Deborah Bergamini, Corriere della Sera 11/6/2008, pagina 6, 11 giugno 2008
Corriere della Sera, giovedì 12 giugno Caro Direttore mi sorprende che con tutto questo discutere di intercettazioni (quante, regolamentate come, per quali reati, con che costi), in questi giorni si sia parlato così poco di un elemento invece sostanziale del dibattito: e cioè di quanto negli ultimi anni il massiccio ricorso alle intercettazioni e la loro pubblicazione sui giornali, spesso illegale, stia cambiando per sempre il nostro modo di essere e di rapportarci agli altri (ne ha scritto bene sul Corriere della Sera Piero Ostellino)
Corriere della Sera, giovedì 12 giugno Caro Direttore mi sorprende che con tutto questo discutere di intercettazioni (quante, regolamentate come, per quali reati, con che costi), in questi giorni si sia parlato così poco di un elemento invece sostanziale del dibattito: e cioè di quanto negli ultimi anni il massiccio ricorso alle intercettazioni e la loro pubblicazione sui giornali, spesso illegale, stia cambiando per sempre il nostro modo di essere e di rapportarci agli altri (ne ha scritto bene sul Corriere della Sera Piero Ostellino). E quanto questo cambiamento non sia circoscritto alla cosiddetta casta ma riguardi tutti, nessuno escluso. inappropriato parlare del fenomeno delle intercettazioni come se si riferisse solo al ristretto numero di persone che hanno ruoli di responsabilità nel Paese. In realtà chiunque, in questo sistema, può finire vittima di un meccanismo d’indagine che, se giusto a priori, diventa perverso e pericoloso quando non utilizzato con le necessarie garanzie. Prendiamo il mio caso. Il 21 novembre scorso, ancora nel mio ruolo di direttore Marketing della Rai, vengo svegliata al mattino presto dalla telefonata di un collega che mi annuncia la pubblicazione, su Repubblica, di brogliacci relativi a mie conversazioni telefoniche di oltre due anni e mezzo prima. Scopro così di essere stata ascoltata per un lungo periodo di tempo. La ragione di queste intercettazioni, nonostante i teoremi di giornalisti e avvoltoi vari, a tutt’oggi non mi è chiara. Infatti non ero indagata per alcunché e le intercettazioni riguardavano le indagini sulla presunta bancarotta di un mio amico, Luigi Crespi, con il quale non avevo mai intrattenuto rapporti d’affari. Apprendo inoltre che le bobine con le registrazioni delle mie conversazioni, irrilevanti ai fini processuali e irrilevanti penalmente, anziché essere state distrutte come prescrive la legge, erano state riassunte in brogliacci. Questi ultimi conservati e poi addirittura allegati ai fascicoli processuali, mentre avrebbero dovuto essere stralciati. Infine, a indagini ultimate, messi a disposizione dei legali delle parti interessate al processo; e da lì, grazie ai buoni rapporti che spesso i giornalisti intrattengono con magistrati e avvocati, diffusi sotto forma di dischetti, nelle redazioni di quasi tutti i giornali d’Italia. In quei dischetti erano contenute le mie conversazioni di lavoro e quelle private, comprese quelle con i familiari, con il mio fidanzato di allora, gli sms, insomma tutto. Due cronisti di Repubblica, dopo aver letto il materiale, ne avevano estrapolato una parte e l’avevano pubblicata ipotizzando che quei brogliacci dimostrassero, attraverso alcune conversazioni tra me e un paio di colleghi di Mediaset durante i giorni dell’agonia di papa Giovanni Paolo II e delle concomitanti elezioni amministrative, un rapporto collusivo nella definizione dei palinsesti delle due emittenti. La panna era ormai montata a tal punto che mi sono ritrovata a incarnare il vertice di un’ipotetica "struttura Delta" che per anni avrebbe condizionato, corrotto e manipolato il sistema radiotelevisivo italiano. Poco importa che la collusione non ci sia mai stata, che quelle conversazioni, o meglio i brogliacci di quelle conversazioni (e anche qui bisognerebbe avere ben chiara la differenza), riguardassero solo quei giorni di emergenza della programmazione televisiva. Poco importa che la Rai, dopo due mesi di indagini interne, abbia riconosciuto la correttezza del mio operato; e ancor meno interessa che gli stessi giornalisti che hanno prodotto lo scoop siano indagati per diffamazione. Certo, nei giorni successivi allo scoppio del caso si aprì anche un timido dibattito sulla incostituzionalità di intercettazioni fatte ai danni di una persona non implicata in alcun processo e che, dalle intercettazioni stesse, non risultava aver commesso alcun illecito. Ma la macchina era ormai partita e non poteva essere fermata. Alcuni mesi fa apprendo, sempre da Repubblica, di essere quindi indagata per interruzione di pubblico servizio, presumibilmente non dal magistrato che mi ha fatto intercettare. Alla base delle indagini ci sarebbe un esposto a carico di ignoti, firmato da tre deputati di centrosinistra, presentato alla Procura di Roma nei giorni del polverone mediatico. Da quel 21 novembre io non sono più la stessa persona. La mia vita personale, conservata nel cassetto di una redazione giornalistica o nelle mani di miei ex colleghi di lavoro, è qualcosa di più di un problema giuridico. la violazione del più elementare rispetto della dignità di una persona. un vulnus insanabile prodotto da un’assenza di elementari garanzie. Chiunque potrebbe esserne travolto. Il problema non è discutere sull’utilità delle intercettazioni come strumenti d’indagine, ma sull’abuso e la distorsione di un metodo che può determinare conseguenze irreparabili per la vita delle persone. Abbiamo investito nello sviluppo tecnologico con il miraggio di garantirci una sempre maggiore sicurezza, ma non ci accorgiamo che in cambio dobbiamo rinunciare a porzioni importanti della nostra libertà. Dalle telefonate, agli scambi di mail elettroniche, alle telecamere piazzate ovunque, tutto può essere oggetto di manipolazione. E quel tutto è la vita quotidiana di ciascuno di noi, le nostre relazioni, i nostri rapporti personali, lavorativi e affettivi che ne escono profondamente modificati. Dal dibattito di questi giorni apprendo che l’Italia è il Paese in cui il ricorso alle intercettazioni è più massiccio. Ritengo che esso sia un valido strumento di indagine. Ma come spesso accade nel nostro Paese, il margine fra necessità di indagare e informare l’opinione pubblica e obbligo di tutelare la sfera privata dei cittadini è troppo labile. Mi chiedo se sia giusto, per esempio, ascoltare le conversazioni di chi non è indagato. O consentire che vengano pubblicate. Qual è il criterio in base al quale una persona non indagata viene intercettata? Non c’è. Tutto dipende dalla discrezionalità del magistrato. Continuo a pensare che se io non avessi lavorato come assistente di Silvio Berlusconi per alcuni anni, le mie conversazioni non sarebbero state oggetto di tanto interesse. E mi chiedo anche chi veramente ascolta le telefonate di tante ignare persone. il leggendario "maresciallo" che spesso con ironia in molti salutiamo alla fine delle nostre chiacchierate, o sono "collaboratori" di società private che ricevono l’appalto per svolgere le intercettazioni? E in questa eventualità, il materiale raccolto come viene trattato? Dove va a finire? Chi lo conserva e come vengono protette le persone da un suo possibile uso distorto? Mi auguro che su un tema così fondamentale, il dibattito tra politica, magistratura e mondo dell’informazione superi ogni contrapposizione strumentale e rimetta al suo centro l’individuo e i suoi diritti. Deborah Bergamini