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 2008  maggio 24 Sabato calendario

Vivere col matto in casa. Avvenire 24 maggio 2008 Sua figlia aveva 18 anni quando si ammalò, nel 1981

Vivere col matto in casa. Avvenire 24 maggio 2008 Sua figlia aveva 18 anni quando si ammalò, nel 1981. La signora Laura Zardini bussò alle porte di non sa più quanti Dipartimenti di salute mentale. ’Signora, ce la porti’, era la risposta invariabile. Ma la figlia da uno psichiatra non voleva assolutamente andare. Un giorno partì per Londra, finì in una banda di squatters in una casa occupata. Il giorno che in un locale si mostrò agitata la ricoverarono in ospedale. «Soltanto a Londra, a 4 anni dall’esordio della malattia, mia figlia ebbe una diagnosi: schizofrenia. Nessuno ce l’aveva detto, perché nessun medico l’aveva mai visitata». La signora Zardini oggi ha 82 anni. Ventisette li ha passati cercando di curare sua figlia. Ha fondato l’Arap, Associazione per la riforma della assistenza psichiatrica, 2000 soci. Sua figlia oggi vive nel Nord Est, e quando prende i farmaci sta meglio. Ma spesso, dice, li interrompe, e allora il Dipartimento di salute mentale (Dsm) non interviene. «Ho chiesto che facciano almeno una telefonata per controllare se si cura. Niente. Le danno appuntamento, come farebbe un dentista. Se ci va, bene, altrimenti sono fatti suoi. Qui all’associazione – continua la signora’ io ricevo ogni giorno telefonate di famiglie che non sanno più che fare. Come ieri, una coppia di ottantenni con un figlio schizofrenico, una lunga serie di ricoveri alle spalle, che ha rotto a botte il setto nasale alla madre. Disperati, quei due poveretti si sono decisi a denunciarlo ai carabinieri. Ma lei immagina cosa sia per due genitori denunciare un figlio malato?» La presidente dell’Arap parla con pacatezza. Non c’è niente di ideologico nella sua denuncia. «Noi non vogliamo tornare ai manicomi, vogliamo che i nostri cari siano curati’, dice. «Anche quelli più difficili - tanto più si è malati, tanto meno lo si riconosce. Ci sono dei bravi operatori nei Dsm italiani. Ma quanto è difficile farli venire a casa per una visita. Quanta gente se ne resta seduta dietro una scrivania, mentre le famiglie restano sole». Cosa modificherebbe, potendo, nella legge 180? «Uno dei punti fondamentali è la brevità del Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Pochi giorni e un malato, anche aggressivo, torna a casa. Occorre qualche forma di struttura, in cui gli psicotici possano essere osservati almeno per un mese. Il paradosso invece è che in quei pochi giorni in reparto non osservano la patologia così come si manifesta, ma sedano i malati; poi li dimettono, e loro tornano a casa esattamente come prima. Certo obbligare a curarsi è difficile, ma esiste la possibilità di persuadere, se si crea un rapporto col medico. Il fatto è che dopo il Tso un malato va seguito a casa sua, non abbandonato. Noi dell’Arap nel nostro piccolo abbiamo organizzato un principio di assistenza domiciliare. Ma è un compito che spetta al Servizio sanitario ». Negli anni Ottanta, alcune associazioni familiari fra cui l’Arap raccolsero 50mila firme per la riforma della 180. ’Le portammo alla Camera. Una valigia piena di firme. Mai più saputo niente. Attorno alla legge Basaglia c’è una questione politica. La Sinistra da trent’anni sostiene che è una legge bellissima, parla al massimo di mancanza di fondi. I fondi dedicati alla legge, in effetti, non sono mai stati dichiarati. Ancora oggi, quando contestiamo le carenze del servizio, ci sentiamo rispondere invariabilmente: mancano i fondi. Ma, prima ancora, il problema della legge è ideologico. Sta nella pretesa che la malattia psichiatrica sia una malattia sociale. Lei faccia un esperimento, vada in un Dsm e racconti di avere una sorella schizofrenica. Le diranno, «Signora, se non vuol venire qui, non c’è niente da fare». A Milano hanno creato perfino un’associazione, ”Vittime della 180’. Ci sono stati dei morti. Eppure da quasi trent’anni non ascoltiamo che parole. Come le ultime ’linee guida’ del Ministero, due mesi fa. 32 pagine, cose anche belle. Ma solo parole, le stesse che ascoltiamo dagli anni Ottanta». L’anziana combattente della 180 confessa di avere anche pensato di cambiare paese, per curare sua figlia. C’è qualcosa, domandiamo, che chiederebbe oggi alla politica? «Ho qui sulla scrivania tutti i progetti di modifica di questi anni. Il progetto Burani Procaccini, e l’ultimo, il Calderoli, che prevede strutture, e fondi in bilancio. Sarebbe una riforma ragionevole. Un senatore di Forza Italia ci ha promesso di aiutarci. Speriamo. Perché, mi creda, i più abbandonati in Italia sono i malati di mente. Perché non hanno alcuna voce. Ma quanti, curati, potrebbero tornare a vivere». Zardini (Arap): non è solo una questione di fondi. Il problema della 180 è ideologico: sta nella pretesa che la malattia psichiatrica sia una malattia sociale. «Non vogliamo tornare ai manicomi, ma che i nostri cari siano curati» Marina Corradi