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 2008  giugno 11 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 11 giugno Dice quel gran figo del Dr House: preferisci un medico che ti tiene la mano mentre muori, o uno che ti ignora mentre migliori? Ecco, dopo anni di ascolto compiacente e distratto è arrivata l’ora di rispondere alla tua domanda, caro il mio medico cinico, narciso e pure senza camice in deroga al regolamento e alle più comuni norme d’igiene: non preferiamo né l’uno né l’altro, noi che siamo tutti, potenzialmente e si spera il più tardi possibile, ammalati

La Stampa, mercoledì 11 giugno Dice quel gran figo del Dr House: preferisci un medico che ti tiene la mano mentre muori, o uno che ti ignora mentre migliori? Ecco, dopo anni di ascolto compiacente e distratto è arrivata l’ora di rispondere alla tua domanda, caro il mio medico cinico, narciso e pure senza camice in deroga al regolamento e alle più comuni norme d’igiene: non preferiamo né l’uno né l’altro, noi che siamo tutti, potenzialmente e si spera il più tardi possibile, ammalati. Noi che nei casi peggiori potremmo persino essere «il prossimo vecchio» in balia dei trafficanti della prossima clinica degli orrori, non comprendiamo perché mai dovremmo essere costretti a sbarrare una delle due caselle delle tuo questionario. La malattia non è un format e, per dirla tutta, il «figo» in corsia non dovrebbe essere il medico, bensì la persona bisognosa di cure, alla quale spettano per diritto efficienza e compassione. Il massimo dell’efficienza e il massimo della compassione. Non è naturalmente colpa della televisione, se i malati e le loro storie restano sempre più sullo sfondo, mentre al centro della trama - e purtroppo, come s’è visto, degli intrighi - ci sono i medici, quelli buoni e quelli cattivi, quelli che pensavamo buoni e invece, a quanto pare, erano cattivi; ma è possibile che proprio le fiction, affollate di camici bianchi - dottori che s’innamorano, litigano, divorziano, entrano in crisi esistenziale e professionale, partono per il Ruanda, soffrono, decidono di cambiare vita o pettinatura, hanno colpi di genio e talvolta azzeccano persino una diagnosi - siano la perfetta rappresentazione di una società che, a forza di distogliere lo sguardo dalla malattia, ha finito per dimenticarsi che il malato esiste. Esiste al di là delle cure e al di là delle politiche sanitarie, persino oltre le attenzioni che i bravi medici e i bravi infermieri gli rivolgono; esiste come persona impegnata nella più sconvolgente e avventurosa impresa che possa capitare - e capita - a ogni essere umano: scoprirsi fragili, fare esperienza della propria mortalità, che è cosa assai diversa, e più dura, dal sapere già. Esiste, addirittura e soprattutto, a prescindere dalla guarigione. Invece gli scaffali delle librerie pullulano di autobiografie modaiole che narrano guarigioni prodigiose, mentre i letti degli ospedali sono pieni di persone invisibili, rassegnate alla propria invisibilità, al nessun appeal della loro condizione di malato. A meno che qualche allegro chirurgo, per tagliare i costi, non inserisca nel loro corpo privato di diritti una protesi infetta, e allora il malato, promosso a vittima, finirà sulle prime pagine, al centro d’un clamore che non rimetterà al centro della questione il suo essere persona. Interessante e degno d’attenzione è oggi chi ha «sconfitto la malattia» o chi è stato sconfitto dalla cattiva sanità, non chi sosta in quella zona male illuminata in cui tutto accade e, ora lo sappiamo, di tutto può accadere. C’è un aneddoto che rende evidente il paradosso che abbiamo finito per considerare normalità. Tempo fa Gad Lerner, autore e conduttore de «L’infedele» su La7, realizzò quella che lui considerava «la miglior puntata dell’anno». Era dedicata ai malati di cancro, e per una volta non si parlava di cure e di medici, di terapie all’avanguardia e di centri d’eccellenza, di guarigioni esemplari o di malasanità, bensì della malattia come esperienza. Dovette constatare il giorno dopo che l’audience era calata ai minimi storici, mentre su un canale concorrente il Dr House faceva la solita man bassa d’ascolti. Stefania Miretti