La Repubblica 22 maggio 2008, PIETRO CITATI, 22 maggio 2008
Attilio Bertolucci. La Repubblica 22 maggio 2008 Tutti i giorni, per almeno trent´anni, Attilio Bertolucci ed io ci siamo telefonati ogni mattina
Attilio Bertolucci. La Repubblica 22 maggio 2008 Tutti i giorni, per almeno trent´anni, Attilio Bertolucci ed io ci siamo telefonati ogni mattina. Erano quasi le otto. Di solito, chiamava lui, perché era abituato ai risvegli precoci della campagna: sentivo nella sua voce lieta e curiosa l´alba, l´umidore dei campi, i primi raggi radenti del sole; mentre io dovevo ancora stropicciarmi dagli occhi il mio pesante sonno di torinese. Non c´è nulla, o quasi nulla, di cui abbia più nostalgia: era una specie di benedizione o di viatico, che mi permetteva di percorrere, lieto o almeno protetto, le ore della giornata. Non parlavamo mai dei Grandi Problemi della vita, della politica e della letteratura: tanto meno di quelli del pensiero, perché Bertolucci credeva che il pensiero dovesse stare nascosto nei libri di uno scrittore, senza venire alla luce. Era un maestro della petite conversation: l´unico che gli stava vicino, era Giovanni Macchia. Parlavamo di tutte le cose che formano il tessuto quotidiano dell´esistenza: piccoli avvenimenti, aneddoti, storie buffe, libri, amici, ricordi. Con la sua voce volubile, ora chiarissima ora appena soffocata, scivolava su tutte le cose: si soffermava su un ricordo, illuminava un quadro o un libro; ciò che, per lui, importava nella conversazione era la continuità e vibrazione intermittente della voce. Era pettegolo: qualche volta garrulo, come un grosso passero dell´Appennino emiliano. Non era mai aggressivo: come Italo Calvino, non parlava male di nessuno; perché la parola aggressiva non è elegante, e deforma i tratti della verità. Ogni tanto, lanciava un piccolo dardo: acuto, ma non maligno. Potrei dire che era buono: sarebbe troppo poco; perché egli è sempre vissuto al di fuori e al di sopra del bene e del male, ai piedi dell´albero della vita. Quando lo conobbi, m´ingannai sul suo conto. Pensavo che fosse un uomo d´ordine: un borghese, un agricoltore, un pater familias virgiliano. Pochi campi ereditati dagli avi gli garantivano una modesta agiatezza: la moglie vegliava amorosamente sulla quiete dei suoi giorni e delle sue notti. Mi dava sicurezza, come se fosse protetto da dieci secoli di civiltà contadina: mentre io dovevo cercare ogni giorno un nuovo appoggio. Dopo poco tempo, mi accorsi che mi sbagliavo. Quel contadino era un viandante: un pellegrino senza patria né dimora; e nell´incantevole carcere che aveva costruito attorno a sé stesso, si aggirava con l´inquietudine con cui altri percorrono gli oceani. Era un esiliato sulla terra, come dice Paolo Lagazzi nel bel libro che gli ha dedicato: La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci (Garzanti, pagg. 188, euro 18). Qualsiasi cosa scrivesse, scopriva l´ombra annidata nella luce, la morte nascosta nella vita, l´ansia e l´assillo celati nella felicità di ogni giorno. Era un malato. Per due volte nella sua vita, varcò le soglie di una clinica psichiatrica. La prima volta, quando venne sottoposto a una cura insulinica, Giorgio Bassani andava a trovarlo quasi ogni giorno. Un pomeriggio, Bertolucci confidò disperatamente al vecchio amico che lui non era malato: lui era il colpevole; aveva infettato con un germe incurabile la moglie e i due figli, che ora languivano e morivano lontani da lui. Vent´anni dopo, il male lo riassalì: venne sottoposto a una lunga cura di elettroshock, che non riusciva ad avere ragione della malattia. Tutte le volte che lo vedevo, mi guardava dolcemente: sembrava che non fosse lì, ma abitasse da un´altra parte, nel cuore stesso della malattia, scrutando il mondo degli altri, dei normali, dei felici, dove forse non sarebbe mai più ritornato. Se qualcuno mi chiedesse di cosa era malato, non saprei rispondergli con precisione, come non saprei dire quale era la malattia di Hölderlin, di Nerval o di Baudelaire. Certo, era malato di ansia: di ansia «indeterminata», come dice Paolo Lagazzi. Gli sembrava di essere assalito da un eccesso di felicità, che non poteva sopportare: poi, all´improvviso, la felicità lo abbandonava completamente lasciandolo nel deserto della desolazione. Si accusava di aver amato con troppo ardore la vita: quella era la colpa suprema; e ora non sapeva ritrovare nemmeno una scintilla della vita radiosa che lo aveva illuminato per tanto tempo. Se la moglie andava dal parrucchiere e tardava venti minuti, pensava che non tornasse mai più, e usciva febbrilmente a ricercarla a via Carini, fino a quando il volto amato, il volto della sua bellissima «amazzone», ricompariva. Forse andò più oltre: forse verso la fine della vita, conobbe l´assalto ciclico della psicosi maniaco-depressiva; e rischiò di perdersi per sempre nell´abisso della Follia, con gli occhi stravolti, come uno di quei vagabondi di cui parlano i Dialoghi del Tasso. Credo che, in primo luogo, l´abbia salvato la letteratura: madre di ogni malattia e di ogni guarigione. La letteratura gli insegnò il giusto modo per usare la malattia. Sprofondato nella nevrosi, la poesia di Viaggio d´inverno e della Camera da letto gli apprese a trarre dalle proprie ombre l´equilibrio sovrano del cuore, la precisione dello sguardo, la sapienza della costruzione. La nevrosi acuiva i suoi sensi: non li offuscava. Aveva alle spalle dieci secoli di civiltà e di religione contadina, che non potevano abbandonare il loro ultimo figlio. Così questo malato seppe diventare giusto e saggio, come nessun´altra persona abbia mai conosciuto. Parlava di tutte le cose che aveva visto con gioia, divertimento, e un´infinita simpatia verso ogni apparenza. * * * Tra i poeti italiani del Novecento, Bertolucci ebbe, probabilmente, la più vasta e precoce vocazione naturale. Quando era bambino, la penna scorreva già senza intoppi e interruzioni sul quaderno di scuola. Mi raccontò che, quando studiava al liceo, ultimava il compito di classe d´italiano in venti minuti: il protocollo della bella non portava la minima correzione o cancellatura. Solo che, per non insospettire il professore, poi scriveva la brutta, con finti errori, finte incertezze, finte cancellature; e lasciava la classe un´ora prima degli altri ragazzi. Non voleva crescere, maturare, laurearsi, sposarsi, diventare padre, lavorare, pubblicare libri: essere uno come tutti gli altri, abbandonando «il bozzolo sonoro e dorato dell´adolescenza». Poi crebbe: l´esile rigagnolo di Sirio diventò il grande fiume epico-lirico della Camera da letto. Senza la minima vanità, senza dichiararsi grande come fanno tutti gli scrittorucoli, era sicurissimo della propria vocazione: sapeva di essere un poeta, nient´altro che un poeta: con innocenza, come fosse un bollito o una patata al forno. Anche a settant´anni, sposato e con due figli adulti, pretendeva che il bambino nascosto in lui non era mai cresciuto: conservava ancora l´irresponsabilità febbrile dell´adolescenza. Come diceva Goethe di Wilhelm Meister (e di sé stesso), conservava die eigentliche Original-Natur. Di questa perenne adolescenza aveva molti tratti incantevoli. Era rimasto un dilettante, e qualche volta ostentava con civetteria il proprio dilettantismo. Per esempio, non aveva uno studio: i suoi libri stavano sparsi in tutta la casa. Leggeva in qualunque posto: sul letto (più sovente), in poltrona, in cucina, nell´autobus che lo portava nel centro di Roma, o al bar della Mela stregata, lungo le rive del Tevere, dove scrisse molte sequenze della Camera da letto. Senza aprire bocca, voleva far comprendere che la letteratura non conosce luoghi dove rinchiudersi. Vive all´aria aperta. Leggere libri è respirare con tutta l´anima e il corpo: respirare come respira un albero, con le sue migliaia di foglie mosse dal vento e le radici che percorrono in segreto la terra e scendono non sappiamo dove. Quando parlavamo di letteratura, mi sentivo un disgustoso pedante: lui aveva il genio; mentre io leggo in uno studio corazzato, sempre sulla stessa poltrona e con lo stesso leggio, scrivo migliaia di appunti, e intorno a me, per terra, stanno decine di libri, dizionari etimologici, lessici, concordanze, Pauly-Wissowa di ogni specie ed argomento. Non lavorò mai. O, per meglio dire, insegnò per qualche anno (come supplente) in una scuola di Parma: diresse un mensile dell´Eni, Il gatto selvatico, dove scrisse una storia dell´arte a puntate; e fu a lungo consulente di Livio Garzanti, restando, non si sa come, l´unica persona che Garzanti non abbia mai odiato. Scrisse molti articoli sul Giorno e su Repubblica, parlando di letteratura, storia dell´arte, antiquariato, o sciocchezze di ogni genere, - perché questo dilettante sprovvisto di libri conosceva tutte le cose dell´universo. Riusciva a fare in modo che il suo lavoro non sembrasse lavoro: attorno a lui non c´erano uffici, né tavoli ingombri di carte, né segretarie, né obblighi, né impegni, né scadenze. Ma fare quello che piace è la più difficile tra le arti: immensamente più difficile del lavoro di un amministratore delegato di una Banca o di un´industria o del direttore di un giornale o di un Presidente del Consiglio, il quale crede di guidare la storia. Quando si sposò, l´amata - Ninetta - sostituì la madre. Nella Camera da letto, la madre appare come una figura tragica: impaziente, nervosa, fantastica, incalzata da una furia autodistruttiva - l´ansia, il complesso famigliare, l´eccesso di vitalità sanguigna e amorosa, che la condussero presto alla morte. L´amata era la figura opposta e complementare. Se la madre ricordava Afrodite, l´amata era Artemide, «l´amazzone insanguinata e tranquilla», il corpo efebico dell´eterna adolescente, l´ignoto uccello fermo sulle acque profonde. Tra l´amata e l´amato si stabilì subito una divisione del tempo. A lui spettava la notte, il sonno, la fiamma della candela, che diffondeva attorno a sé quell´effetto di luce-ombra, da cui nasceva l´effetto della sua poesia e forse di ogni poesia. Alla moglie, sacerdotessa della famiglia, spettava la luce del giorno: aveva quella mente «soccorsa dal chiarore diurno della ragione», che lui non possedeva; e prese il posto della madre come protettrice e generatrice di traumi. La passione di Bertolucci per la moglie fu l´unico esempio d´amore assoluto che io abbia mai intravisto. L´amore per la sua amazzone non lo lasciava mai libero: doveva essere vissuto istante per istante, con un´ebbrezza inconsumabile che, a volte, pesava sull´anima, l´annegava e quasi la uccideva con la felicità, e gli impedì per anni di scrivere versi. Lei era lì, vicinissima, nella stessa camera e nello stesso letto: accompagnava i pranzi, le passeggiate, le conversazioni fatte di niente; eppure era l´amata di un Trovatore, la donna de lonh, la donna impossibile. Su questo mondo della fedeltà incessante, incombeva la mancanza di certezza: da un momento all´altro, la donna impossibile avrebbe potuto lasciarlo, e gettarlo nella più angosciosa solitudine. Nessuna felicità era così precaria: mezz´ora di ritardo poteva essere atroce come la guerra di Troia. Questo eros minacciato si allargava, si estendeva, pervadeva tutte le cose: non c´era fiore, farfalla, albero, cespuglio, strada di città o di campagna, episodio dell´infanzia e della maturità, montagna o fiume collinare che non fossero irraggiati dall´immensa fascinazione erotica. Infine l´amore assoluto (che a rigore doveva stringere soltanto due persone) generò la famiglia. Nacquero prima Bernardo, poi Giuseppe: i loro giochi con la teleferica, le passeggiate lungo il torrente montano, i primi libri, le prime pitture, i primi versi, la prima macchina da presa. Il contagio si estese. La famiglia era il luogo del doppio peccato: il peccato amoroso, che bagnava le membra dei coniugi, e il peccato edipico, il troppo pieno dell´amore materno, paterno e figliale; doppio peccato che costituisce l´essenza della famiglia borghese e la rende compatta e l´incrina e l´avvolge con la sua ombra. Bertolucci doveva essere un padre meraviglioso e tremendo. Molti anni fa, a Parma, il figlio Bernardo mi disse che, quando era piccolo, il padre contendeva ai figli l´amore della madre. La voleva tutta per sé, indivisa, come l´ancella, la serva amorosa, la fonte sigillata del Cantico dei Cantici. * * * Era fedele: forse soprattutto ai luoghi. Suo padre gli aveva lasciato un podere vicino a Parma: Baccanelli, dove visse molto tempo. Quando la città si avvicinò e avvolse da tutte le parti la vigna e le stalle e la casa (dove ho dormito), Bertolucci vendette la casa - e, per tutta la vita portò il rimorso e la ferita per quella vendita. Gli pareva di aver tradito la famiglia degli avi, alla quale tutto il suo sangue apparteneva, sebbene la mente abitasse nel paese di non dove. Era l´ultimo erede di una tradizione che si perdeva nei secoli, sia sul versante dell´Appennino sia sul versante della Pianura Padana. Quei luoghi non avevano nulla in comune con tutti gli altri: erano sacri; non soltanto terra, alberi e pietre e vigne, ma affetti sublimati e distillati dal tempo. Il luogo sacro era soprattutto Casarola: un paese di quattro case sull´Appennino emiliano, dove tutte le estati, per ventiquattro anni, Paolo Lagazzi raggiunse Bertolucci. Casarola era il fondamento, la radice, l´osservatorio dal quale guardare il mondo. Lì compose la maggior parte della Camera da letto. Tutte le mattine, alle nove, Bertolucci lasciava la casa, con in mano un quaderno a righe e il cappello di paglia sul capo. Giungeva fino a una curva della strada, prima del ponte in rovina sul fiume Bratica. Mentre passeggiava vicino alle Marie incise sui bordi della strada, scriveva i versi del poema, ora brevi ora lunghissimi. Scriveva; e l´aria viva e la luce del sole e l´ombra delle nuvole e il profumo degli alberi e la squilla della chiesa e l´ora del giorno e il ritmo del passo si insinuavano nel quaderno e impregnavano i versi. Anche a Roma, quando discendeva la collina di Monteverde, raggiungeva il Tevere, lo attraversava, si fermava alla Mela stregata o raggiungeva il cuore di Roma barocca, passeggiava con la stessa gioia. Tutto lo incantava: ora un bambino che giocava a palla nell´angolo di una piazzetta, ora un viandante frettoloso, ora un vecchio mendicante al sole sulla riva di un fiume, ora uno spicchio di cielo tersissimo in pieno inverno, ora le acque verde-cupo del fiume. Quando scriveva, non rinunciava a nulla di ciò che è visibile e invisibile. Tutta la realtà, soprattutto quella quotidiana, minima e insignificante, alla quale noi non badiamo, veniva riflessa nello specchio dell´opera d´arte. Sebbene fosse educato sui libri dei maestri dell´estetismo, non aveva la minima riluttanza ad accogliere le apparenze della vita moderna. Se erano benedette dal sole, una macchina per caffè-espresso o un juke-box potevano essere belli come il Battistero di Parma. Amava le cose più futili: le mode, gli abiti e i cappelli delle signore, le canzoni, i film che non varcheranno la stagione, le chiacchiere ascoltate sul tram, una ragazza che si chiude la cuffia da bagno sul capo. Le amava perché appartenevano al presente: niente, per lui, era più mobile, irrequieto ed affascinante del vierge, vivace et bel aujourd´hui. Ma in tutto ciò che era presente avvertiva subito la ruga, la caducità, che fra poco l´avrebbe consumato e consunto, rendendolo degno del nostro rimpianto. Al contrario di Giorgio Caproni, non conosceva la tensione metafisica: non sapeva, o aveva intuito soltanto qualche barlume, di ciò che appare, nel vuoto o nello splendore celeste al di sopra della nostra terra. La sua era una religione dei corpi: del sonno oscuro, dei sensi voluttuosi od opachi, del cibo cieco, della vita ripetuta della famiglia; e di tutte le albe e i tramonti e i mezzogiorni e le notti che si erano susseguite da quando Dio aveva pronunciato il suo Fiat Lux, e la terra aveva cominciato a produrre germogli, alberi da frutto, erbe verdi. Era una teologia dell´incarnazione, dove Cristo era invisibile. * * * Vennero gli ultimi anni. Bertolucci, che aveva tanto parlato e amato le parole, cominciò a coltivare e a gustare il silenzio: tutte le volte che andavo a trovarlo, dovevo essere io a proporre l´argomento della conversazione. Lui sorrideva ascoltando. Poi cominciò a morire: lentissimamente. Ogni giorno si avvicinava un poco alla morte, che durante la vita aveva tenuto così vicino al cuore. Il profumo intensissimo della sua vita andava lentamente esalando e perdendosi nell´aria. L´otto giugno 2000 morì. Come Paolo Lagazzi, penso che egli non sia scomparso del tutto: lui solo tra i miei amici, che restano vivi appena nel ricordo. Una goccia, o un barlume, del suo profumo è ancora qui, nel quartiere Monteverde, o alla Mela stregata, o lungo le strade dell´Appennino, o a Tellaro, o a Parma, o a Baccanelli. Forse, come avrebbe voluto, si è trasformato in una farfalla - una di quelle farfalle «che vanno sempre a due a due / e se una si perde entro il cespo violetto / delle settembrine l´altra non la lascia ma sta / sopra e vola confusa che pare si sbatta / contro i muri di un carcere mentre non è che questo / oro del giorno già in via di offuscarsi / alle cinque del pomeriggio avvicinandosi ottobre». Oggi, non esiste quasi più la venerazione. Esiste raramente negli eventi religiosi, dove tutti esigono una fede adatta ai bisogni e ai desideri e alle esigenze del nostro tempo. Esiste pochissimo in letteratura, dove viene ritenuta una cosa ridicola. Ma, se almeno in giovinezza, uno scrittore non ha venerato con tutta la mente e il cuore Proust o Hopkins o Kafka o Leopardi o Montaigne o Tasso, non avrà mai la forza di scrivere un racconto degno di questo nome, o un romanzo, o una poesia, e nemmeno un saggio o un articolo di critica letteraria. Il libro di Paolo Lagazzi è un esercizio di venerazione, o una preghiera nascosta. Ricorda un grande poeta, ancora in parte misconosciuto, e accompagna i suoi passi lungo la strada che porta da Casarola al ponte sul Bratica, guarda con lui un albero, si ferma se egli si ferma, osserva le figure in pietra della Madonna,, cerca di seguire la mano che insegue le farfalle che si nascondono « nel cespo violetto delle settembrine». PIETRO CITATI