MilanoFinanza 7 giugno 2008, Paolo Panerai, 7 giugno 2008
ORSI & TORI. MilanoFinanza 7 giugno 2008 E dunque anche l’affabile Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea (Bce), dopo tre anni di vita a Francoforte, è diventato un duro, anzi un durissimo
ORSI & TORI. MilanoFinanza 7 giugno 2008 E dunque anche l’affabile Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea (Bce), dopo tre anni di vita a Francoforte, è diventato un duro, anzi un durissimo. E mentre molti si aspettavano che l’ex governatore della Banque de France inclinasse a un’interpretazione più flessibile del mandato della banca europea, voilà, ha annunciato che, al prossimo turno di revisione dell’andamento dei prezzi, i tassi di interesse ufficiali, invece di diminuire, aumenteranno. Doccia fredda per chi credeva che nonostante lo statuto imponga alla Bce di preoccuparsi in primo luogo, se non esclusivamente, dell’andamento dell’inflazione, questa volta, vista la caduta della crescita europea, con gli Stati Uniti in balletto permanente sul filo della recessione, a Francoforte avrebbero dato almeno un segnale di incoraggiamento a favore dello sviluppo e della crescita economica. Al peggio si sperava nel silenzio, invece Trichet ha parlato chiaro: a luglio i tassi europei risaliranno di almeno 1/4 di punto. Scenario quindi ribaltato, anche per il cambio euro-dollaro, con la moneta americana che sembrava aver preso la via del recupero, mentre il segnale di Francoforte, se non ha fatto invertire completamente la rotta, ha comunque rallentato di molto, fin quasi all’arresto, il tentativo di risalita del biglietto verde. Lo sconforto è ripiombato nei mercati azionari, poiché alle parole di Trichet si sono associate analisi di banche su altre banche che prevedono tempi duri per istituti europei come Crédit Suisse e Ubs. Il paradosso, casomai, è che queste analisi vengano da banche come SocGen, il colosso francese dai piedi d’argilla che ha già provato il morso della svalutazione degli asset per miliardi e miliardi di dollari. Sta di fatto che, così come l’anticiclone delle Azzorre non riesce a entrare nel bacino del Mediterraneo e quindi il brutto tempo è prevalente in tutto il Vecchio continente, anche il clima economico si è fatto pessimo. Ma la domanda importante da porsi è se si tratterà di una condizione passeggera, come il tempo meteorologico, oppure se l’autunno sarà molto freddo. La classifica delle principali società mondiali diffusa da Mediobanca indica che la mappa del potere economico è cambiata con lo spostamento a Est. Ai vertici non ci sono più i grandi colossi statunitensi ma la giapponese Toyota (per totale attivo) e poi una europea, Royal Dutch Shell, quindi la russa Gazprom, mentre per capitalizzazione in borsa il numero uno è Petrochina con ben 466 miliardi. Il segno che l’economia mondiale dipende sempre molto da quella statunitense, ma assai meno che nel passato. C’è anche chi quantifica: prima quasi il 30%, oggi intorno al 18%. Effetto della globalizzazione, dell’enorme crescita dell’Asia e in particolare dei colossi Cina e India, ma anche della politica attuata dall’amministrazione di George Bush, che puntando sulla guerra ha fatto salire alle stelle il deficit statale americano e quindi per cercare di rilanciare l’economia ha fatto scendere di molto il valore del dollaro, sì da accrescere l’export e limitare l’import. Peccato che in dollari sia denominata la principale materia prima che alimenta il sistema, cioè il petrolio, che anche per questo deprezzamento della moneta americana è salito alle stelle, a valori che non si erano mai visti e che se fossero stati presi in considerazione da un gruppo di saggi economisti solo alcuni anni fa, come ha acutamente notato l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, il crollo vero dell’economia mondiale sarebbe stato la previsione meno pessimistica. Invece, l’economia non va bene, la finanza è stata travolta ancora una volta dagli errori principalmente americani, delle grandi banche d’affari del paese seguite da alcune europee, in particolare svizzere, ma il sistema produttivo è tutt’altro che al crollo. Piuttosto, è in atto una vera rivoluzione degli equilibri di forza economica che finiranno, nel giro di pochi anni, per modificare ulteriormente la mappa del potere. Infatti, mentre tutti guardano agli Stati Uniti, all’Asia e infine all’Europa, c’è molta disinformazione su che cosa sta accadendo nel continente tuttora più ricco di materie prime e tuttora più sottosviluppato, il continente Africa. Strisciante, silenziosa e per questo subdola, nei più ricchi paesi africani è in atto una nuova forma di colonizzazione-occupazione da parte della Cina. Rivolgendosi a regimi che per anni hanno perseguito l’ideologia marxista, la Repubblica Popolare di Cina offre aiuti tecnologici e organizzativi, ma in cambio chiede contingenti di immigrazione di popolazione cinese che in alcuni casi sono pari a milioni e milioni. Con un risultato chiarissimo: l’occupazione del territorio, sistemando così gli eccessi di popolazione in patria, ma anche la presa delle leve principali di quei paesi. Emblematico il caso del Congo, ex Zaire, snervato da una dittatura più che ventennale di Mobutu, ma ricchissimo di minerali strategici per l’elettronica; di diamanti; di capacità produttiva di energia grazie all’immenso flusso di acqua del fiume Congo. La popolazione vive in miseria, ma ora è stato raggiunto un accordo appunto con la Cina, che si è impegnata a fornire tecnici qualificati e un esercito di lavoratori addestrati. L’ambasciatore cinese in Congo, parlando nella trasmissione Report, usava il tono del benefattore e in un certo senso lo è, ma con un fine preciso: far succedere nell’immenso continente africano quanto, per esempio, è avvenuto nell’Isola Mauritius, dove oggi tutte le leve economiche sono in mano a famiglie indiane, che hanno trasformato l’isola cara ai turisti anche nel paradiso delle holding di Mumbai o di Delhi. Di fronte a questa avanzata, il mondo occidentale, a cominciare dagli americani, sembra immobile, quasi inconsapevole. Ma non ci vuole molto a capire che nel giro di qualche quinquennio quei paesi oggi apparentemente alla fame diventeranno consumatori di tutti i prodotti che escono dalle fabbriche cinesi. Come dire che la nuova frontiera, in un certo senso, non è più né la Cina né l’India: chi ha la capacità di guardare lontano deve volgere lo sguardo verso l’Africa, avendo la capacità di integrarsi o di prevalere con i nuovi coloni cinesi. A parte gli slogan che escono dai periodici convegni sull’Italia come centro di riferimento nel Mediterraneo e quindi piattaforma per lo sviluppo dell’Africa, oggi il Bel Paese sta facendo ben poco per conquistare mercati che a breve potranno garantire la crescita non più asfittica del sistema economico nazionale. Un’intuizione che ha spinto la più criticata delle aziende italiane, la berlusconiana Mediaset, a investire, insieme al partner storico Tarak Ben Ammar, nella prima televisione privata tunisina. Il raggio d’azione è tutto il Maghreb, con oltre 90 milioni di telespettatori che finora hanno avuto come riferimento soprattutto la Francia, dove la pubblicità è agli esordi, e dove la fase dell’industrializzazione è molto vicina. Comunicare con programmi italiani vuol dire creare le premesse per vendere prodotti italiani. Ma il raggio d’azione di Mediaset e del tunisino Ben Ammar è per ora solo il Maghreb, cioè il Nordovest dell’Africa, e lo strumento solo un canale televisivo. L’opportunità è di rinvigorire lo spirito da conquistatori degli esportatori italiani perché si preparino a rastrellare quote di mercato in paesi che, di qui appunto a qualche quinquennio, saranno formidabili consumatori. Ma, oltre che consumatori, questi paesi saranno anche attrattori di turismo. Anche questo aspetto dovrebbe essere messo a frutto dal Bel Paese, che da solo possiede 43 bellezze giudicate patrimonio dell’intera umanità dall’Unesco e che se vuole uscire dalla morsa della Bce e tentare uno sviluppo superiore a quello del passato non ha che da coniugare appunto l’industria del turismo e il dialogo commerciale e industriale con i principali paesi dell’Africa, il cui sbocco naturale, come infaustamente dimostrano i continui sbarchi clandestini, è proprio il Mediterraneo, in cui la penisola costituisce il molo naturale di attracco. Queste prospettive valgono per tutti i tipi dell’industria italiana, anche quella delle infrastrutture e dei servizi. Si prenda Telecom Italia: durante la fase statale aveva attuato una forte espansione proprio nel Mediterraneo; le conseguenze di indebitamento dell’opa non hanno fatto altro che imporre l’uscita da tutti i mercati dove era stata conquistata una posizione importante. Alla ricerca di nuovi sviluppi, oltre il Sud America, l’Africa è il continente di più naturale espansione per l’azienda guidata con determinazione da Franco Bernabè. Ma per poter sfondare in Africa occorre una politica estera italiana forte; un’unione fra diplomazia politica e diplomazia commerciale: la famosa unione fra il ministero degli Esteri e il ministero del Commercio estero che invece, ancora una volta per questioni di potere e di equilibri, sono rimasti separati, e il commercio estero al livello di sottosegretariato all’interno del ministero dello Sviluppo economico. C’è da augurarsi che il sottosegretario Adolfo Urso voglia e sappia dialogare con il ministro degli Affari esteri, Franco Frattini, formando un fronte unico, per far vincere l’industria Italia. Come si vede, il tempo economico ha volto apparentemente al peggio, ma se solo si ha il coraggio di alzare lo sguardo, di recuperare la capacità di intraprendere, com’è nello slogan di Capital, il mensile di Class Editori, che controlla questo giornale, le possibilità di crescita sono infinite. Se lo hanno capito in Cina, perché non lo si deve capire in Italia? E poi c’è il Polo Nord, un’altra frontiera di conquista dove oggi dominano i russi di Vladimir Putin. Proprio alla conquista del Polo Nord, Capital ha dedicato la copertina del numero che sta per arrivare in edicola. Una boccata d’ossigeno, anche se gelato, per sperare e puntare sulla creazione di nuova ricchezza, dopo troppi anni in cui in Italia la ricchezza è stata sia consumata che distrutta. (riproduzione riservata) Paolo Panerai Mediobanca indica che la mappa del potere economico è cambiata con lo spostamento a Est. Ai vertici non ci sono più i grandi colossi statunitensi ma la giapponese Toyota (per totale attivo) e poi una europea, Royal Dutch Shell, quindi la russa Gazprom, mentre per capitalizzazione in borsa il numero uno è Petrochina con ben 466 miliardi. Il segno che l’economia mondiale dipende sempre molto da quella statunitense, ma assai meno che nel passato. C’è anche chi quantifica: prima quasi il 30%, oggi intorno al 18%. Effetto della globalizzazione, dell’enorme crescita dell’Asia e in particolare dei colossi Cina e India, ma anche della politica attuata dall’amministrazione di George Bush, che puntando sulla guerra ha fatto salire alle stelle il deficit statale americano e quindi per cercare di rilanciare l’economia ha fatto scendere di molto il valore del dollaro, sì da accrescere l’export e limitare l’import. Peccato che in dollari sia denominata la principale materia prima che alimenta il sistema, cioè il petrolio, che anche per questo deprezzamento della moneta americana è salito alle stelle, a valori che non si erano mai visti e che se fossero stati presi in considerazione da un gruppo di saggi economisti solo alcuni anni fa, come ha acutamente notato l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, il crollo vero dell’economia mondiale sarebbe stato la previsione meno pessimistica. Invece, l’economia non va bene, la finanza è stata travolta ancora una volta dagli errori principalmente americani, delle grandi banche d’affari del paese seguite da alcune europee, in particolare svizzere, ma il sistema produttivo è tutt’altro che al crollo. Piuttosto, è in atto una vera rivoluzione degli equilibri di forza economica che finiranno, nel giro di pochi anni, per modificare ulteriormente la mappa del potere. Infatti, mentre tutti guardano agli Stati Uniti, all’Asia e infine all’Europa, c’è molta disinformazione su che cosa sta accadendo nel continente tuttora più ricco di materie prime e tuttora più sottosviluppato, il continente Africa. Strisciante, silenziosa e per questo subdola, nei più ricchi paesi africani è in atto una nuova forma di colonizzazione-occupazione da parte della Cina. Rivolgendosi a regimi che per anni hanno perseguito l’ideologia marxista, la Repubblica Popolare di Cina offre aiuti tecnologici e organizzativi, ma in cambio chiede contingenti di immigrazione di popolazione cinese che in alcuni casi sono pari a milioni e milioni. Con un risultato chiarissimo: l’occupazione del territorio, sistemando così gli eccessi di popolazione in patria, ma anche la presa delle leve principali di quei paesi. Emblematico il caso del Congo, ex Zaire, snervato da una dittatura più che ventennale di Mobutu, ma ricchissimo di minerali strategici per l’elettronica; di diamanti; di capacità produttiva di energia grazie all’immenso flusso di acqua del fiume Congo. La popolazione vive in miseria, ma ora è stato raggiunto un accordo appunto con la Cina, che si è impegnata a fornire tecnici qualificati e un esercito di lavoratori addestrati. L’ambasciatore cinese in Congo, parlando nella trasmissione Report, usava il tono del benefattore e in un certo senso lo è, ma con un fine preciso: far succedere nell’immenso continente africano quanto, per esempio, è avvenuto nell’Isola Mauritius, dove oggi tutte le leve economiche sono in mano a famiglie indiane, che hanno trasformato l’isola cara ai turisti anche nel paradiso delle holding di Mumbai o di Delhi. Di fronte a questa avanzata, il mondo occidentale, a cominciare dagli americani, sembra immobile, quasi inconsapevole. Ma non ci vuole molto a capire che nel giro di qualche quinquennio quei paesi oggi apparentemente alla fame diventeranno consumatori di tutti i prodotti che escono dalle fabbriche cinesi. Come dire che la nuova frontiera, in un certo senso, non è più né la Cina né l’India: chi ha la capacità di guardare lontano deve volgere lo sguardo verso l’Africa, avendo la capacità di integrarsi o di prevalere con i nuovi coloni cinesi. A parte gli slogan che escono dai periodici convegni sull’Italia come centro di riferimento nel Mediterraneo e quindi piattaforma per lo sviluppo dell’Africa, oggi il Bel Paese sta facendo ben poco per conquistare mercati che a breve potranno garantire la crescita non più asfittica del sistema economico nazionale. Un’intuizione che ha spinto la più criticata delle aziende italiane, la berlusconiana Mediaset, a investire, insieme al partner storico Tarak Ben Ammar, nella prima televisione privata tunisina. Il raggio d’azione è tutto il Maghreb, con oltre 90 milioni di telespettatori che finora hanno avuto come riferimento soprattutto la Francia, dove la pubblicità è agli esordi, e dove la fase dell’industrializzazione è molto vicina. Comunicare con programmi italiani vuol dire creare le premesse per vendere prodotti italiani. Ma il raggio d’azione di Mediaset e del tunisino Ben Ammar è per ora solo il Maghreb, cioè il Nordovest dell’Africa, e lo strumento solo un canale televisivo. L’opportunità è di rinvigorire lo spirito da conquistatori degli esportatori italiani perché si preparino a rastrellare quote di mercato in paesi che, di qui appunto a qualche quinquennio, saranno formidabili consumatori. Ma, oltre che consumatori, questi paesi saranno anche attrattori di turismo. Anche questo aspetto dovrebbe essere messo a frutto dal Bel Paese, che da solo possiede 43 bellezze giudicate patrimonio dell’intera umanità dall’Unesco e che se vuole uscire dalla morsa della Bce e tentare uno sviluppo superiore a quello del passato non ha che da coniugare appunto l’industria del turismo e il dialogo commerciale e industriale con i principali paesi dell’Africa, il cui sbocco naturale, come infaustamente dimostrano i continui sbarchi clandestini, è proprio il Mediterraneo, in cui la penisola costituisce il molo naturale di attracco. Queste prospettive valgono per tutti i tipi dell’industria italiana, anche quella delle infrastrutture e dei servizi. Si prenda Telecom Italia: durante la fase statale aveva attuato una forte espansione proprio nel Mediterraneo; le conseguenze di indebitamento dell’opa non hanno fatto altro che imporre l’uscita da tutti i mercati dove era stata conquistata una posizione importante. Alla ricerca di nuovi sviluppi, oltre il Sud America, l’Africa è il continente di più naturale espansione per l’azienda guidata con determinazione da Franco Bernabè. Ma per poter sfondare in Africa occorre una politica estera italiana forte; un’unione fra diplomazia politica e diplomazia commerciale: la famosa unione fra il ministero degli Esteri e il ministero del Commercio estero che invece, ancora una volta per questioni di potere e di equilibri, sono rimasti separati, e il commercio estero al livello di sottosegretariato all’interno del ministero dello Sviluppo economico. C’è da augurarsi che il sottosegretario Adolfo Urso voglia e sappia dialogare con il ministro degli Affari esteri, Franco Frattini, formando un fronte unico, per far vincere l’industria Italia. Come si vede, il tempo economico ha volto apparentemente al peggio, ma se solo si ha il coraggio di alzare lo sguardo, di recuperare la capacità di intraprendere, com’è nello slogan di Capital, il mensile di Class Editori, che controlla questo giornale, le possibilità di crescita sono infinite. Se lo hanno capito in Cina, perché non lo si deve capire in Italia? E poi c’è il Polo Nord, un’altra frontiera di conquista dove oggi dominano i russi di Vladimir Putin. Proprio alla conquista del Polo Nord, Capital ha dedicato la copertina del numero che sta per arrivare in edicola. Una boccata d’ossigeno, anche se gelato, per sperare e puntare sulla creazione di nuova ricchezza, dopo troppi anni in cui in Italia la ricchezza è stata sia consumata che distrutta. (riproduzione riservata) Paolo Panerai