Federico Rampini, la Repubblica 7/6/2008 ;Federico Rampini, la Repubblica 10/6/2008, pagina 22., 7 giugno 2008
la Repubblica, sabato 7 giugno Pechino. L´aeroporto di Hong Kong lancerà sul mercato una emissione di "obbligazioni islamiche", titoli strutturati in modo da non trasgredire il divieto dell´usura contenuto nel Corano
la Repubblica, sabato 7 giugno Pechino. L´aeroporto di Hong Kong lancerà sul mercato una emissione di "obbligazioni islamiche", titoli strutturati in modo da non trasgredire il divieto dell´usura contenuto nel Corano. L´operazione non è banale: Hong Kong è la piazza finanziaria più importante della Repubblica Popolare, paese comunista che fino a tempi recenti imponeva l´ateismo di Stato. L´"Islamic Bond" corona un lungo corteggiamento. Sboccia un nuovo rapporto privilegiato tra la Cina e il Medio Oriente, due aree di iper-crescita che si affrancano dall´Occidente. Il consumatore americano, tramortito dalla crisi dei mutui, non è più in grado di indebitarsi per assorbire quantità crescenti di made in China. Nell´Europa stagnante la tentazione protezionista è all´ordine del giorno. Si guardano con sospetto i "fondi sovrani" asiatici a caccia di acquisizioni fra le nostre imprese. Rivolta del Tibet e contestazioni olimpiche hanno aggiunto alle difficoltà economiche un disagio politico fra l´Occidente e la Repubblica Popolare. Proprio mentre il 2008 rischia di far deragliare la locomotiva cinese, Pechino scopre di avere meno bisogno di noi. La sua salvezza spunta da una direzione molto antica: la Via della Seta. Lungo l´asse che per oltre un millennio fu percorso dai mercanti orientali, arabi e persiani, oggi è boom di scambi. Europa e Stati Uniti vengono emarginati da aree che un tempo furono sotto la loro influenza strategica. L´Arabia saudita, alleato cruciale di Washington nel Medio Oriente, quest´anno esporta più petrolio in Cina che in America. I paesi del Golfo Persico - Arabia, Bahrain, Kuwait, Emirati uniti e Qatar - avviano grandi manovre per sganciare le loro monete dal dollaro a cui erano incollate da decenni. Seguiranno lo stesso modello di fluttuazione pilotata che Pechino ha scelto per il suo renminbi dal luglio 2005. Tra la Repubblica Popolare e il mondo arabo nasce un nuovo asse. Prima economico-finanziario, ma ben presto destinato ad avere una proiezione geostrategica. La rinascita di una moderna Via della Seta modifica i percorsi del commercio globale e i flussi di capitali. Nell´ultimo decennio nessun´altra area del mondo ha visto un simile boom degli scambi: +1.083% tra Cina e Medio Oriente. L´import-export fra Pechino e il mondo arabo si è quindi più che decuplicato, raggiungendo i 240 miliardi di dollari. Gli Emirati arabi uniti stimano che questo commercio bilaterale sarà moltiplicato ancora per sette nei prossimi sette anni. David Rubenstein, uno dei fondatori del gruppo americano di private equity Carlyle (che grazie ai legami originari con la famiglia Bush ha solide basi in Medio Oriente), ha dichiarato che «il centro del mondo si sposta dall´asse transatlantico Europa-Usa a quello che unisce due Asie, l´Estremo Oriente e il Golfo Persico». E´ un legame che ha radici storiche antichissime: precedette perfino i viaggi di Marco Polo, in tempi in cui il commercio delle spezie, dell´oro e dei tessuti pregiati creò una fitta rete di interessi tra l´Impero Celeste e l´Asia minore. Gli occidentali hanno sottovalutato i segni premonitori di questa convergenza. Abbiamo visto solo il petrolio, abbiamo creduto che l´interesse cinese per il mondo arabo fosse unicamente dipendenza energetica. Oggi non è più così. L´alleanza sino-araba si è estesa all´edilizia, alle grandi opere infrastrutturali, al business del turismo e del trasporto aereo, al settore finanziario. Non sono soltanto le compagnie petrolifere cinesi ad affacciarsi a Ryad o Abu Dhabi ma anche i colossi delle telecom e dell´informatica, le banche e i costruttori. E´ un ribaltone spettacolare sotto molti punti di vista. In mezzo secolo la proiezione internazionale della Cina ha cambiato di segno. Ai tempi di Mao Zedong la Repubblica Popolare si infilava nel Terzo Mondo per esportare il verbo rivoluzionario, accompagnandolo con la vendita di armi o la cooperazione di "medici a piedi scalzi". Oggi nel matrimonio che si celebra tra arabi e cinesi s´incontrano le due zone del pianeta più ricche di capitali. Il surplus commerciale che Pechino accumula esportando jeans e computer, si sposa con le riserve valutarie che l´Opec tesaurizza grazie al rialzo del petrolio. I nuovi Re Mida della finanza globale si situano lungo l´asse che unisce la Cina al Medio Oriente. Sei dei principali dieci fondi sovrani del pianeta hanno le loro sedi tra il Golfo Persico e la Cina. Lo sganciamento delle monete arabe dal dollaro Usa è il sintomo di un lento ma inesorabile riallineamento di alleanze strategiche. L´America è diventata un partner scomodo per gli Stati del Golfo. Dopo l´11 settembre 2001 la circolazione delle persone è meno facile. Le diffidenze verso l´Islam e i timori sul terrorismo hanno costretto il gestore dei porti di Dubai a battere in ritirata, per l´ostilità politica suscitata a Washington dal suo investimento in alcuni scali americani. La Cina è nel mirino per altri motivi: l´impoverimento della classe operaia americana resuscita tentazioni protezioniste; i difensori dei diritti umani contestano le azioni di Pechino in Darfur, Birmania e Tibet; la crescente potenza tecnologica dell´Esercito Popolare di Liberazione preoccupa il Pentagono. Queste paure hanno già fatto saltare due importanti investimenti cinesi negli Stati Uniti: l´acquisto di una compagnia petrolifera californiana (Unocal) da parte dell´ente di Stato China National Offshore Oil Corporation (Cnooc); e l´ingresso della Huawei in una società elettronica che fornisce tecnologie all´esercito americano. Le barricate che l´Occidente minaccia di costruire contro la globalizzazione dirottano altrove i flussi di capitali. La società di consulenza americana McGregor - basata a Pechino - calcola che i ricchi investitori del Golfo Persico hanno ritirato dagli Stati Uniti 200 miliardi di dollari nell´ultimo quinquennio. E si apprestano a trasferire 250 miliardi in Cina. Il gruppo Dubai Ports World si rifà dello smacco americano entrando come socio nel porto di Tianjin, lo sbocco marittimo più vicino a Pechino e il secondo scalo per container nella Repubblica Popolare. La Cnooc e la Huawei bandite dagli Stati Uniti hanno appena firmato contratti colossali nel Qatar e negli Emirati Arabi Uniti. Dubai e Hong Kong si uniscono per dare vita a un nuovo polo finanziario che sfida il tradizionale asse Londra-New York: centinaia di aziende asiatiche sono incoraggiate a quotarsi nelle Borse dell´Estremo Oriente e del Golfo Persico, meno esigenti in fatto di corporate governance. Tra queste due aree del mondo in crescita, non ci sono frizioni sui diritti umani, il dumping sociale, le conquiste sindacali dei lavoratori, le regole ambientali. Le ragioni del business prevalgono, i governi appoggiano le alleanze fra capitalisti (spesso di Stato). E´ una curiosa forma di laissez-faire dirigista, dove un protagonista potente sono i fondi sovrani che gestiscono le riserve valutarie delle banche centrali. Dietro però c´è anche una solidità dell´economia reale, che l´Occidente ha sottovalutato. Le classi dirigenti del Golfo Persico tentano di non ripetere gli errori che fecero negli anni 70, quando i proventi del primo choc petrolifero furono sprecati senza generare uno sviluppo durevole. L´alleanza con la Cina serve a costruire infrastrutture, a modernizzare, a imitare un modello si successo. Cinesi e arabi hanno in comune immensi bisogni da soddisfare, centinaia di milioni di consumatori che accedono a un benessere nuovo. E che, a differenza degli americani, non si sono indebitati fino al collo; né hanno investito i loro risparmi e i loro fondi pensione in strumenti derivati. Federico Rampini (I puntata) la Repubblica, martedì 10 giugno Pechino. Sulle orme di Gandhi l´India ritorna in Africa. Spinta da motivazioni economiche, non ideali, ma capace tuttavia di offrire al continente nero una via alternativa allo sviluppo. Tutti ricordano che il Mahatma Gandhi iniziò la sua missione in Sudafrica all´inizio del Novecento, lanciando la battaglia politica e legale contro l´apartheid. Sperimentò prima in terra straniera quei metodi della resistenza passiva e della non violenza che avrebbero piegato l´impero britannico in India; più tardi sarebbe stato imitato poi con successo dal suo "allievo" Nelson Mandela. Gandhi non si trovava in Africa per caso. Risale a duemila anni fa lo sbarco dei mercanti indiani sulle rive del Corno d´Africa. Da allora la diaspora proveniente dal subcontinente asiatico ha messo radici storiche, antichissime e profonde. La Via della Seta non fu solo quella settentrionale percorsa da Marco Polo attraverso il Medio Oriente e l´Asia centrale fino in Cina. E´ sempre esistita una variante-Sud, che attraverso il Mare Arabico e l´Oceano Indiano puntava verso il Golfo Persico e più giù, alle coste somale e kenyane, al Mozambico e al Madagascar. Vi si è aggiunta un secolo fa l´emigrazione forzata di tanti indiani poveri che gli inglesi trasferivano nelle colonie africane a corto di manodopera. Oggi nell´Africa subsahariana vivono in permanenza oltre due milioni di indiani. Sono diventati un ponte culturale prezioso per sostenere la nuova invasione: questa volta progettata dal governo di New Delhi, e realizzata dalle multinazionali di Mumbai e Bangalore. La strategia politica è chiara. L´India ha capito che l´influenza dell´Occidente è in ritirata, e non vuole che sia solo la Cina ad espandersi nell´emisfero Sud. L´interscambio India-Africa è tuttora un po´ meno della metà di quello cinese ma ha fatto comunque un balzo impressionante dai 6,5 miliardi di dollari del 2003 ai 25 miliardi del 2007. Quest´anno il premier indiano Manmohan Singh ha portato a New Delhi un importante summit con tutti i capi di Stato e di governo africani, ispirandosi a una iniziativa analoga organizzata a Pechino dal presidente Hu Jintao. Al corteggiamento politico si affiancano le puntate dei grandi protagonisti del capitalismo indiano. L´ultima operazione porta l´impronta di Bharti Airtel, il maggiore operatore di telefonìa mobile in India, che ha lanciato un´offerta da 20 miliardi di dollari per il 51% del capitale di Mtn, numero uno nello stesso business in Sudafrica. Se va in porto questa acquisizione nascerà un network di stazza mondiale, con 130 milioni di abbonati e una ramificazione molto estesa che dall´Africa si estende ai paesi arabi. Il presidente della Bharti, Sunil Mittal (stessa nazionalità ma nessuna parentela col magnate dell´acciaio mondiale Lakshmi Mittal), sottolinea che «India e Africa hanno mercati simili, sistemi di valori simili, livelli di sviluppo simili. Siamo fatti per capirci. Noi indiani abbiamo un talento particolare per muoverci negli altri paesi emergenti». Un´osservazione acuta, valida anche per altre imprese indiane. La loro penetrazione ha caratteristiche originali. Non punta solo a mettere le mani sulle materie prime africane, indispensabili per l´industria di trasformazione dei giganti asiatici, ma guarda anche più in là: alla possibilità di un decollo africano che trasformi il continente nero in un nuovo mercato. Naturalmente la presenza indiana si avverte anche nel settore delle risorse energetiche e minerali. Il colosso statale Ongc (Oil and Natural Gas Corporation, con sede a Tel Bhavan) ha conquistato dei diritti di sfruttamento a lungo termine su giacimenti di petrolio e gas naturale in Nigeria, Angola, Sudan. La società privata Vedanta Resources, guidata da Kuldip Kaura, sta investendo un miliardo di dollari per raddoppiare la capacità estrattiva della più grande miniera di rame dello Zambia. Ma ci sono presenze altrettanto importanti nell´industria manifatturiera: il gruppo Tata è in assoluto il più grosso investitore privato indiano nel continente, e le sue automobili sono una presenza inconfondibile nelle strade delle città africane. Ancora più innovative sono le scommesse recenti di alcuni gruppi che rappresentano la punta avanzata dell´industria hi-tech indiana: i colossi farmaceutici. La Cipla ha inaugurato ieri un nuovo stabilimento da 32 milioni di dollari a Kampala, capitale dell´Uganda, dove inizia la produzione di cure per i sieropositivi e la malaria: un terreno dove l´India sfida da anni i brevetti della Big Pharma occidentale offrendo prodotti molto meno cari, alla portata dei paesi in via di sviluppo. Anche un altro protagonista della farmaceutica indiana, Ranbaxy, è presente in tutta l´Africa. «Non essere qui oggi - dice il suo amministratore delegato Malvinder Mohan Singh - vorrebbe dire rinunciare a un mercato che entro 15 anni decollerà fino a raggiungere dimensioni importanti». I legami tra le due sponde dell´Oceano Indiano e del Mare Arabico funzionano nei due sensi. L´India accoglie ogni anno 15.000 studenti africani nelle sue università, soprattutto i Politecnici. Un programma di cooperazione forma mille funzionari di amministrazioni pubbliche africane a New Delhi. Un pezzo della futura classe dirigente africana - pubblica e privata - sta ricevendo la sua formazione in India. «Vedono in noi un modello di sviluppo alternativo», dice il presidente della Tata International, Syamal Gupta. Le differenze tra India e Cina nella loro strategia di espansione africana sono state messe a fuoco da uno studio della Banca Mondiale. La Repubblica Popolare si muove soprattutto attraverso accordi fra governi; le punte di lancia della sua penetrazione sono in prevalenza colossi dell´industria di Stato. Ha una velocità impressionante nel sostituire l´Occidente in zone che furono ex colonie francesi, inglesi, tedesche, italiane e belghe. La Repubblica Popolare ha anche qualche punto debole. La sua marcia trionfale a Sud ha conosciuto degli incidenti. Spesso le imprese cinesi che realizzano grandi opere in Africa - strade, porti, aeroporti, centrali elettriche, dighe, ospedali - si portano la manodopera da casa perché la considerano più efficiente, disciplinata e affidabile, ma in questo modo l´apporto alla ricchezza locale è diminuito. Quando impiegano lavoratori locali, i metodi autoritari cinesi non sono sempre bene accetti, come ha dimostrato l´esplosione di conflitti sociali nello Zambia contro i "padroni di Pechino". L´India nei suoi investimenti in Africa ha una presenza dal profilo più basso: prevalgono le imprese private, spesso anche di dimensioni medio-piccole, e quindi hanno un maggiore interscambio con il tessuto produttivo locale da cui acquistano servizi e prodotti semilavorati. Hanno più facilità a integrarsi nella società locale: il 50% degli imprenditori indiani ha preso la cittadinanza del paese africano di loro insediamento, contro il 4% soltanto per i cinesi. Cina e India sono in qualche modo complementari, insieme forse stanno portando dei germi di uno sviluppo nuovo, dove l´Occidente ha più volte fallito. Federico Rampini (Fine)