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 2008  giugno 11 Mercoledì calendario

Corriere della Sera, mercoledì 11 giugno L’America dovrebbe sentirsi lusingata. Dopo tanto parlare del suo declino, tormentata dalle ripercussioni della guerra in Iraq e indebolita dagli strascichi della crisi dei mutui subprime, e malgrado le affermazioni di un celebre opinionista di Newsweek, Fareed Zakaria, che accenna nel suo ultimo libro a un «mondo post-americano», i leader mondiali trattano ancora gli Stati Uniti come il Paese che tutti adorano criticare

Corriere della Sera, mercoledì 11 giugno L’America dovrebbe sentirsi lusingata. Dopo tanto parlare del suo declino, tormentata dalle ripercussioni della guerra in Iraq e indebolita dagli strascichi della crisi dei mutui subprime, e malgrado le affermazioni di un celebre opinionista di Newsweek, Fareed Zakaria, che accenna nel suo ultimo libro a un «mondo post-americano», i leader mondiali trattano ancora gli Stati Uniti come il Paese che tutti adorano criticare. Hugo Chávez, presidente del Venezuela, sull’antiamericanismo ha costruito addirittura la sua carriera. L’ultimo adepto è Dmitrij Medvedev, il nuovo presidente russo, che il 7 giugno ha accusato gli Stati Uniti di voler trascinare il mondo in una nuova Grande Depressione, come quella del 1929. chiaro, viviamo ancora in un mondo che ruota attorno all’America. E per fortuna le accuse del presidente Medvedev appaiono tanto infondate quanto poco accurate. Certo, l’economia americana è assai indebolita. I prezzi immobiliari stanno scendendo, i consumi sono scarsi e la disoccupazione è balzata dal 5 per cento ad aprile al 5,5 per cento a maggio. Forse il peggio deve ancora venire, nell’arco dei prossimi sei mesi e oltre. Ma il presidente Medvedev dovrebbe prendere atto del fatto che malgrado quell’incremento nei tassi di disoccupazione, in Russia non riesce a trovare lavoro il 6,6 per cento della manodopera. E prima di fare confronti con il 1929, dovrebbe constatare che, a differenza degli anni Trenta, il sistema bancario in America ha retto il colpo: l’unico grave fallimento riguarda la banca di investimenti Bear Stearns, rapidamente rientrato tramite l’acquisizione di Jp Morgan Chase e un’iniezione di liquidità da parte della Federal Reserve. E il mercato azionario non ha fatto registrare alcun crollo. I confronti con il 1929 e la Grande Depressione vengono regolarmente riproposti da coloro che vogliono dipingere la situazione a tinte più fosche di quanto non lo sia in realtà, o che non hanno una vera analisi da offrire. Nei miei 28 anni di giornalismo, credo di aver sentito il paragone con il 1929 in una mezza dozzina di crisi economiche o finanziarie. Mai, in nessun caso, si è avvicinato alla realtà. Solo il Giappone degli anni Novanta, dopo il crollo del suo mercato azionario, ha consentito qualche confronto con il 1929, anche se nel caso giapponese si è assistito a ripercussioni economiche drasticamente diverse da quelle dell’America degli anni Trenta: stagnazione, non recessione, e un piccolo aumento della disoccupazione, non la catastrofe vissuta nel ’29. Anzi, se le analogie storiche interessano davvero il presidente Medvedev, farebbe meglio a dare un’occhiata agli anni Settanta, e non ai Trenta, per capire i problemi che oggi il mondo si ritrova ad affrontare. La forte svalutazione del dollaro, voluta da Richard Nixon nel 1971; la crisi petrolifera del 1973; la fiammata dell’inflazione in un gran numero di Paesi; aumenti nei prezzi degli alimentari; un raffreddamento della crescita economica. Ecco quanto accaduto allora, ecco quanto sta accadendo oggi. Una differenza cruciale però è che mentre negli anni Settanta sono stati i Paesi ricchi quelli maggiormente colpiti dall’inflazione, questa volta l’accelerazione negli aumenti dei prezzi è stata più marcata nei grandi mercati emergenti: in Cina (inflazione all’8,5 per cento), in India (7,9 per cento), in Brasile (5 per cento). Ah, dimenticavo l’altro Paese dei cosiddetti BRIC: la Russia, naturalmente, che lamenta un’inflazione del 15 per cento. In confronto a questi dati, i tassi dell’inflazione americana al 3,9 per cento e dell’area euro al 3,6 per cento sembrano assai modesti. Il presidente Medvedev e il suo governo (o dovremmo dire forse il governo del suo primo ministro Putin) si stanno dimostrando incapaci sia di controllare l’inflazione, sia di gestire efficacemente la produzione petrolifera. Malgrado i prezzi da record raggiunti dal petrolio, si prevede un calo nella produzione russa, per carenza di investimenti. Se ha davvero a cuore l’economia mondiale, il presidente Medvedev dovrebbe intervenire per sanare quei due problemi. Difatti, un incremento nella produzione russa contribuirebbe molto a ridurre il prezzo del petrolio per il resto del mondo, aiutandoci a combattere l’inflazione. A quel punto, la Banca Centrale Europea e la Federal Reserve potrebbero tagliare i tassi d’interesse, dando impulso alle loro economie. Anziché sprecare energie ad accusare l’America, sarebbe meglio che la Russia ne dedicasse un po’ a risolvere i suoi problemi economici. Bill Emmott