Alberto Provantini, Italia Oggi 3/6/2008, pagina 8, 3 giugno 2008
L’energia italiana è ferma al ’75. Italia Oggi, martedì 3 giugno Il nuovo governo ha annunciato che entro 5 anni saranno installate in Italia 4 centrali nucleari
L’energia italiana è ferma al ’75. Italia Oggi, martedì 3 giugno Il nuovo governo ha annunciato che entro 5 anni saranno installate in Italia 4 centrali nucleari. Sembra fatta. Il governo ha una larga maggioranza in parlamento, quindi può farcela. Non conosco il ministro Claudio Scajola. Non ho motivo di dubitare che faccia sul serio. Ho conosciuto altri ministri che facevano sul serio: decisero la costruzione di 20 centrali nucleari, ma dopo 33 anni non se ne è fatta nessuna. Su questo vorrei ricordare passaggi cruciali, per fornire elementi di riflessione ed esprimere una valutazione ed avanzare una proposta. 6-7 Dicembre 1975. Aula magna dell’Università di Perugia. Conferenza nazionale sul piano energetico. Ebbi l’onere di presentare la relazione a nome di tutte le regioni. Ero assessore allo sviluppo economico dell’Umbria. Venivamo dalla terribile crisi energetica del ’73. Il ministro dell’industria aveva presentato il Pen. Organizzammo quella conferenza. Vi intervennero tutti: governo, parlamento, regioni, partiti, sindacati, enti di stato, forze economiche. La conferenza fu conclusa dal ministro Carlo Donat Cattin. Presentammo una proposta per il Piano energetico in 10 punti. Articolando le proposte sul terreno istituzionale, politico e su quello tecnico ed economico. Per avere una diversificazione delle fonti rinnovabili, affrontando tanto la questione del nucleare, che quella petrolifera, del carbone, come del metano, del solare come dell’idroelettrico, dell’eloico come del risparmio energetico. Affrontammo le questioni della ricerca, della sicurezza, della salute, dell’ambiente, delle filiere, dei controlli, degli incentivi, della produzione industriale. Il nucleare era parte di un Piano generale, di diversificazione delle fonti energetiche. E dicemmo «si accetti, si purtroppo, la scelta nucleare», che era contenuta nella proposta di Piano. «Ma per le prime 4 centrali nucleari». Che secondo il ministro e secondo il presidente dell’Enel, che le aveva già ordinate doveva dare energia al paese entro il 1983. Su questo l’accordo fu generale. Luciano Barca, parlando per la Direzione del Pci, non solo concordò con quella mia proposta, ma soggiunse: «La scelta nucleare per il nostro paese è obbligata nel quadro delle differenziazioni delle fonti energetiche. Il nostro è un Sì responsabile a uno sviluppo nucleare, contenuto e controllato». Neppure Mario Capanna che parlò per il Pdup, fece obiezioni «ideologiche», come sento parlare oggi. Sulle 4 centrali l’accordo andava dal governo alle regioni, dalla Dc al Pci. La discussione, il contrasto con Donat Cattin, come con l’Enel, non era su questo, ma se si dovessero costruire 4 o 20 centrali nucleari. Sulla base di parametri che partivano dallo sviluppo dei consumi di energia elettrica degli anni ’60 dell’8% che si prevedevano oltre il 9% sino agli anni 80, si indicava questa scelta. Avemmo un confronto ravvicinato delle posizioni prima della conferenza, in un pranzo di lavoro con Donat Cattin e Barca. Ma le posizioni su questo rimasero distanti. Conclusione: né all’83, né all’85, si costruirono nè le 20, ma neppure le 4 centrali nucleari. Mi fermo a quelle date, perché nell’aprile dell’86 c’è di mezzo l’esplosione al reattore di Chernobyil. E poi nell’87 il referendum nel quale l’80% degli italiani, dopo l’effetto Chernobyl disse no al nucleare, chiudendo la partita. Una partita che tenemmo aperta. Come vicepresidente della Commissione attività produttive della Camera ho presieduto i lavori di ben 2 indagini compiute dalla stessa Commissione, sull’energia e sul nucleare, nella nona e nella decima legislatura. Le facemmo a cavallo dell’esplosione nella centrale ucraina e del referendum sul nucleare, nel novembre 86 e nel gennaio dell’89. Nonostante le opinioni di tanti scienziati, a cominciare da Carlo Rubbia, gli interventi di tanti professori, da Colombo a Prodi, di tanti politici e ministri, del nucleare non se ne fece più nulla. Non solo non si fecero le 20 discusse, né le 4 condivise, ma si chiusero quelle che c’erano. E nel mezzo ci fu la lacerante discussione con altri ministri, della economia e della industria, da Beniamino Andreatta a Filippo Maria Pandolfi sui siti nucleari: discutere su 30 siti nucleari, servì solo a far alzare il polverone in tante località dove non si fece mai nulla, ma si alimentò solo la paura. Sono passati 33 anni. Siamo a zero. Si vuole ricominciare? Si ricominci facendo tesoro di questa storia che ho sintetizzato. Se non si sono fatte quelle 4 centrali è perché in Italia è prevalsa la politica del No, dei divieti. Questo, sia chiaro, prima di Chernobyl, nei 12 anni precedenti a quella esplosione. Non sono bastate le stagioni della solidarietà nazionale, non è bastata la stagione politica in cui grandi partiti dalla Dc al Pci dissero Sì, né l’unità che andava dal sindacato alla Confindustria. Il governo è cosa più complessa e complicata. E certe cose non si fanno per decreto. Questa situazione non ha impedito solo la scelta nucleare, ma anche di costruire centrali di altro tipo, quelle che tutti condividevano. Si impedisce tutto. Si dice, giustamente con Veltroni, di aprire una stagione nuova, «del fare» appunto. Il governo Berlusconi dice di fare. Bene. Ma si parta da una verifica di ciò che si è fatto rispetto a quei 10 punti: col metano e l’acqua, col solare e l’eolico, col carbone e il petrolio. Si dica cosa si vuole fare, con le diverse fonti. Ma si dica basta con la politica dei divieti. Mi chiedo come sia possibile fare il nucleare oggi quando non si autorizzano gassificatori e termovalorizzatori. Il problema non è quello di dare assicurazione sul «rischio zero», di dire «tanto abbiamo decine di centrali nucleari alle nostre frontiere, tanto vale che ce le facciamo sotto casa, alleggerendo la bolletta». Bisogna vincere l’idea che ogni scelta deve essere fatta sotto casa del vicino, che possibilmente deve essere più lontano possibile. Ma per questo c’è bisogno di un nuovo Piano energetico nazionale, che si può concordare rapidamente tra tutti i livelli di governo, dal governo Berlusconi al governo ombra di Veltroni, dalle regioni ai comuni, tra sindacati e imprese. Di un Piano che va condiviso, approvato dal parlamento e passi nel paese. C’è bisogno di un progetto di sviluppo che parta da un’idea dell’Italia di oggi, del futuro che vogliamo. Da un’idea condivisa. Quella energetica è una delle grandi questioni di interesse generale, che va affrontata insieme. Alberto Provantini