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 2008  giugno 11 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 11 giugno La leggenda del pianista a Montecitorio si perde nei decenni, e ora che un uomo pragmatico come Gianfranco Fini ha deciso di chiudere una storia di gloriose meschinerie - su mandato di Antonio Di Pietro - ai cronisti resteranno pezze d’archivio e figure mitologiche da collezionare come vecchie figurine

La Stampa, mercoledì 11 giugno La leggenda del pianista a Montecitorio si perde nei decenni, e ora che un uomo pragmatico come Gianfranco Fini ha deciso di chiudere una storia di gloriose meschinerie - su mandato di Antonio Di Pietro - ai cronisti resteranno pezze d’archivio e figure mitologiche da collezionare come vecchie figurine. Il deputato di Mondovì o il senatore di Trebisacce, con le braccia allargate per votare al posto del collega assente, saranno rinchiusi nei manuali, trasferiti in trasmissioni nostalgiche, come caroselli del parlamento che fu. Profittando della pausa estiva, i banchi di Montecitorio saranno modificati di modo che l’eccellente mandatario della volontà popolare debba impiegare entrambe le mani per convalidare il suo solo voto. Basterà? La leggenda del pianista a Montecitorio ha i suoi eroi alati, come il fromboliere forzista Lucio Malan, il quale mostrò ignaro alle telecamere una mostruosa abilità da gambler, riuscendo a votare per tre contemporaneamente. Ne sono orgoglioso», disse. Ma, a parte il caso Malan, non si segnalano altri deputati tentacolari, e per cui, forse, la trovata di Fini sarà definitiva. Ci hanno provato un po’ tutti i suoi predecessori, e specie nella seconda Repubblica. Nella prima, si sa, si era mascalzoni con gusto e discrezione. E quando, nel 1973, tramontò la votazione per alzata di mano, e venne inserito un sistema meccanico, l’onorevole presente faceva il favore a quello assente per questioni di diaria. Si specializzarono i democristiani, anche in versione goliardica, con Giuseppe Zamberletti che votava al posto di Franco Bassanini, vagante per l’aula. Bassanini se ne accorse e gridò al complotto, e Zamberletti sbucò da dietro lo scranno facendo «cucù», col presidente Nilde Iotti vanamente impegnata a mantenere lo sguardo austero. E poi il destino dei moralizzatori è di essere moralizzati. I leghisti denunciarono Gerardo D’Ambrosio (l’ex collega di procura di Di Pietro che ieri l’ha buttata sulla fattispecie di reato con aggravante bis) in versione pianista, ma furono loro a inaugurare la Seconda Repubblica con il vegliardo Luigi Rossi sorpreso con le mani sul banco di Umberto Bossi. «Eh, quante storie, un voto in più, uno in meno», commentò il gran capo. E così provarono l’opera moralizzatrice Luciano Violante, Pierferdinando Casini, Marcello Pera, Alfredo Biondi, e ognuno aveva la soluzione. Tesserine magnetiche personalizzate. Tasti da tenere premuti per tutta la votazione. Pulsanti a lettura automatica di impronta digitale. Alcune sono andate avanti, altre no, e i pianisti hanno avuto l’età dell’oro. Contro di loro si sono esercitate le procure della Repubblica, respinte per ragioni di extraterritorialità. Enrico Mentana con le riprese del Tg5. Striscia la notizia con sottofondo di un Notturno di Chopin. Niente. Sergio Agoni, leghista, votò per Cesarino Monti e, colto sul fatto, si giustificò: «Cesarino stava leggendo il giornale». Embè? «Ma leggeva un argomento che gli stava a cuore». Embè? «Ma non voto mai per gli assenti, solo per quelli in altro affaccendati, che scrivono, telefonano o leggono». Embè? «C’è una differenza politica rispetto a quelli che lo fanno per... Mi sto un po’ arrampicando sui vetri?». Ogni tanto, dunque, salta su qualcuno e dice: giro di vite! Casini preannunciò impietose espulsioni e, sfortunello, la prima gli toccò di comminarla a tal Hans Widmann, della Svp, che votava invece di Siegfried Brugger. Sembrò il riscatto della gente italica: l’imbroglione aveva una carta d’identità che doveva garantire il massimo della rettitudine; finì con rivendicazioni di tipo territoriale e accuse di pararazzismo. Allora a mettersi in testa di ripulire il palazzo furono i parlamentari all’avanguardia tecnologicamente. Col telefonino puntato, presero a fotografare i lestofanti. «Non si può», disse il presidente di turno, Roberto Calderoli. E a chi gli faceva notare che il regolamento non proibisce di scattare istantanee, Calderoli rispose che il regolamento non si occupa di tutto: «Non c’è bisogno di scrivere sopra che il senatore Livio Togni, che fa il domatore, non può portare una tigre in aula». Tutto questo non lo avremo più. Cancellato da uno scatto di decisionismo. E proprio adesso che il più agguerrito, Willer Bordon, si è autoeliminato dalla casta combattuta nei lustri. Nel corso di una celebre seduta (si votava la Cirami, la legge sul legittimo sospetto), Bordon girò un filmino e denunciò la maggioranza di centrodestra. Nell’occasione, Domenico Nania (An) lo chiamò «Killer Bordon» e Gavino Angius (Ds), con un’escursione nella metafisica, cercò di placare gli animi: «La votazione è valida. Del resto, anche se la moviola dimostra che un gol era irregolare, la partita non si ripete». L’avvocato Biondi, dirigendo l’aula, perse le staffe: «E’ sequestro di persona!», ma voleva dire sostituzione. Prima o dopo ci sono cascati tutti. «E’ la prima volta», disse il diessino Milos Budin. «Il mio vicino non si teneva più, era andato in bagno», disse Michele Forte dell’Udc. «Colleghi, non fate gli idioti!», protestò Luciano Violante. E l’eco della pratica solcò i mari e i continenti. «Maestà, le mostro come fanno i pianisti», disse Casini al re della Malesia, Iang Pertuan Agong, che visitando Montecitorio volle apprendere il trucco nel dettaglio. Soddisfatto, il re annuì. E soltanto allora conferì a Casini la più alta onorificenza malese: il titolo di Maharaja. Chi lo avrebbe mai detto che le mille e una notte sarebbero finite così, in un martedì qualsiasi? Mattia Feltri