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 2008  giugno 11 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 11 giugno Dalla sua cella lui vedeva solo il mare ed una casa bianca in mezzo al blu» diceva una famosa canzone di Lucio Dalla degli Anni 60

La Stampa, mercoledì 11 giugno Dalla sua cella lui vedeva solo il mare ed una casa bianca in mezzo al blu» diceva una famosa canzone di Lucio Dalla degli Anni 60. Ma dopo Abu Ghraib e Guantanamo e i bunker con la luce accesa tutto il giorno, come si progettano oggi le celle e i luoghi di reclusione e tutti gli spazi dove la libertà individuale viene negata? E che ruolo può avere un architetto nel decidere le forme di questi spazi e in qualche modo quindi anche il tipo di punizione del recluso? «Siamo partiti da queste domande per chiedere a undici studi d’architettura di tutto il mondo di pensare alla cella, unità di base delle prigioni moderne» spiega Francesco Bonami, curatore della mostra YouPrison, che si apre domani alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Fino al 12 ottobre proporrà il risultato di questa proposta-provocazione: undici grandi installazioni, oltre a cinque video d’artista che declinano in vari modi l’idea della cella e il groviglio di problemi etici posti dal togliere la libertà a qualcuno. La cella può essere una sorta di spazio cucito letteralmente addosso al recluso, quasi un guscio di tartaruga metallico che si può portare appresso: è la soluzione paradossale del libanese Bernard Khoury. Ma può anche diventare una gogna tecnologica e trasparente in cui la persona da punire viene rinchiusa e mostrata a tutti: la pensa così il cinese Yung Ho Chang, direttore del dipartimento di architettura al Mit di Boston. Con le prigioni oggi si possono anche fare affari, come dimostra il boom del settore negli Stati Uniti. Lo scopriamo dentro il box giallo di Ana Miljacki, sul cui pavimento ci sono i dati del prison-industrial complex a stelle e strisce o vedendo le strutture, con il bugliolo, la doccia e il letto pronte per essere impacchettate e vendute dello studio sino-americano SciSkew. «Dal campo all’ipermercato» è l’itinerario che fa invece il catanese Marco Navarra: sulla sua struttura ci sono le tute dei prigionieri alla Guantanamo e i piccoli plastici «da vendere» realizzati con le proposte dei detenuti di Catania, ma anche un camper a dimostrare che ci si può «recludere» da soli. Tradizionale in confronto appare la struttura del russo Alexander Brodsky, uno scuro spazio che fa quasi pensare a certi lavori di Boltanski, con il pavimento d’olio nero e i muri in cui sono infissi a diverse altezze il letto, la vasca da bagno e il water. Oppure il cilindro grigio dell’iraniano Vahabi, dove non puoi non sentirti kafkianamente colpevole: la giustizia in uno stato teocratico assume valenze religiose. Ma togliere la libertà fisica non significa paradossalmente offrire la possibilità di una libertà intellettuale fatta di studio e riflessione? Sì è la risposta di Eyal e Ines Weizman, due israeliani che lavorano a Londra e costruiscono una cella-libreria con testi classici che vanno dalle Mie prigioni di Silvio Pellico ai Quaderni di Gramsci. Tre metri per quattro sembrano a noi uno spazio minimo ma per chi è abituato a vivere normalmente in stanze-loculi permettono addirittura di costruire strutture-abitazioni a tre piani, come quelle realizzate in legno dal nipponico atelier Bow Wow. Decidere quale pena infliggere è una tentazione che rischia di far saltare fuori il lato oscuro di molti di noi. Questo devono aver pensato Diller Scofidio e Rentro: hanno messo a punto un software interattivo dove digiti un reato, dal piccolo furto al supermercato all’omicidio e decidi il tipo di punizione. Sei tu a dar forma alla cella e a scegliere cosa metterci dentro. Alla fine della mostra si conosceranno così le tendenze più o meno «giustizialiste» dei visitatori. «Gli architetti oggi sono star che firmano edifici spettacolari in ogni dove, ma di fronte alle prigioni sono renitenti. Nessun big ne hai progettate» dice ancora Bonami. E sembrano prendere spunto da questa constatazione Jeffrey Inaba e Jeffrey Johnson: giocano sui colori come forma di distinzione in carcere per ridurre i muri della cella a un prisma, all’interno del quale ti trovi le facce dei grandi architetti vincitori del premio Pritzke, il Nobel del settore. Se la mostra riesce a in qualche modo a far prevalere l’aspetto ludico su quello tragico, a riportare alla drammaticità dell’attuale condizione carceraria ci pensano alcuni video, come quello realizzato da Jaam Toomik tra i detenuti maschi d’una prigione russa: questi si scarnificano il pene in agghiaccianti rituali di iniziazione sessuale. A questo punto si pensa quasi con tenerezza alla cella che guardava il mare della canzone di Dalla. Rocco Moliterni