiente della libreria, avere tempo per sfogliare i libri, sentirne l’odore, leggere delle righe qua e là e comprare qualcosa». Ricorda il primo libro che ha letto, il primo che ha avuto per le mani come lettrice consapevole? «Incompreso, di Florence Montgomery, in quarta elementare». Un classico per ragazzi. Che effetto le fece? Lei si identificava con Humphrey, lo sfortunato protagonista dalla vivacità indomabile, o con il fratellino Miles, tenero e affettuoso, preferito dal padre? «Credo di non essermi identificata con nessuno dei due. Ero ancora troppo piccola. Ricordo però che la storia mi appassionava così tanto che leggevo a tavola, a letto, appena finiti i compiti. Ci pensavo in continuazione, ci stavo proprio dentro, e ci piangevo». Qual è stato il suo rapporto con la lettura da ragazza: ordinato, programmato, secondo i canoni, oppure un po’ casuale, un po’ dispersivo? «Casuale. Leggevo soprattutto quello che mi raccomandava la prof di italiano oppure i libri che mi regalavano i parenti. Dai 14 ai 16 anni ho divorato tutto quello che suggeriva Ciao 2001, poi fino ai vent’anni tutto quello che andava di moda». Ma quali sono stati i suoi autori di formazione? I grandi classici (i russi o i francesi, oppure Dickens, forse Stevenson), o i narratori italiani del secondo Novecento (da Calvino a Levi), oppure libri culto di una generazione? «Direi che mi sono formata sui libri della controcultura americana: Jack Kerouac, con On the Road, il Timothy Leary delle esperienze psichedeliche, e Allen Ginsberg, l’autore dell’Urlo e Jukebox all’idrogeno. Verso il 1970, quando avevo sui sedici anni, la suggestione della beat generation era ancora in vita e se ne parlava molto. Sulla strada era considerato il manifesto degli autostoppisti. Fare l’autostop era allora un modo di essere. Ho fatto così il mio primo viaggio a Londra nel 1971. Era normale. Agli svincoli delle autostrade incontravi dei gruppetti con i cartelli ”Venezia”, ”Brennero”, ”Chiasso”. Le vacanze si facevano in quel modo lì, passandole in parte sulla strada. Andiamo tre giorni in Toscana? Okay. Io e la mia amica Patrizia cominciavamo a chiedere un passaggio dal semaforo sotto casa». Altri autori che l’abbiano influenzata negli anni di formazione? «Ho letto tutto quello che trovavo di Sartre e Simone de Beauvoir. Pensavo di capirci tutto, in realtà non ci capivo niente, in compenso hanno buttato un’ombra di finta depressione sugli anni migliori». In che senso, mi scusi? Forse perché le comunicavano un pessimismo un po’ di moda, secondo una specie di vena esistenzialistica? «Certamente sì, era di moda ”star male”. Ma lo scopri dopo, che ti stavi solo martellando. Comunque La nausea non è una lettura per sedicenni. Dovrebbe essere vietata ai minori di diciott’anni. Di queste letture percepisci un’atmosfera, ma non sei ancora in grado di capirne il significato, perché presuppongono un vissuto che ancora non hai… Però non mi prenda troppo sul serio». In questi anni cosa ha letto? O meglio, quali autori e quali letture l’hanno più coinvolta? «Ho ripreso in mano Conrad. E il Simenon romanziere, non quello di Maigret. Direi che Maigret decisamente non mi piace. Quindi ho letto Sándor Márai e i legal-thriller di John Grisham. Ma gli ultimi due sono abbastanza deludenti». Lei è una lettrice di narrativa e poesia oppure di saggistica e attualità? «Sulla poesia sono molto esigente: o è straordinaria, o non riesco ad andare oltre le prima pagina. Mi piace molto quella dialettale di Raffaello Baldini, anche se devo appoggiarmi alla traduzione perché il dialetto di Santarcangelo di Romagna non lo capisco bene. Per il resto, preferisco la narrativa». Quando è straordinaria la poesia? «La straordinarietà è come l’innamoramento: imponderabile. Diciamo che quando la poesia è troppo educata, troppo ermetica, quando è eccessiva nella costruzione del senso, a me comunica molto poco. Mi coinvolge invece quando sa individuare con precisione la ”parola” che evoca un intero racconto. La spontaneità ha una forza potente, per questo, credo, è molto difficile da trovare. Ci riusciva Emily Dickinson, con certi suoi versi delicati». E come sceglie la narrativa? Ha dei criteri tutti suoi? «Il criterio principale è che quando un autore mi piace cerco di leggere tutto quello che di lui si è pubblicato. Per esempio, tempo fa ho letto Pastorale americana, sono andata via di testa e ho cominciato a leggere tutto Philip Roth. Ma non c’è più stato niente all’altezza di Pastorale americana. Anche Il lamento di Portnoy, se l’avessi letto a suo tempo, probabilmente l’avrei apprezzato di più, adesso suona un po’ datato». Un libro importante che si rammarica di non essere ancora riuscita a leggere? «L’idiota di Dostoevskij» Qual è, alla fine, il libro (o l’autore) cui assolutamente non rinuncia? Quello da portare sull’isola deserta? «Cuore di tenebra di Joseph Conrad». Ci dice il perché? «Perché trovo la forma descrittiva di Conrad tecnicamente insuperabile. Lui non era madrelingua inglese e di mezzo c’è anche la traduzione, un cocktail che ha creato uno stile unico. Poi ci sono una serie di ragioni più personali. Evoca luoghi e atmosfere che ho conosciuto. C’è di mezzo anche uno dei film che ho più amato, Apocalypse Now. O meglio ancora, c’è Kurtz, il personaggio del film interpretato da Brando. Qualche anno fa ho ricostruito in uno speciale di Raitre la storia del vero Kurtz, quello che ha ispirato il film. Era un agente della Cia diventato un personaggio incontrollabile. Era riuscito a addestrare qualcosa come cinquantamila laotiani. Ogni tanto si attaccava alla bottiglia e mandava a quel paese Washington e il Pentagono. Perciò gli americani volevano eliminarlo, ma il suo capo a Vientiane gli dava incarichi che lo spingevano nella giungla, sempre più lontano, sempre più irraggiungibile. Ha continuato a vivere la sua guerra segreta fino al 1996, quando tornò negli Stati Uniti, vecchio e malato. Lo incontrai tre anni dopo a San Francisco. Cuore di tenebra mi ha accompagnato nei numerosi viaggi nel Sud-Est asiatico. Mi ha dato delle suggestioni, mi ha confortato nelle stanze di alberghi, troppo brutti o troppo belli, dove ho transitato». ALBERTO PAPUZZI La vita. Nata a Tassara, frazione di Nibbiano in provincia di Piacenza, vive a Bologna, dove si è laureata al DAMS con una tesi in storia del cinema. sposata ed ha una figlia di nome Giulia. Collabora alla Rai dal 1982. Ha iniziato conducendo programmi di attualità per le tre reti. Le opere. Tre fra le più famose inchieste di «Report» sono state pubblicate, con Dvd, nella Bur Rizzoli (2005). Altre quattro inchieste, sempre per la Bur, e con Dvd di centottanta minuti, sono uscite l’anno scorso con il titolo: «Cara politica. Come abbiamo toccato il fondo».