Libero 1 giugno 2008, PIERO MENARINI, 1 giugno 2008
DON GIOVANNI
Giallo risolto: lo inventò un comico. Libero 1 giugno 2008
Si è finalmente concluso uno dei più intricati, misteriosi e in un certo senso inquietanti casi che la storia della letteratura mondiale abbia mai conosciuto: quello relativo alla paternità della celeberrima commedia secentesca "El burlador de Sevilla y Convidado de piedra" ("L’ingannatore di Siviglia e Convitato di pietra"), l’opera teatrale che diede vita, nientemeno, che al personaggio / mito Don Giovanni. Grazie alla perspicacia e alla tenacia dello studioso spagnolo Alfredo Rodríguez López-Vázquez, che da oltre 25 anni si sta occupando della questione, i dubbi si sono finalmente dissolti, come si evince da un libro appena uscito in Spagna (Andrés de Claramonte, "Tan largo me lo fiáis. Deste agua no beberé", Madrid, Cátedra, 2008, pp. 320, euro 9,62). Per arrivare ad una risposta risolutiva, che chiudesse la strada ad ogni ulteriore polemica, era necessario qualcosa di più di speculazioni e ipotesi letterarie, seppure ottime: occorreva una prova documentale inoppugnabile. Cosa che si è puntualmente verificata, seguendo il copione fatale del classico colpo di fortuna. Per capire cosa sia avvenuto e che cosa abbia a che fare con Don Giovanni il libro da cui prendiamo le mosse, cercherò di riassumere, nei suoi tratti essenziali, la complessa vicenda, un autentico giallo filologico. Un caso secolare
Tutto ebbe inizio nel 1630, quando un editore di Barcellona (Gerónimo Margarit) mise in circolazione un volume intitolato "Dodici commedie di Lope de Vega e altri autori" che conteneva, tra i testi non lopeschi, il "Burlador de Sevilla", attribuito nel frontespizio al notissimo frate mercedario, teologo e commediografo, Tirso de Molina. Fin qui nulla di strano. Senonché, tre secoli più tardi ci si rese conto di un’incongruenza prima trascurata, sebbene sotto gli occhi di tutti: anziché seguire la numerazione del resto del volume, la nostra commedia ne utilizza un’altra. Una sola la risposta possibile: Margarit non aveva affatto stampato quel testo, ma aveva acquistato da un altro stampatore uno di quei fascicoli chiamati "separabili", in quanto potevano essere rilegati insieme ad altri, secondo le convenienze editoriali. A chi, dove e quando si dovesse la stampa originaria riuscì a scoprirlo nel 1981 D.W. Cruickshank: utilizzando un imponente "database" sulla tipografia spagnola del Seicento, lo statunitense poté stabilire che il fascicolo in questione era stato stampato a Siviglia da Manuel de Sande intorno al 1627 per conto dell’editore Faxardo, che a sua volta aveva ceduto l’opera a Margarit, il quale, dunque, l’aveva solo commercializzata. Tanti passaggi non costituivano certo la premessa più felice per dirci per quale motivo proprio quest’opera, che doveva avere riscosso un successo travolgente fin dall’inizio, non era stata inclusa da Tirso nell’edizione delle sue opere da lui stesso curata nel 1627. A confondere ulteriormente le acque ci si mise anche la sorte beffarda, che fece scoprire e pubblicare nel 1878 al bibliofilo Marchese de la Fuensanta del Valle un testo "raro e curioso", del tutto privo di dati editoriali (ma forse del 1637) e dal titolo all’epo ca ignoto: "Tan largo me lo fiáis" (che si potrebbe tradurre con "Com’è lontana la scadenza"), sottotitolato "Comedia famosa de Don Pedro Calderón". Si trattava di un’opera del grande drammaturgo rimasta sepolta per 250 anni (ne esiste un solo esemplare al mondo) e quindi di uno scoop paragonabile al recente caso del "Carde nio" di Shakespeare? Niente affatto, perché non solo la commedia non ha nulla di calderoniano, ma soprattutto perché appena la si lesse ci si rese conto che, seppure con numerosissime varianti, questo testo e il "Burlador" erano fondamentalmente la medesima opera. A questo punto nuovi interrogativi: sull’autore, sulla data di composizione e sulla priorità tra le due versioni. Sulla base dell’ovvia considerazione che se la commedia fosse stata del famoso Tirso, non ci sarebbe stato motivo di attribuirla a Calderón, e che quindi si trattava quasi certamente di una falsa attribuzione a scopo commerciale, iniziò a farsi strada il nome di Andrés de Claramonte, noto capocomico e apprezzato autore, morto nel 1626. Fin dal 1982 López-Vázquez attribuì la paternità di Don Giovanni a Claramonte, facendo risalire la versione primitiva, cioè il "Tan largo", al 1612 circa e il "Burlador", rielaborazione graduale della precedente, al 1619 circa. Il documento decisivo
Tutte ipotesi che ebbero feroci oppositori, ma che nel 2005 hanno trovato la conferma in una relazione manoscritta "miracolosamente" ritrovata a Madrid da Angel García Gómez, dalla quale risulta che nel 1617 la compagnia di Jerónimo Sánchez mise in scena il "Tan largo me lo fiáis", commedia di Andrés de Claramonte. Discorso chiuso, dunque. Ma non per Tirso de Molina, perché López-Vázquez è pervenuto alla certezza che anche il suo capolavoro, "El condenado por desconfiado" ("Il dannato per mancanza di fede"), è in realtà di Claramonte. Quanto alla trasmissione europea (mondiale) del "Burlador", essa avvenne per merito della Commedia dell’arte, con la quale avevano stretti rapporti alcune compagnie spagnole. A Napoli il "Burlador" fu portato nel 1625 da Pedro Ossorio e nel 1626 da Francisco Hernández Galindo e nella stagione 163637 dal grande Roque de Figueroa (probabilmente l’ultimo possessore del manoscritto). La prima versione italiana è il "Convitato di pietra" di Giacinto Andrea Cicognini, documentato a Pisa e a Firenze sin dal 1632 (suo padre Jacopo era in contatto con Lope de Vega). Furono dunque i nostri comici - che con grande intuizione avevano assunto come titolo il sottotitolo originale - a esportare la commedia in Francia, dove curiosamente qualcuno commise un errore di traduzione mai corretto in seguito: "convidado/convitato" fu reso con "festin" ("convito"), il che è un controsenso, poiché "di pietra" è l’ospite, non l’ospitalità. Il seguito è storia nota. Ricordo però un’ultima curiosità. Quando nel 1754 Goldoni pubblicò la sua tragedia "Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto", scritta nel 1736, nella prefazione affermò: «Un secolo ora sarà, che uscì dalla Spagna il "Convitato di Pietra", commedia fortunatissima di Don Pedro Calderón della Barca». A parte la non celata bassa considerazione che ha per quest’opera, che definisce piena zeppa di improprietà, d’inconvenienze e di stravaganze, una cosa colpisce: e cioè la sua attribuzione a Calderón. Poiché Goldoni è precisissimo in ogni sua affermazione (addirittura cita testi oggi perduti) è lecito chiedersi quale versione avesse tra le mani, e quasi certamente la risposta è una sola: il "Tan largo me lo fiáis".
PIERO MENARINI