Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 5/6/2008, 5 giugno 2008
Sono passati 18 anni da quando l’economista John Williamson coniò l’espressione Washington Consensus per i rimedi economici che l’anno prima le istituzioni finanziarie internazionali avevano imposto a malandati Paesi dell’America Latina
Sono passati 18 anni da quando l’economista John Williamson coniò l’espressione Washington Consensus per i rimedi economici che l’anno prima le istituzioni finanziarie internazionali avevano imposto a malandati Paesi dell’America Latina. Ma al raggiungimento della maggiore età l’accordo imperial- liberista si scopre debole: fiorito con Bush padre alla Casa Bianca, sfiorisce con Bush figlio al termine del secondo mandato presidenziale. La semplificazione delle reaganomics – stabilizzare, privatizzare, liberalizzare – ha ispirato per lustri le politiche riservate dalla metropoli alle periferie del mondo nel segno del capitalismo finanziario globalizzante. Adesso, nella primavera del 2008, tutti possono constatare quanto sia cresciuta la ricchezza delle nazioni. Due terzi dei 6 miliardi di abitanti del pianeta vivono in Paesi ad alto reddito o almeno ad alta crescita: 30 anni fa erano un quinto. Ma i demografi prevedono che 2 dei 3 miliardi di persone, che aumenteranno la popolazione entro il 2050, nasceranno nei Paesi poveri, dove si stenta con 2 dollari al giorno, terre senza speranza già gravate dal più crudele dei costi della globalizzazione: l’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari di base, determinata dalla domanda delle nuove classi agiate e dai bio-carburanti, perversa forma di inflazione oggetto della conferenza della Fao in corso a Roma. Gli economisti del pensiero unico si ritrovano a fare i conti con l’eterogenesi dei fini. Ancora 10 anni fa, Asia, America Latina e Russia dipendevano dal sostegno finanziario del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale. Gli Usa premevano per l’ulteriore apertura del commercio mondiale. L’Unione europea progettava la Costituzione. Oggi, alcuni Paesi emergenti finanziano buona parte del debito pubblico americano. Al Kuwait Investments Office, che nel 1988 tentò di entrare in Bp e venne respinto dalla Thatcher, si sono aggiunti a decine i fondi sovrani, alcuni dei quali hanno salvato, su richiesta, grandi banche di New York. Le compagnie occidentali detengono una quota ormai risibile delle riserve petrolifere mondiali. L’Europa ha rinunciato alla Costituzione, il Doha round segna il passo e in gran parte del mondo si elevano barriere contro l’immigrazione. Si rialzano i confini perfino su Internet dove gli indirizzi cinesi o indiani si scriveranno in mandarino e hindi. Tornerà anche il protezionismo? Sarà questo l’involontario, sorprendente punto d’arrivo del Washington Consensus? Non è detto. Ma l’idea del «meno governo c’è, meglio è» non sembra più l’opzione vincente per sostenere la crescita nei Paesi emergenti e anche in molte economie dell’Osce. La crescita ha bisogno di mercati aperti, ma il consenso alla globalizzazione non si forma naturalmente. Lo possono costruire solo i governi. La constatazione, che potrebbe anche innescare una svolta politica, sta maturando all’ombra della stessa Banca Mondiale che, con il Fondo monetario , ha promosso le politiche liberiste. Assieme a enti privati e alcuni governi, infatti, la Banca Mondiale ha finanziato una ricerca durata due anni sui Paesi emergenti per individuare quelli che dal 1950 al 2005 hanno avuto almeno 25 anni di crescita del prodotto interno lordo superiore al 7% annuo e per ricavare dalle loro storie quelle costanti che rappresentano, infine, i segreti della crescita. Il gruppo di lavoro, coordinato dal premio Nobel Michael Spence, ha colto un tale risultato in Botswana, Brasile, Cina, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Malaysia, Malta, Oman, Singapore, Taiwan e Thailandia, 13 economie alle quali si potrebbero presto aggiungere India e Vietnam. Si tratta di Paesi molto diversi per dimensione, risultati assoluti e regime politico. Ma un dato emerge dal Growth Report ( www. growthcommission. org): «I governi dei Paesi che hanno avuto la crescita più alta non sono dei puristi del libero mercato». Tanto è bastato ai seguaci di Williamson per reagire con durezza. Amity Shlaes, commentatrice di Bloomberg , paragona Spence a Sonny Bono: «Le rockstars vogliono fare gli economisti dello sviluppo per le loro ragioni e gli economisti dello sviluppo vogliono essere delle rockstars». E suggerisce un nuovo marchio, il New Delhi Consensus. L’economista William Easterly, fedele all’ortodossia della Banca Mondiale, tuona: «Le libertà politiche ed economiche sono la chiave della prosperità ». Ma le storie dei 13 miracoli sono lì a dimostrare che non esistono correlazioni precise tra la crescita e il regime politico che può essere democratico, coloniale, autoritario, dittatoriale, repubblicano o monarchico, liberale o, più spesso, interventista. E nemmeno che la crescita è irreversibile, come dimostrano le regressioni di Brasile e Indonesia. Del resto, la Commissione Spence filtra l’indagine empirica con l’esperienza di un altro Nobel, Robert Solow, di politici come l’ex segretario al Tesoro Usa, Robert Rubin, di ex presidenti di Messico e Corea, Ernesto Zedillo e Han Duck Soo, e di banchieri centrali come il cinese Zhou Xiaochuan. Ed è forse in omaggio a Zhou che il Growth Report cita più di una volta come chiave del governo dei miracoli il detto attribuito a Deng Xiaoping: « Cross the river by feeling for the stones », attraversa il fiume saltando sulle pietre, attento a non scivolare. «Sappiamo come il mercato funziona nei Paesi sviluppati, non come funziona in quelli in via di sviluppo dove in principio le istituzioni e le professioni sono tutte da costruire », ammette con modestia la commissione. Le 13 storie di successo, tuttavia, hanno cinque costanti. 1) Le economie ad alta crescita si integrano nell’economia mondiale per importare idee, tecnologie e knowhow sia aprendosi agli insediamenti delle multinazionali (Malaysia) che acquisendo licenze (Giappone) e per esportare beni e ora anche servizi perché il mercato interno, specialmente per i Paesi più piccoli, è insufficiente (le quattro tigri asiatiche hanno aumentato le esportazioni da 4,6 a 715 miliardi di dollari tra il 1962 e il 2004). Non hanno troppa fretta, però, nell’aprire il proprio mercato dei capitali. 2) Hanno bisogno di stabilità macroeconomica senza la quale vengono meno gli investimenti privati. Ci può anche essere, com’è accaduto in Corea e in Cina qualche picco di inflazione a due cifre, ma non tale da falsare nel tempo i segnali del mercato. Molti governi hanno fatto debiti, ma sempre governabili. 3) La stabilità consente di guardare al domani rafforzando la propensione al risparmio e agli investimenti. A metà anni Settanta, il Sud est asiatico e l’America Latina avevano tassi di risparmio uguali, vent’anni dopo il primo distanzia l’altro del 20%. La Cina ha risparmiato un terzo del reddito nazionale annuo in un quarto di secolo. Non a caso è il Paese che sta da decenni investendo di più. Ma gli investimenti sono alti in tutti i 13 Paesi, almeno il 25% del prodotto interno lordo, infrastrutture e telecomunicazioni, e a questi si aggiunge una spesa per l’istruzione e sanità del 7-8%. 4) I Paesi ad alta crescita hanno mercati interni magari non paragonabili ai nostri e però capaci di attrarre gli investimenti e di allocare le risorse in modo efficiente e decentrato, a cominciare dal lavoro che dalle campagne affluisce verso le città. I governi, tuttavia, hanno fatto ricorso a temporanee forme di protezione e a più forti politiche industriali e alla manovra sul cambio per sostenere le esportazioni. 5) La proiezione sul futuro, accettando sacrifici per l’oggi, la ottengono i governi credibili. Che non significa per forza democratici, ma capaci di includere i cittadini nel progetto di crescita. In Botswana, Seretse Khama si conquistò il rango di padre della patria trasferendo dalla sua tribù allo Stato i diritti sulle miniere di diamanti. Ma proprio sul fronte dell’inclusione, si aprono i problemi più seri. La povertà, infatti, è ancora diffusissima nei Paesi ad alta crescita e, in forme diverse, anche in quelli più ricchi, perché i vantaggi dello sviluppo globale non si distribuiscono con equilibrio. L’indice Gini della disuguaglianza, per dire, è salito in Cina dal 33,5 del 1990 al 46,9 del 2004 e in Brasile resta a 57 nonostante la fine della superinflazione e le politiche sociali del presidente Lula. E qui il Growth Report tocca il nervo scoperto. Certo, l’economia aperta va difesa difendendo quanti ne sopportano i disagi. Meglio tutelare le persone e i loro redditi piuttosto che i posti di lavoro resi obsoleti dal progresso tecnologico o dall’opportunità di trasferire altrove produzioni e servizi. Il modello americano, che offre livelli di sicurezza sociale inferiori a quelli europei, è materia di discussione. Ma alla fine? Alla fine: «Probabilmente bisognerà rivedere il sistema fiscale per sostenere il sistema della sicurezza sociale». Diversamente scatterà l’opzione peggiore: il protezionismo. Massimo Mucchetti