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 2008  giugno 11 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 11 giugno Che brutto pomeriggio, quel 28 aprile. Al Loft del Pd i dispacci di agenzia di minuto in minuto gonfiavano l’ansia: Roma, la «roccaforte rossa», stava crollando

La Stampa, mercoledì 11 giugno Che brutto pomeriggio, quel 28 aprile. Al Loft del Pd i dispacci di agenzia di minuto in minuto gonfiavano l’ansia: Roma, la «roccaforte rossa», stava crollando. E così, alle sei della sera, quando il Campidoglio era oramai passato nelle mani della destra, Walter Veltroni pronunciò parole inaudite alle orecchie dei suoi collaboratori: «Io mi dimetto!». Proprio così: Veltroni, sindaco di Roma negli ultimi 7 anni, stava per prendersi le sue responsabilità. Un evento inatteso, visto che due settimane prima, quando il Pd aveva perso nettamente le elezioni politiche, il leader non aveva mosso ciglio. Ma poi, i consigli degli amici indussero il segretario a ripensarci: la sconfitta di Roma restò senza padri e quanto alla tentazione del leader di mollare tutto, nulla fu fatto trapelare all’esterno. Anzi. In quelle ore prese corpo il fulmineo, efficacissimo contropiede di Veltroni per blindarsi e sbaragliare i nemici, un blitz che spiega una certa qual confusione sotto il cielo democratico in queste ore. Un contropiede, quello di Veltroni, che scattò durante la batosta di Roma: Massimo D’Alema voleva Pierluigi Bersani presidente dei deputati del Pd? Per sbarrargli la strada, Veltroni chiuse un patto continuista con i Popolari (il vero asse che da allora governa il partito), confermando il popolare Antonello Soro alla guida del deputati e la ds Anna Finocchiaro al Senato. Ancora qualche giorno a maturarono gli altri frutti: il popolare Beppe Fioroni «vince» l’Organizzazione, mentre per la presidenza del Comitato dei Servizi Segreti, Veltroni preferì il criterio della convenienza a quello della competenza, designando lo sconfitto Francesco Rutelli, anzichè l’ex ministro Arturo Parisi, che il successore Ignazio La Russa, nel cambio delle consegne davanti ai vertici militari, aveva gratificato di un elegante definizione: «Il professor Parisi, uno dei migliori ministri della Repubblica». In un mese Veltroni si è dunque blindato con una capacità di manovra che i detrattori non gli riconoscevano, ma si è guastato i rapporti con un drappello di personaggi che non hanno più ambizioni di premiership, ma che nel partito pesano. Per carisma, per peso organizzativo, per entrambi i fattori. Si tratta di Massimo D’Alema, Arturo Parisi e, molto defilato, Romano Prodi. In colloqui privatissimi che per definizione non hanno effetti, ma proprio per questo sono più sinceri, è spuntata per la prima volta un’idea incoffessabile: se le Europee del 2009 dovessero andar male, chi l’ha detto che Veltroni sarà il leader del Pd fino al 2013? Arturo Parisi la pensa così: «Mi sento pessimista sul futuro del Pd perché sinora nessuno ha riconosciuto la sconfitta, elaborando il lutto e delineando una politica nuova». E poi la frase-chiave: «Difficile negare che non esista una questione leadership», e in ogni caso «una leadership può nascere», o anche «rafforzarsi, solo all’interno di un confronto vero». Quanto a Massimo D’Alema, come sempre composto e leale nel pubblico dibattito, in privato è più esplicito e infatti quando i suoi gli chiedono se Walter meriti o meno di «giocarsi la rivincita», l’ex premier si fa sulfureo: «Vedremo, nulla è scontato...». Dice Gianni Cuperlo, emergente dell’area dalemiana: «Il progetto del Pd rischia seriamente di fallire: se si rimuove la sconfitta e si afferma il modello di una confederazione di componenti», i capi del partito rischiano di impiegare i prossimi anni «a impiegare se stessi e i propri cari in previsione della rivincita». E Romano Prodi? Lui, non coltiva certo leadership alternative, ma intanto non ritratta (come vorrebbe Veltroni) le dimissioni dalla presidenza del Pd e soprattutto ritiene un «errore madornale» escludere dal gioco la sinistra radicale, «perché il compito di un grande partito come il Pd è quello di includere chi ha un’altra vocazione, proprio come ho fatto io con il mio governo». E a fine giugno, a Siracusa, D’Alema e Parisi hanno deciso di discutere assieme a Ilvio Diamanti, di analisi del voto e prospettive. E in questo clima nelle ultime 48 ore, quasi tutti i big del Pd si sono sentiti in dovere di ripetere - chissà perché - che «la leadership di Veltroni non si discute». Certo, posizionamenti in vista del futuro, così come scaramucce sono quelle in corso in queste ore. A «Famiglia Cristiana» che evoca una scissione cattolica, il teodem Luigi Bobba dice che «non si può fondare un partito e abbandonarlo dopo 6 mesi», ma che «se non si lavora sull’identità, la balcanizzazione può diventare realtà». Mentre sulla collocazione internazionale del Pd, Rutelli e i popolari non vogliono entrare nel Pse e le mediazioni di Veltroni sinora non hanno avuto successo. La tenaglia del segretario la spiega un politico raffinato come Marco Follini: «Veltroni ha fatto una campagna elettorale innovativa e centrista incassando però molti voti a sinistra e pochi al centro. Ma dopo una campagna coraggiosa, ha gestito il dopo-elezioni con uno stato d’animo fin troppo prudente e senza una risposta al verdetto elettorale. Un ”ora ”x” nel 2009? No, opportunità e pericoli sono ad ogni angolo e in ogni data». Una cosa è certa: il «parlamentino» del 20 e 21 (vi sarà eletto presidente del partito Franco Marini) si profila l’evento più movimentato nella pur breve storia del Pd. Fabio Martini