Corriere della Sera 7 giugno 2008, Sergio Romano Corriere della Sera 14 giugno 2008 Corriere della Sera 19 giugno 2008, 7 giugno 2008
Viaggio in Libano Il Libano che teme la guerra civile e si ferma sull’orlo del precipizio. Corriere della Sera 7 giugno 2008 Mentre lavorava alla formazione del nuovo governo libanese, il generale Michel Suleiman, presidente della Repubblica, ha chiesto che venissero rimossi dalle strade di Beirut i suoi ritratti, apparsi in gran numero, dopo la sua elezione, sulle facciate delle case e nelle vetrine dei negozi
Viaggio in Libano Il Libano che teme la guerra civile e si ferma sull’orlo del precipizio. Corriere della Sera 7 giugno 2008 Mentre lavorava alla formazione del nuovo governo libanese, il generale Michel Suleiman, presidente della Repubblica, ha chiesto che venissero rimossi dalle strade di Beirut i suoi ritratti, apparsi in gran numero, dopo la sua elezione, sulle facciate delle case e nelle vetrine dei negozi. Il maronita Suleiman è un uomo sobrio, pacato, poco loquace. Ma la richiesta, in questo caso, non è un segno di modestia. Nelle strade di Beirut non esistono soltanto i ritratti del capo dello Stato. Le fotografie dei leader, spesso grandi quanto l’intera facciata di una casa, annunciano l’identità religiosa e politica di una zona urbana. So di essere nel quartiere di Amin Gemayel, capo delle Falangi cristiane, perché la piazza principale è dominata dalla gigantografia del figlio Pierre, esponente della maggioranza anti-siriana, assassinato nel novembre del 2006 quando era ministro dell’Industria nel governo di Fouad Siniora. So di essere in un quartiere sciita perché la strada principale è tappezzata dai ritratti di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, e da quelli dei «martiri» caduti combattendo contro Israele. Quasi tutti i quartieri di Beirut sono religiosamente omogenei e alcuni di essi «gridano» la loro identità esponendo l’immagine del leader di cui sono elettori. Chiedendo la rimozione dei suoi ritratti Suleiman chiede alla classe politica di fare altrettanto e di rinunciare alla spartizione di Beirut fra aree d’influenza. Vorrebbe che il Libano smettesse di essere un mosaico di comunità religiose (sono diciotto) e divenisse finalmente uno Stato di cittadini, eguali di fronte alla legge, uniti dall’appartenenza a una stessa nazione. il sogno di tutti i riformatori. Non chiedono ai loro connazionali di rinunciare alla propria fede religiosa, ma vorrebbero che accanto all’identità confessionale vi fosse in ciascuno di essi il patriottismo libanese. Ogni crisi si conclude con un invito all’unità nazionale, unico rimedio contro le fazioni che dividono il Paese sin dal giorno, nel 1920, in cui il generale Henri Gouraud, conquistatore di Damasco, ne proclamò la nascita sotto le ali protettrici della Repubblica francese. Vi è persino qualcuno che vorrebbe conferire ai poteri pubblici una funzione tipica dello Stato moderno, ma esercitata in Libano dalle singole comunità religiose: lo stato civile. Sino a quando le nascite, le morti, il diritto matrimoniale e le disposizioni testamentarie saranno nelle mani delle singole confessioni, il Libano continuerà a essere un vestito d’Arlecchino, cucito con le pezze colorate di diciotto staterelli ecclesiastici. Occorre uscire da questa versione estrema della multiculturalità per creare infine il cittadino libanese. Peccato che le crisi si concludano generalmente grazie ad accordi che ribadiscono l’esistenza delle comunità religiose e il loro ruolo nella gestione politica del Libano. Ridotto all’osso, il patto firmato nello scorso maggio a Doha nel Qatar è soltanto lo strumento con cui i firmatari riconoscono che la storia e la demografia hanno modificato i rapporti di forza fra i tre maggiori gruppi religiosi: cristiani, sunniti e sciiti. Non esistono dati ufficiali perché un censimento periodico, come nei Paesi occidentali, avrebbe qui il pericoloso effetto di riaprire interminabili discussioni sulla spartizione delle maggiori cariche istituzionali. Ma non è necessario un censimento per sapere che gli sciiti, dopo essere stati per molto tempo l’ultima ruota del carro della società libanese, sono oggi, grosso modo, la metà del Paese. A Doha è stato deciso che il governo si comporrà di trenta ministri, che undici di essi saranno sciiti e che le maggiori decisioni verranno prese con la maggioranza dei due terzi. Il diritto di veto, che Hezbollah ha chiesto insistentemente sin dalla fine del 2006, è quindi ormai nelle sue mani. Non basta. Quando tornerà alle urne, probabilmente fra un anno, il Paese voterà con una nuova legge, approvata a Doha, che prevede distretti elettorali più piccoli e garantisce il seggio al gruppo religioso dominante. Il prossimo Parlamento sarà quindi, ancora più dell’attuale, il riflesso fedele del puzzle religioso libanese. L’esperimento tentato dal governo di Fouad Siniora negli scorsi mesi (la coalizione sunnita-cristiana al potere, gli sciiti e i loro alleati all’opposizione) è drammaticamente fallito nel momento in cui il presidente del Consiglio ha cercato di togliere a Hezbollah alcuni degli strumenti che consentivano alla maggiore organizzazione sciita di essere uno Stato nello Stato. La solidarietà nazionale, in altre parole, si conquista soltanto riconoscendo che il Libano, oggi, può essere soltanto una democrazia consociativa. All’ascesa politica degli sciiti corrisponde il declino demografico e politico delle comunità cristiane. Ho incontrato il Patriarca dei maroniti, Nasrallah Boutros Sfeir, nel suo palazzo di Bkirki alle pendici delle colline che salgono verso il Monte Libano: un piccolo «Vaticano» bianco in stile neoclassico circondato da chiese e da alberi contro lo sfondo di un cielo impeccabilmente azzurro. Capo di una Chiesa che riconosce il primato del vescovo di Roma, Sfeir è anche cardinale ed è il leader spirituale di una comunità religiosa composta da circa otto milioni di fedeli dispersi su cinque continenti. Ormai quasi novantenne ricorda con nostalgia l’epoca in cui il presidente della Repubblica, tradizionalmente maronita, veniva eletto con largo consenso prima che terminasse il mandato del predecessore. Erano gli anni in cui i cristiani (soprattutto maroniti, ma anche greco-ortodossi, greco-cattolici, armeni, caldei, siriaci) rappresentavano la metà della popolazione. Erano gli anni – ricorda Sfeir – in cui i maggiori partiti cristiani erano protagonisti della vita politica nazionale. Oggi hanno perduto la loro autonomia. Due di essi appartengono alla coalizione anti-siriana del 14 marzo, creata dopo l’assassinio di Rafik Hariri nel 2005, e il terzo (quello del generale Michel Aoun) gioca in campo sciita accanto agli Hezbollah di Nasrallah e al partito Amal di Nabih Berri, presidente del Parlamento. Il Libano della giovinezza del Patriarca Sfeir, il Paese dinamico e felice in cui la maggioranza cristiana esercitava una sorta di egemonia culturale, ha cessato di esistere. scomparso durante la guerra civile quando un milione di persone, prevalentemente maronite, abbandonò il Paese. Resta da vedere se il nuovo compromesso raggiunto a Doha possa creare un nuovo Libano, meno cristiano e più sciita, ma pur sempre capace di alloggiare, all’insegna della convivenza e della reciproca tolleranza, il più largo ventaglio di comunità religiose esistente nel Mediterraneo. Beirut è sempre, ancor più del Cairo, un pezzo di Occidente sulle coste meridionali del Mediterraneo, una città in cui una larga parte della popolazione non rinuncia a considerarsi culturalmente e civilmente europea. Non esiste ancora uno Stato dei cittadini, ma lo spettro della guerra civile rappresenta pur sempre una sorta di paradossale collante. Dopo essersi ferocemente combattuti, i libanesi sembrano essere uniti dal timore di ricadere all’indietro nel peggior periodo della loro storia. L’improvvisa insurrezione di Hezbollah, dopo la prova di forza tentata dal premier Siniora, sembra indicare che i semi della discordia sono ancora all’opera. Ma la rapidità con cui l’accordo è stato concluso dimostra che tutti gli attori del dramma, dopo essersi pericolosamente affacciati sull’orlo del precipizio, hanno saputo fare un passo indietro. Non tutto, però, dipende dai libanesi. A causa della sua fragilità il Paese ha la sventura di essere soggetto agli appetiti dei suoi potenti vicini. A causa della sua parcellazione politico-religiosa è il luogo in cui si combattono per procura tutti i conflitti della regione. Il patto di Doha ha avuto il merito di evitare un nuovo conflitto civile. Ma darà buoni risultati soltanto se sarà riconosciuto dalla Siria, se l’Iran rinuncerà a servirsi di Hezbollah per i suoi scopi, se Israele metterà fine al suo contenzioso con il Libano restituendogli un pezzo di territorio nazionale (le fattorie di Sheba) occupato nel 1967. Il maggiore fattore di rischio è oggi ancora rappresentato dall’intreccio di interessi che lega da molti anni il movimento Hezbollah alla Siria di Bashar al Assad e all’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Sarà questo l’argomento di un nuovo articolo. Sergio Romano Il doppio volto di Hezbollah. Corriere della Sera 14 giugno 2008 BEIRUT – probabile che il compiacimento con cui il Dipartimento di Stato ha commentato l’accordo raggiunto dalle fazioni libanesi a Doha, nel Qatar, nasconda un certo disappunto. L’America ha sostenuto il governo di Fouad Siniora quando era assediato nel Serraglio (il grande Cremlino Ottomano costruito nella seconda metà dell’Ottocento) dalla tendopoli dei militanti di Hezbollah. E ha approvato l’apparente fermezza con cui Siniora ha cercato di togliere alla maggiore organizzazione sciita due formidabili strumenti di potere: la proprietà di una grande società delle telecomunicazioni e il controllo della sicurezza nell’aeroporto di Beirut. Non può piacerle quindi che un’«organizzazione terroristica» (come Hezbollah viene abitualmente definita a Washington) divenga il partner indispensabile della maggioranza anti-siriana e partecipi al governo con un diritto di veto sulle questioni di maggiore importanza. Ma gli Stati Uniti farebbero bene a ricordare che il terrorismo è soltanto uno dei volti dell’organizzazione. Hezbollah può essere contemporaneamente molte cose. un esercito composto da circa 40.000 miliziani che tengono il kalashnikov sotto il letto come un riservista svizzero terrebbe il fucile nell’armadio, e rispondono all’appello di un sms con la rapidità di un pompiere. un movimento di guerriglia che ha punzecchiato Israele per parecchi anni e gli ha tenuto testa durante l’estate del 2006. Ha un vertice in buona parte segreto e un leader carismatico (Hassan Nasrallah) che parla a folle adoranti da un rifugio segreto mentre raffinate tecnologie proiettano la sua immagine su un grande schermo. il maggiore alleato della Siria nella società libanese. la longa manus dell’Iran nella regione. Ed è infine, grazie ai generosi finanziamenti iraniani, una specie di elementare «welfare state». Le ragioni della sua popolarità sono in buona parte dovute alla prontezza e all’efficienza con cui può colmare, a favore della comunità sciita, i vuoti dell’assistenza statale. Fu Hezbollah che aiutò gli abitanti dei quartieri distrutti, dopo l’estate del 2006, con generosi sussidi. Di questo stile assistenziale, con una forte coloratura religiosa, ho avuto una dimostrazione durante una visita a Baalbek, il grande sito archeologico dove sorgono le bellissime rovine di due dei più grandi templi dell’antichità romana. Baalbek è nella valle della Bekaa, a meno di due ore da Beirut, in una zona prevalentemente sciita che i francesi tolsero alla Siria e dettero al Libano nel 1920. Il governo di Parigi lo fece per compiacere i suoi alleati cristiani e allargare i confini del suo pupillo favorito, ma gettò in tal modo i semi dei mutamenti demografici che avrebbero progressivamente alterato gli equilibri religiosi del Paese. In Europa Baalbek ebbe grande notorietà degli anni Cinquanta e Sessanta per il suo festival e per i fastosi spettacoli ambientati fra le colonne dei templi di Giove e di Bacco. Era il più felice periodo della storia libanese, quello in cui il Paese appariva al mondo come una sorta di fortunata sintesi fra la Svizzera e il principato di Monaco. Per molto tempo Baalbek visse soprattutto di un ricco turismo straniero che nutriva gli abitanti della piccola città e agli agricoltori del contado. Interrotto dalla guerra civile, il festival rinacque stentatamente negli anni Novanta ed è stato costretto a chiudere i battenti ancora una volta dalla guerra israeliana del 2006. Ma Hezbollah è corso ai ripari costruendo alle porte del Paese una vistosa moschea in stile iraniano, ricoperta dal blu profondo di migliaia di piastrelle. dedicata a una bambina che non vide mai la vita. Nacque morta probabilmente nella vale della Bekaa, durante la fuga dalla Mesopotamia della madre, Zainab, dopo l’assassinio del nonno Ali e dello zio Hussein. Appartiene quindi alla dinastia dell’imam ucciso, al mito di Kerbala, al grande dramma della successione che divise l’Islam in due famiglie rivali: quella «usurpatrice » dei sunniti e quella «legittima» degli sciiti. Come i santuari intitolati al nome della madre, numerosi nel mondo musulmano, anche quello della figlia mai nata di Zainab attrae pellegrini da ogni parte dell’Islam. E il pellegrinaggio religioso, come dimostrano molte esperienze europee, da Lourdes a San Giovanni Rotondo, può essere una formidabile risorsa economica. Se il denaro di Hezbollah proviene dall’Iran, le armi e i missili di cui dispone arrivano in Libano attraverso il territorio siriano o l’aeroporto di Beirut che il governo Siniora, per l’appunto aveva inutilmente cercato di sottrarre al controllo sciita. Tagliare il nodo che lega l’organizzazione a Damasco è difficile, ma non impossibile. Fra uno Stato laico, nazionalista e socialista, come la Siria, e un movimento nazional- religioso come Hezbollah, non esiste alcuna affinità ideologica. Il matrimonio fu stipulato per ragioni di convenienza e potrebbe essere sciolto, ad esempio, il giorno in cui la Siria si appagasse della restituzione delle Alture del Golan, materia di un negoziato avviato già da tempo con l’intermediazione della Turchia, e rinunciasse alla tentazione di trattare il Libano alla stregua di un protettorato. alquanto diversa invece la natura delle relazioni fra Hezbollah e l’Iran degli ayatollah. Il movimento libanese fa parte della mezzaluna sciita, come la definì Abdullah re di Giordania, ed è legato da vincoli religiosi a un mondo che la rivoluzione iraniana degli ayatollah, per meglio difendersi dai suoi nemici, ha cercato di unificare. Vi sono fra i cristiani libanesi, tuttavia, personalità convinte che i gusti e le inclinazioni occidentali del Libano siano minacciati dai sunniti molto più che dagli sciiti. Il maggiore sostenitore di questa tesi è il generaleMichel Aoun, capo di un partito cristiano (il Libero Movimento Patriottico ) che ha stretto un patto di alleanza con le due maggiori formazioni sciite: Hezbollah e Amal. Aoun è il personaggio più sorprendente e controverso della recente storia libanese. Alla fine degli anni Ottanta, come capo delle forze armate e per un breve periodo primo ministro, combatteva i siriani e i loro alleati nelle vie di Beirut. Sconfitto, si rifugiò nell’ambasciata di Francia e raggiunse Parigi dove rimase in esilio sino al maggio del 2005. Quando tornò in patria, tre anni fa, molti, pensavano che sarebbe entrato nel blocco anti-siriano dei sunniti di Saad Hariri e dei due maggiori partiti cristiani, quello di Amin Gemayel e quello di Samir Geagea. Ma ecco che l’imprevedibile Aoun, rovescia le sue vecchie posizioni ed entra trionfalmente nel campo di Hezbollah. L’ho incontrato nella sua villa di Beirut, immersa nel verde di un piccolo parco e guardata a vista dai suoi miliziani. Quando gli chiedo perché un generale cristiano sia oggi alleato di un movimento fondamentalista e terrorista, Aoun mi risponde che Hezbollah non è terrorista e neppure fondamentalista. I veri fondamentalisti – sostiene – sono i sunniti dell’Arabia Saudita, dominati da una lettura strettamente letterale del Corano. Lo sa, mi dice, che gli aerei di Swissair potevano sorvolare il territorio saudita soltanto durante la notte perché nessuno potesse vedere la croce elvetica dipinta sulle loro ali? Gli sciiti invece sono più liberi e duttili, più disposti ad adattare i precetti del Corano alle esigenze della modernità. Quando gli ricordo la condizione della donna nello Stato iraniano, Aoun risponde che quello è uno Stato per i persiani, non per gli arabi, e aggiunge: ciò che va bene per l’Iran non va bene per il Libano. Può darsi che in queste parole vi siano le personali ambizioni di un uomo politico spregiudicato che ancora puntava, qualche settimana fa, alla presidenza della Repubblica. Ma non è sbagliato sostenere che gli sciiti siano stati in molte circostanze, più flessibili e pragmatici dei sunniti. Il problema comunque è molto più politico che teologico. Piuttosto che lasciarsi coinvolgere in dispute religiose, l’Europa, presente in Libano con alcune migliaia di soldati, dovrebbe lavorare a rendere meno stretti i rapporti speciali di Hezbollah con la Siria e l’Iran. Dovrebbe essere l’Unione Europea, non la Siria o l’Iran, il miglior tutore del Libano e il più efficace garante della sua stabilità. Parlare con Hezbollah, dopo quanto è accaduto nelle scorse settimane, può essere, oltre che necessario, utile. Sergio Romano Tra i vicoli senza luce di Shatila Vite sospese di rifugiati palestinesi. Corriere della Sera 19 giugno 2008 Le cause remote della guerra civile libanese furono i precari equilibri fra le diciotto comunità religiose installate da secoli in una stretta lingua di terra fra il Mediterraneo e la valle della Bekaa. Ma le cause vicine, quelle che dettero fuoco alla miccia nella primavera del 1975, furono l’arrivo nel Paese di parecchie migliaia di militanti palestinesi, cacciati dalla Giordania di re Hussein. In Libano, accolti in campi di fortuna, vivevano già altri palestinesi, fuggiaschi del 1948 e del 1967. Ma i nuovi arrivati avevano le armi, un’organizzazione militare e soprattutto l’intenzione di trasformare il Libano in una base strategica per le loro operazioni contro Israele. Erano quindi, virtualmente, uno Stato nello Stato. Non vi fu un colpo di pistola, come a Sarajevo, nell’estate del 1914. Ve ne furono molti, con la loro inevitabile coda di rabbia, lutti e vendette, sino al 13 aprile 1975 quando un autobus carico di palestinesi cadde sotto il fuoco incrociato delle Falangi cristiane a Beirut mentre attraversava il quartiere di Ain Al Rumanneh. I morti furono 27, i feriti 19: i primi di una sporca guerra che fece probabilmente quasi duecentomila vittime. La partenza delle milizie di Arafat, all’inizio degli anni Ottanta, non impedì che la guerra, ormai alimentata dalle interferenze straniere, continuasse sino al 1990. Ma la memoria del conflitto, nella coscienza dei libanesi, resta indissolubilmente legata al ricordo dei palestinesi che «invasero» a più riprese il territorio nazionale. Ve ne sono circa duecentocinquantamila, divisi fra una dozzina di campi che vengono amministrati da un’agenzia dell’Onu (Unrwa, United Nations Relief and Works Agency). Sono molto meno dei seicentomila che vivono in Siria e di quelli (più di un milione e mezzo) che vivono in Giordania, ma hanno meno diritti dei loro connazionali dispersi nella regione. Non possono acquisire la cittadinanza libanese. Non possono esercitare le libere professioni. Possono tutt’al più svolgere piccoli lavori manuali soprattutto in nero. Per cercare di comprendere quali siano le loro condizioni di vita ho visitato Shatila, il più famigerato dei campi, quello che fu teatro degli orrendi massacri del 1982. Richard Cook, direttore dell’Unrwa per il Libano mi indica il campo dalle finestre del suo ufficio e più tardi, lungo il percorso, il luogo dove, secondo i cronisti dell’epoca, le forze armate israeliane installarono i riflettori che avrebbero illuminato Shatila durante il micidiale raid delle milizie cristiane. Mentre ci infiliamo in minuscoli vicoli, sgambettando fra pozze d’acqua e occasionali pezzi di selciato, Cook mi spiega che il campo dovrebbe alloggiare tremila persone e comporsi di casupole o baracche di un solo piano. Ma nessuno poté evitare che le casupole, con il passare degli anni, venissero costruite in cemento, che i piani divenissero cinque o sei e che il numero degli abitanti, sullo stesso spazio fornito a suo tempo dalle autorità palestinesi, salisse a circa 12.000. La parola «campo», del resto, è ormai del tutto impropria. Shatila è la caricatura grottesca di una città. Ha vie incredibilmente strette, piccolissimi slarghi, negozi angusti. Affacciandomi su una finestra a pian terreno vedo un muratore: sta alzando un muretto all’interno di una stanza che non supera i tre metri quadrati. Le case sono troppo vicine l’una all’altra perché i raggi del sole possano entrare a Shatila. La piccola fetta di cielo che s’intravede fra i tetti è quasi completamente nascosta da un fitto reticolato di cavi elettrici volanti e da bombole del gas, appoggiate su un terrazzino di fortuna. L’acqua si prende dagli idranti collegati alle tubature di Beirut, ma non è potabile. Dimenticavo: questi minigrattacieli non hanno fondamenta. Basterebbe una sola scossa di terremoto per trasformare Shatila in una tomba collettiva. Grazie all’Unrwa le condizioni sanitarie, paradossalmente, sono migliori dell’immaginabile. L’agenzia raccoglie la spazzatura al mattino, distribuisce bottiglioni d’acqua potabile, assicura l’insegnamento scolastico e una certa assistenza sanitaria, aiuta le famiglie più bisognose e organizza corsi di family planning per controllare nei limiti del possibile l’aumento della natalità. Cook mi spiega che le malattie infettive (tifo, colera, antrace) sono rare e che il rischio delle epidemie è modesto. Ma l’aria cattiva, l’umidità, la mancanza di luce e la cattiva alimentazione rendono gli abitanti di Shatila molto più vulnerabili alle malattie «ordinarie», dal diabete al cancro, dalla tubercolosi all’Aids. I bambini sono belli, vivaci, curiosi e, a giudicare dai risultati scolastici, eccezionalmente intelligenti. Ma gli adulti che ammazzano il tempo fumando neghittosamente il narghilé all’angolo di una casa sono quegli stessi bambini venti o trent’anni dopo. La stretta al cuore con cui il visitatore esce da Shatila è il pensiero del loro futuro. possibile gestire indefinitamente l’orrore con i criteri dell’ordinaria amministrazione? Ne ho parlato a lungo con due persone che dedicano a questo problema buona parte delle loro giornate: Abbas Zaki, rappresentante a Beirut dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e l’ambasciatore Khalil Makkawi, presidente del Comitato di dialogo israelo-libanese. Zaki sa che il Libano non ha dimenticato il ruolo dei palestinesi nella guerra civile e non può ignorare che la loro integrazione nella società nazionale sconvolgerebbe il delicato equilibrio cristiano-sunnita-sciita. E sa infine che la questione palestinese si è bruscamente riaperta nel 2007 quando poche centinaia di militanti di una misteriosa organizzazione islamista, Fatah Al Islam, si sono impadroniti del campo di Nahr el Bared, nel nord del Libano, hanno rapinato una banca, hanno ucciso 179 soldati libanesi e ne hanno brutalmente massacrati trenta. In quei mesi cruciali, mentre il generale Michel Suleiman, oggi presidente della Repubblica, bombardava il campo di Nahr el Bared, Zaki ha temuto di ricadere nel vortice degli anni in cui i suoi connazionali erano considerati una minaccia all’integrità e alla stabilità del Paese. Per esorcizzare il passato ha diffuso nel gennaio del 2008 una dichiarazione in cui è detto tra l’altro che i palestinesi in Libano debbono sottomettersi all’autorità dello Stato e che l’Olp s’impegna a rispettarne la sovranità. Ma è preoccupato. Nelle vicenda di Fatal Al Islam, il rappresentante dell’Olp vede interferenze straniere, forse siriane, e la mano di chi vorrebbe seminare zizzania nella regione. Nei confusi negoziati diplomatici delle ultime settimane fra Israele e la Siria, invece, vede il rischio che la questione palestinese finisca su un binario morto. E non può dimenticare, suppongo, che i campi sono focolai di rabbia, vivai di possibili reclutamenti. Sui muri di Shatila non ho visto le fotografie di Arafat e Mahmoud Abbas. Ho visto quelle dei «martiri » che combattono contro Israele nella Striscia di Gaza. Khalil Makkawi è un vecchio diplomatico, esperto, affabile, intelligente, già rappresentante del suo Paese a Roma e vice presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite. copresidente con Zaki del Comitato per il dialogo libano- palestinese da quando il governo di Fouad Siniora, nel 2006, volle dimostrare che il Libano non aveva dimenticato i suoi sventurati «ospiti». Ma la sua maggiore preoccupazione in questo momento è il loro presente, non il loro futuro. Mi ha mostrato i progetti per la ricostruzione del campo di Nahr Al Bahr, spiegati sulle pareti del suo ufficio come nello studio di un architetto, e mi ha parlato della conferenza dei donatori che avrebbe dovuto tenersi a Vienna qualche giorno dopo per trovare il denaro necessario alla ricostruzione. Non basta. Si rende conto che occorre dare ai palestinesi il permesso di lavorare e non esclude che il parlamento libanese, più tardi, possa autorizzarli con una legge speciale all’esercizio delle professioni. Ma per il momento anche Khalil Makkawi, come il direttore dell’Unrwa, deve limitarsi ad amministrare l’esistente e a correggere per quanto possibile gli aspetti più inumani della vicenda. I rifugiati palestinesi in Libano sono la più piccola delle tre comunità insediate nella regione. Ma la natura del Libano rende la loro integrazione molto più difficile di quanto sia quella dei palestinesi in Siria e in Giordania. Dimenticando per un momento le obiettive difficoltà politiche, l’osservatore straniero non può fare a meno di ricordare che i coloni israeliani nei territori occupati sono oggi circa 400.000 mila. Se si è trovato lo spazio per i loro insediamenti perché non potrebbe esservi spazio, un giorno, anche per i 250.000 palestinesi del Libano? Separare la loro sorte da quella dei compatrioti più stabilmente alloggiati in altri Paesi potrebbero essere un segnale di buon senso, oltre che di umanità. Sergio Romano