Fulvio Milone, la Stampa 4/6/2008, pagina 8, 4 giugno 2008
I carabinieri mi dissero: paga e taci La Stampa, mercoledì 4 giugno Se ne sta lì dalle 8 del mattino alle 7 della sera, con le braccia conserte e lo sguardo fisso sul capannone ridotto a un cumulo di lamiere annerite dal fumo: «Osservo il mio orario di lavoro anche ora che non ho più niente da fare», dice
I carabinieri mi dissero: paga e taci La Stampa, mercoledì 4 giugno Se ne sta lì dalle 8 del mattino alle 7 della sera, con le braccia conserte e lo sguardo fisso sul capannone ridotto a un cumulo di lamiere annerite dal fumo: «Osservo il mio orario di lavoro anche ora che non ho più niente da fare», dice. «Se loro vogliono che me ne vada sbagliano di grosso, questa è casa mia». Loro sono i Casalesi; lui è Pietro Russo, 42 anni, sposato, tre figli, proprietario di una fabbrica di materassi che «loro» gli hanno bruciato 20 giorni fa. L’attentato è l’epilogo di una lunga storia. Finito sotto estorsione, Pietro Russo ha denunciato i camorristi a un carabinieri che ha chiuso gli occhi e per questo è finito in prigione, poi ha fatto arrestare i taglieggiatori, ha riunito in un’associazione gli altri commercianti ricattati e alla fine ha visto la sua fabbrica andare in fumo. Vive sotto scorta da due anni: «Mi sento come un detenuto in stato di semilibertà, esco la mattina, vado a lavorare e al tramonto rientro ”in carcere”, cioè a casa». Tutto è cominciato sei anni fa: «Era Pasqua. Vennero in fabbrica due ragazzi. Arroganti e sbrigativi, chiesero del padrone: "Dovete mettervi a posto con Casal di Principe"». Il messaggio era chiaro: una richiesta di tangente in nome e per conto del clan dei Casalesi. «Presi tempo, ma dopo qualche giorno mi portarono in un casale in ristrutturazione. Trovai dieci uomini. Due di loro vennero subito al dunque: "Abbiamo dei problemi con la legge, dobbiamo pagare gli avvocati per i processi, facciamo 50 mila subito e 15 mila tre volte l’anno: a Natale, Pasqua e Ferragosto". Quel tono di voce che non ammetteva regole, quegli sguardi cattivi che sprizzavano arroganza e disprezzo mi facevano impazzire di rabbia più che di paura. Risposi che non avevo i soldi e che se anche li avessi avuti non glieli avrei dati. Quei bastardi risposero con un sorriso a mezza bocca: ”Vedi tu, hai un po’ di tempo per pensarci. Ad ogni modo sappiamo dove vivi con tua moglie e i tre ragazzi”». Dopo un paio di settimane Russo tornò dai Casalesi. «Dissi che volevo trattare, ma era una sceneggiata. Avevo addosso due registratori, la rabbia era tale che non percepivo neanche il rischio che stavo correndo. Per fortuna non mi perquisirono. Li feci parlare, chiesi quali garanzie di protezione avrei avuto se avessi pagato, quelli si misero a ridere: ”E che ce ne fotte a noi se ti rubano nella fabbrica? Tu paghi e basta”. Trovammo un accordo: 50 mila euro subito, e tre rate di 1.500 ogni anno che il Padreterno mi avrebbe concesso di vivere». Russo andò immediatamente dai carabinieri. «Raccontai tutto a un tenente del nucleo operativo della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere. Gli consegnai anche uno dei due registratori, ma lui me lo restituì e non mi fece firmare la denuncia. In compenso volle darmi un consiglio: ”Ti conviene pagare, in fondo la somma non è tanto alta...”. Mi sentii finito, fui sul punto di gettare la spugna. E mi sentii ancora peggio quando, dopo un paio di giorni, un amico degli amici venne da me per dirmi che i Casalesi avevano saputo della mia visita ai carabinieri. Negai tutto e accettai di pagare». Ma le cose, a un certo punto, cambiarono. Il tenente fu arrestato, al suo posto arrivò un capitano che chiese all’imprenditore se volesse ancora denunciare i taglieggiatori. Era il 2004. «Erano due anni che pagavo, non ne potevo più. Non riuscivo più a guardare negli occhi mia moglie e i ragazzi, mi sentivo un verme. Al capitano dissi che confermavo tutto, gli diedi i nastri con le registrazioni delle voci dei Casalesi. Ne arrestarono nove, finirono sotto processo e furono condannati. Quando andai in aula a deporre mi fecero il segno della croce da dietro le sbarre della gabbia». Pietro Russo aveva vinto la sua battaglia. Ma a quale prezzo? «Gli amici cominciarono a evitarmi. Qualcuno aveva perfino la spudoratezza di dirmi: ”Quelli che hai fatto arrestare, in fondo, sono persone per bene”. Mi hanno isolato, quasi fossi io il vero delinquente. Ora vivo sotto scorta, non trovo un cane che venga a prendere un aperitivo con me ma non mi lamento, perchè ho il rispetto e l’affetto dei miei figli, di mio fratello e di mia moglie. Ho paura per loro, non per me che sono sorvegliato a vista. Ho chiesto la scorta anche per i ragazzi, ma non è stata concessa. Dopo l’incendio sono venuti i politici, il prefetto, il questore, a dirmi che entro la fine di giugno avrei ripreso a lavorare. In realtà è tutto fermo, l’area dell’incendio è ancora sotto sequestro per le indagini. Ma sia ben chiaro: io non mi arrendo, da qui me ne andrò solo in una bara». Fulvio Milone