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 2008  giugno 03 Martedì calendario

François Fejtö. Morto l’intellettuale mitteleuropeo che sollevò il velo sui Paesi dell’Est Quando arrivò la notizia che a Sarajevo uno studente serbo aveva ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando e contemporaneamente la vecchia Europa del valzer e dell’idea del progresso, François Fejtö aveva cinque anni

François Fejtö. Morto l’intellettuale mitteleuropeo che sollevò il velo sui Paesi dell’Est Quando arrivò la notizia che a Sarajevo uno studente serbo aveva ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando e contemporaneamente la vecchia Europa del valzer e dell’idea del progresso, François Fejtö aveva cinque anni. Era, per lui, quell’agosto già così denso di ultimatum e di cannoni il mese bello della vacanza sulla spiaggia di Fiume, nella grande casa neorinascimentale che apparteneva alla famiglia di sua madre. Si parlava a tavola, obbligatoriamente, il tedesco, lingua della grande borghesia ungherese; all’indispensabile francese, il latino della Mitteleuropa, provvedeva già una governante. La vacanza finì bruscamente con quel telegramma che richiamava a Budapest il padre. E con la vacanza appassì una storia, una società, una cultura. Era il mondo che questo - come lo chiamava il suo grande amico Edgar Morin - «meticcio culturale», scomparso ieri a 98 anni, non ha mai davvero lasciato. La sua Austria-Ungheria non era la prigione dei popoli. Semmai una grande famiglia promiscua e turbolenta, dove le classi alte passavano le frontiere senza passaporti in una sorta di Schengen del galateo e italiani, croati, sloveni e austriaci cugini bisbetici ma con cui alla fine si poteva trovare una intesa. Il deprecato Cecco Beppe riassumeva sotto l’ermellino la condannata grandezza di una idea-mito e il ricordo di una antica dolcezza di vivere. Era un padre sotto i cui occhi già velati da un sonno simile alla morte i figli ballavano l’ultimo valzer aspettando con golosa impazienza di morire nel fango di una trincea. Ebreo, poi cristiano, poi laico, comunista convertito all’impegno con la buona stoffa di Aron, ungherese diventato francese nel passaporto ma soprattutto nell’animo e nella lucidità intellettuale: ecco questo straordinario passeggero del secolo. Non aveva alcuna nostalgia per l’antico regime austroungarico; ne rimpiangeva semmai la stabilità che, infranta, ha lasciato spazio al nazismo con i suoi feroci vassalli e poi al comunismo e ai suoi zelanti pascià fratelli. Fu appunto nel regime un po’ folcloristico di Horthy, «ammiraglio senza flotta di un paese senza mare», che Fejtö si avvicinò al comunismo e poi ne uscì cicatrizzato. La rivista che dirigeva in quegli anni già con spirito scomodo era al contempo antistalinista e antifascista, pubblicava come antidoti Sartre, Mounier e Maritain. L’ammiraglio non fu così sottile nei distinguo, gli inflisse un anno di galera prima che trovasse rifugio in Francia. Nel 1938 a Parigi incontrò un amico di Budapest, Lazlo Rajk, che invece era rimasto comunista. Un giorno gli mostrò un dossier dei nefandi processi di Mosca. Rajk gli diede un’occhiata distratta: «Lasciami in pace. robaccia trockista!». Dieci anni dopo, quell’uomo diventato ministro dell’Interno dell’Ungheria comunista fu condannato a morte per «trockismo e titoismo». Fejtö che lavorava alla France Presse, scoperchiò, documento su documento, per la prima volta il ghigno annichilatore del «sistema». Ma per pubblicarli su Esprit dovette lottare anche con un esitante Mounier. Il suo criterio nel scegliere tra gli uomini era il rigore, l’onestà. Per questo detestava Julien Benda che aveva inventato il tradimento dei chierici, ma nel 1949 aveva applaudito la scoperta del «complotto» di Rajk; o dall’altro lato André Malraux che dopo aver letto la biografia di Stalin scritta da Souvarin aveva commentato: «Voi avete ragione, ma sarò al vostro fianco solo quando sarete i più forti». La sua Storia delle democrazie popolari (tradotta da Bompiani nel 1977), summa del dedalico impero comunista, gli procurò l’ostilità anche di Sartre. Il filosofo rifiutò di leggere il libro dichiarando che gli bastava, per giudicare, sapere che l’autore collaborava con il destrorso Figaro. Le sue relazioni sull’Est erano resoconti con la precisione lapidaria di un assegno bancario. Sapeva sempre trovare la via più breve per percorrere qualunque labirinto. Guardava, negli ultimi anni, al «secolo americano» con lo stessa disincantata lucidità che aveva riservato all’Est, deplorando che la sola mobilitazione fosse quella per i Mondiali di calcio e per Lady D. Nel 1949 aveva giurato che non avrebbe mai più rimesso piede in Ungheria fino a quando non avesse ritrovato la libertà. Infatti attese il 1989, quando ci fu la riparazione dei funerali di Stato per Nagy, eroe sfortunato della «rivoluzione» del 1956. Ma anche allora ripeté: «Non è alla mia età che si può cominciare una nuova vita». La sua unica, deliziosa bugia. DOMENICO QUIRICO, 3/6/2008 (7:27)