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 2008  giugno 12 Giovedì calendario

Quella volta radiosa che esprime l’incontro tra terra e cielo. L’Osservatore Romano, giovedì 12 giugno Tra arte e religione c’è oggi un problema grande come il mare, vecchio peraltro di quasi tre secoli

Quella volta radiosa che esprime l’incontro tra terra e cielo. L’Osservatore Romano, giovedì 12 giugno Tra arte e religione c’è oggi un problema grande come il mare, vecchio peraltro di quasi tre secoli. In tal senso si è espresso, per esempio, tempo fa, anche Timothy Verdon, su questi stessi fogli in un articolo emblematicamente intitolato: Quando si è spezzato il filo dell’arte sacra. Oggi però il problema ha raggiunto il massimo. La gente, in Italia se vuole vedere cose belle nelle città, va nei centri storici, va dove sa di trovare ancora la bellezza. Anzi, va nelle chiese: in una qualsiasi delle cento e mille chiese dei centri storici. Credenti e non credenti, se vogliono esser certi di trovarsi davanti a qualcosa che profumi di bellezza, di umanità, di armonia e allo stesso tempo faccia come respirare la vita, vanno a tirar su sguardi e nasi in quei "giardini dell’arte e del sacro" che sono le chiese di cui l’Italia è fiorente. La gente va nelle chiese antiche: paleocristiane, medievali, rinascimentali o barocche che siano. Le più recenti, a parte rare eccezioni, le trascura. Perché mai ci si trova sempre così bene quando entriamo in una chiesa carica di sacro e di bellezze antiche - di cui ci deliziamo non perché "antiche", ma perché "bellezze" - e invece, quando si entra in chiese che tentano di caricarsi di sacro e di bellezze nuove, moderne, sovente ci sentiamo avvolti di freddo, di vuoto; persino respinti? Respinti non perché "nuove", "moderne", ma perché non "bellezze"; talvolta perfino tristi, angoscianti, frigide, poco emozionanti, sciatte, a meno che la beltà non abbia cambiato veste. Magari le bellezze antiche non fossero solo antiche! Magari fossero anche "moderne": di artisti d’oggi dal cuore gonfio di religione come erano gonfi i cuori di Giotto, di Michelangelo; persino di quel gran peccatore di Caravaggio! Quando entriamo in una chiesa, antica o moderna che sia, il cuore ci chiede "se ci si trovi a casa o no": e succede che noi gregge, noi gente semplice, noi popolo, quando contempliamo le architetture, gli affreschi, i mosaici, le vetrate, i quadri sacri, quando guardiamo le volte, o le meravigliose cupole, quando sfogliamo uno dei tanti libri di orazioni, ci sentiamo a casa, e ci si allarga il cuore, perché ci sentiamo nel nostro habitat naturale, come possiamo dietro il nostro Buon Pastore, nella serenità dei suoi pascoli benedetti e solari. "Stare a casa" quando fuori c’è tempesta è la promessa del Signore, e la gente semplice, la sua gente, si fida di lui, perché fuori del suo cuore, fuori casa sua, può succedere di tutto, ma chi sta dentro - quasi come san Pietro che fino a che ebbe fede nel Signore poté camminare sulle acque del lago in tempesta - è protetto, è rassicurato, è in pace, ed è quanto basta, come dice il salmo: "Una cosa solo ho chiesto al Signore, questa solo io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario" (26, 4). Non possono forse, questi nostri bei "Giardini", rinverdirsi ancora, oggi, e suscitare ancora, oggi, lo stesso struggimento di ieri, lo stesso emozionante sentimento di pace e di appagamento interiore, con nuovi fiori di arte, nuovi boccioli di bellezza, nuovi germogli e profumi di sacro, che sappiano come quelli antichi di calda umanità, di santa verità, di rispondenza piena e riposante alla semplicità dei cuori? Certo che possono. Fino a ieri sembrava quasi che a ogni messa, nella casa di Dio che è la chiesa, dalle sagrestie uscissero idealmente cortei di chierici e sacerdoti per celebrare i sacri misteri e uscissero dai "giardini dell’arte" cortei di pittori, musicisti, scultori, architetti, poi di coristi, miniaturisti, vetrai, scalpellini, esperti di ogni musa, a mostrare con l’arte il Nascosto celebrato; sicché a ogni messa l’Arcano di giorno in giorno sempre più rapiva e la sua beltà di giorno in giorno sempre più ci avvolgeva. A ogni messa più nobile la religione, a ogni messa più bella l’arte: il loro raggio penetrava il tempo, trasfondendoci la meraviglia. Pare dunque che le cose si possano mettere così: che fino a un due o tre secoli fa l’arte per millenni si sia compenetrata di religione - cioè della verità della religione - e viceversa la religione si sia compenetrata dell’arte - cioè della bellezza della religione - assecondando l’alta sentenza per la quale verità e bellezza si intrecciano in un’unica danza - pulchrum in vero et verum in pulchro conventuntur - mentre poi, decadendo gli uomini nello spirito del secolo malgrado gli sforzi incessanti della Chiesa, l’arte diventa sempre più finta, e la tensione di far entrare l’arte nella religione permane solo qua e là: è perso il moto inverso - e che dovrebbe aversi pure "prima" - di far entrare la religione nell’arte. Ma l’arte è ancora arte, se "prima", come spugna, non si imbibisce di religione? Forse che l’arte nasce da se stessa? Le fonti delle dolci e limpide acque della bellezza sono nel sacro, nella religione: sono in Dio Trinità. Ma bisognerà capire meglio come ciò avvenga, e cosa poi ne consegua per noi. San Tommaso insegna che le relazioni tra le persone trinitarie sono dovute alla nascita ab æterno dal Padre della seconda Persona, nascita o generazione che in qualche modo è come quella di un concetto - o idea - da una mente: la mente del Padre, principio senza principio, genera in sé un concetto che la pensa, che ne è lo splendore e che la rispecchia perfettamente. A tale concetto generato dal Padre l’Angelico riconosce allora, cioè solo per tali motivi, quattro Nomi (Summa Theologica, I, 34, 2, ad 3), i quali esprimono a noi, menti limitate, i suoi quattro requisiti personali di Unigenito di Dio: egli ha nome Figlio, Splendore, Imago (o Volto, o Specchio) e infine Verbum (o Pensiero, o Lògos). La cosa si capisce meglio se, riprendendo qui un esempio già conosciuto ma incline a vasti sviluppi, si pensa a una di quelle belle cupole del barocco italiano - simile in qualche modo alla nuca di un uomo - nelle cui volte si stendono gli affreschi delle glorie celesti: struttura architettonica e affreschi sono tutt’uno. E noi vediamo che dalla volta della cupola emerge l’affresco, come fosse generato dalla cupola: nasce in tutto il suo splendore la visione emozionante, fulgida e viva di quanto quasi viene "pensato" dalla "mente" rappresentata dalla cupola: "La Trinità rimira in sé le proprie beate Persone e la loro inesprimibile "liturgia"; in tale liturgia rimira anche la propria infinita bontà partecipata all’uomo, alla sua Chiesa, per il tramite della liturgia di Cristo che si compie sull’altare: dalla volta dei Cieli il Padre benedice e accetta il santo sacrificio". Le pietre, infiammate di vita, accendono un affresco. L’affresco, come la seconda Persona della Santissima Trinità, è in primo luogo un "figlio" generato dall’immensità della volta; coi suoi colori e le sue luci celesti è poi il suo liturgico "splendore"; con le figure di santi, di angeli e delle stesse tre divine Persone è inoltre il suo "volto"; infine, con la verosimiglianza e l’identificazione di tutte queste cose così precisamente rappresentate, è il suo "lògos", il suo "pensiero". L’esempio ci aiuta a capire le cause per cui l’aquinate ritiene di dover indicare per la santa e misteriosa realtà della seconda Persona quattro nomi, e proprio quei quattro. Tanto è efficace questa figura che se invece si prova a prendere a esempio la cupola del santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano, dove solo con gran fatica si intravedono i segni delle sinopie preparate da Bramante per illustrare le glorie celesti, a cui però, per improvvisa mancanza di fondi, non seguirono le stesure dell’affresco, si vede subito che le cose sono ferme a metà: la "mente" della cupola bramantesca non partorisce "come un figlio" l’affresco, non emana dunque lo "splendore" che dovrebbe infiammarla di colori, non esprime il sublime "pensiero" che invece ci si aspetterebbe che esprimesse. una bellissima cupola, è anzi espressivamente unica, ma, così incompiuta - Bramante ci perdonerà - resta "vuota di sé". L’esempio chiarisce però ciò che ci serve: quando ci troviamo in certe cupole del rinascimento o del barocco italiano vediamo in qualche modo la Trinità, e constatiamo poi quanto siano decisivi, per "vederla", quei quattro nomi così ben individuati da san Tommaso. Non possiamo in specie fare a meno di notare che se provassimo a toglierne uno, anche uno solo dei quattro, subito verrebbero meno anche gli altri tre, come succede a Santa Maria delle Grazie, dove la mancanza di colore, vale a dire dello "splendore", frena e dissolve la nascita del "figlio", che è a dire il suo "volto", dunque il suo "pensiero". Per cui non si può dire che la cupola del Bramante riesca a essere figura della Trinità come lo sono altre, per esempio quella della Chiesa del Gesù a Roma. Ed egualmente non lo sarebbe se invece che i colori, che esprimono bene il nome "splendore", mancassero le figure ancora presenti nelle sinopie, a cui è accostabile il nome "Volto", o la loro identificazione, per esempio di angeli, di vergini, di martiri, di apostoli, di Marie, di Cristi, per le quali sono richieste verosimiglianze e tratti una volta persino legiferati canonicamente da esimii cardinali come Gabriele Paleotti col suo Discorso intorno le Immagini Sacre e Profane, verosimiglianze e tratti appropriabili al nome Lògos, o Verbum, che indica che ogni figura o colore è rigorosamente asservito allo scopo di identificare qualcosa di reale e dunque di riscontrabile. Chiediamoci allora: è possibile illustrare in modo simile - per cui risulti mancante anche uno solo degli attributi accostabili ai quattro nomi dell’Unigenito - una qualsiasi delle belle cupole in cui rimiriamo sopra di noi la visione dei Cieli, cioè la Trinità? Proviamo a immaginare così la più celebre cupola del mondo: San Pietro. Immaginiamo di illustrarvi la visione cancellandone l’Imago e sostituiamo i magniloquenti mosaici del Cavalier d’Arpino con segni, tratti, colori e materiali puramente simbolici, che cioè illustrino angeli e santi della visione non realisticamente, ma astraendo dalle figure, concettualizzando i Cieli in espressioni allusive, come usa oggi, con neon a intermittenza, coni di luce colorata, segni grafici più o meno schizzati, schematici, e, come si dice, metaforici, che forse richiedono uno sforzo di decodificazione e di "ricostruzione" da parte del fedele. Così come per la volta incompiuta di Santa Maria delle Grazie, una cupola di San Pietro siffatta, dove in luogo di angeli e santi si vedrebbero solo segni astratti, colorazioni volutamente arbitrarie, invenzioni evocative, ma non realistiche, non avrebbe alcuna speranza di proporsi a metafora della Trinità - come invece è ora - per via della perdita di quell’aspetto del Figlio messo in luce da Imago, che garantisce di vedere l’"essere", non il "nulla"; la realtà, non l’irrealtà; la verità delle cose - materiali o spirituali che siano - non una qualsivoglia concettosa arbitrarietà. Irromperebbe in San Pietro quella che Timothy Verdon individua come "l’ebbrezza della distruzione" sognata da Wagner, Nietzsche, Renan e dai tanti altri "sacerdoti" dei vari miti anticristiani germinati dall’illuminismo. Una siffatta e relativistica cupola di San Pietro non avrebbe alcuna speranza dunque di farci sentire come in Cielo, "a casa", non avrebbe cioè alcuna speranza di accenderci in quell’estasi a cui naturalmente aneliamo e che gli artisti usciti dai "giardini dell’arte" da sempre offerti dalla Chiesa ci aiutavano a compiere per elevarci dalle liturgie terrene ai fuochi delle celesti, e non per caso: "La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’incarnazione di Dio. (...) Le immagini del Bello, in cui si rende visibile il mistero del Dio invisibile, sono parte integrante del culto cristiano. (...) L’iconoclasmo non è un’operazione cristiana"; queste non sono indicazioni cavate dal cardinale Paleotti (1582), ma dal cardinale Joseph Ratzinger e dalla sua cruciale Introduzione allo spirito della liturgia (2001). Enrico Maria Radaelli