Vari - Raccolta di Parrini, 3 giugno 2008
Vertice Fao (Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite, nata nel 1945, sede in viale Aventino a Roma) 3-5 giugno: cinquanta capi di Stato discutono dei cambiamenti climatici e delle emergenze alimentari (presenti il presidente francese Nicolas Sarkozy, il premier spagnolo José Louis Zapatero, il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, il presidente egiziano Hosni Mubarak, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, il brasiliano Ignacio Lula, il venezuelano Hugo Chavez ecc
Vertice Fao (Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite, nata nel 1945, sede in viale Aventino a Roma) 3-5 giugno: cinquanta capi di Stato discutono dei cambiamenti climatici e delle emergenze alimentari (presenti il presidente francese Nicolas Sarkozy, il premier spagnolo José Louis Zapatero, il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, il presidente egiziano Hosni Mubarak, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, il brasiliano Ignacio Lula, il venezuelano Hugo Chavez ecc.) • Appena un mese fa il presidente del Senegal Abdoulaye Wade ha chiesto di chiudere la Fao (3.600 dipendenti, poco più della metà a Roma), che si limiterebbe a sprecare denaro. Renato Brunetta: «La Fao ha due facce. Una è quella formale e burocratica, da passerella, magari con i banchetti opulenti e gli africani in vestito da cerimonia. Però esiste anche l’altra: è l’unica agenzia globale su una materia globale. Brutta, sporca, cattiva, costosa che sia, è la sola agenzia ad avere il know how globale. La Fao conosce quanti cereali ci sono in Africa e in Asia, mercato per mercato, segmento per segmento, condizione geopolitica per condizione geopolitica. il luogo giusto per valutare. Le manca soltanto un po’ di politica decisionistica» • Nei paesi in via di sviluppo 820 milioni di persone sono sottonutrite: metà di questi affamati sono contadini, il 30% pescatori, il 20% poveri urbanizzati: più di metà della popolazione che non ha abbastanza cibo è costituita da persone che per lavoro producono cibo • Profitti 2007 delle cinque multinazionali che controllano più dell’80% del mercato dei cereali: Cargill (+36%), Archer Daniels Midland (+67%), ConAgra (+30%), Bunge (+49%), Dreyfuss (+19% nel 2006). Molto bene è andata anche ai giganti produttori di sementi, erbicidi e pesticidi: Monsanto, Bayer, Dupont, Basf, Dow, Potashcorp e anche a fabbricanti di trattori come la Case New Holland • Antonio Onorati di Crocevia (organizzazione non governativa che sostiene progetti di sviluppo in Paesi poveri): «Oggi a decidere i prezzi è la grande distribuzione, catene come Auchan o Wal-Mart. Che trattano direttamente con i produttori e incassano la fetta più grande dei prezzi finali» • Adolfo Urso, sottosegretario allo Sviluppo economico: «Servono tre cose: produrre a sufficienza per tutti, anche se questo comporta ripensare la politica comunitaria Ue; far leva sull’export di tecnologia, agricola ma anche finanziaria, per esempio con strumenti come il microcredito; rivalutare la posizione sugli Ogm, senza scelte ideologiche ma garantendo la tracciabilità e la tutela delle produzioni di alta qualità» • Le economie agricole forti (Ue, Usa, Canada e Brasile) chiedono che i membri del Wto si impegnino «a stabilire un regime agricolo internazionale più corretto e orientato al mercato, che aiuterà le economie emergenti ad aumentare la capacità produttiva». Per chi non ce la fa, è previsto un meccanismo di aiuti. Onorati: «I paesi in via di sviluppo sono costretti a un bivio. I più deboli devono ricorrere agli aiuti internazionali, che spesso sono meccanismi ideati solo per assorbire a prezzi garantiti i surplus dell’occidente. I più dinamici invece sono spinti sempre verso l’agricoltura intensiva per l’esportazione, secondo il modello iperliberista. Invece per favorire la produzione legata ai consumi locali bisogna ripensare a meccanismi protettivi» • Nel 1996 i leader del pianeta si impegnarono a dimezzare entro il 2015 il numero delle persone a rischio fame: allora erano 800 milioni, oggi sono 854 milioni • In sei degli ultimi sette anni, il mondo ha consumato più cereali di quanti ne abbia prodotti. Le stime per i raccolti di grano nel 2008 sono di una produzione di 656 milioni di tonnellate a fronte di una previsione di consumo di 630 milioni. Il margine è risicato, basterebbe un nulla, come una stagione secca, per far sì che la richiesta superi l’offerta. In Australia, che da sola vale quasi un quarto delle esportazioni mondiali di frumento, il raccolto è crollato del 60 per cento negli ultimi due anni. Una situazione climatica che ha fatto schizzare i prezzi verso l’alto e che è stata esasperata dalla decisione degli Stati Uniti e dell’Europa di puntare sui biocombustibili come prodotti alternativi al petrolio. Pascal Acot, ricercatore presso il Centre National de la Recherche Scientifique e storico dell’ecologia. «Aver premuto sul tasto dei biocombustibili ha impresso un’accelerazione netta all’andamento dei prezzi dei cereali. Dal punto di vista ecologico è stata una scelta a dir poco discutibile. Forzare il ciclo del mais usando pesticidi, irrigazione e trattori significa spendere molta energia e molto petrolio, in alcuni casi più energia e più petrolio di quanto si riesca a ottenere in cambio attraverso il processo di conversione di questi prodotti all’uso energetico. Per non parlare poi dei risultati in termini di inquinamento» • Stati Uniti e Fao hanno posizioni molto diverse sui biocarburanti: per frenare la crescita delle emissioni che minacciano la stabilità climatica, Bush propone il rilancio dell’energia nucleare e dei biocarburanti, escludendo un legame centrale tra la pressione per ricavare energia dai campi e l’impennata dei prezzi alimentari; secondo la Fao le strategie di rilancio dei biocombustibili devono soddisfare cinque requisiti: ridurre le distorsioni del mercato agricolo, aiutare la crescita economica dei paesi in via di sviluppo, garantire i diritti dei più poveri, essere ecosostenibili, venire coordinate a livello internazionale • Nel 2007, la superficie agricola destinata alla produzione di cereali è stata di 762 milioni di ettari, di cui soltanto sei milioni destinati a colture per biodiesel. Sono i numeri di un’elaborazione dell’Unione Produttori Biodiesel, l’associazione di Confindustria che rappresenta i produttori di biodiesel nazionali, basata sui dati della Toepfer International, società per il commercio agricolo internazionale. Maria Rosaria Di Somma, direttore generale dell’Unione Produttori Biodiesel: «Questi numeri parlano da soli. Bisogna sfatare il fatto che il biodiesel sia in alcun modo responsabile della crisi alimentare, provocata invece da altri fattori quali l’andamento climatico sfavorevole, la riduzione degli stock cerealicoli e i mutamenti nelle abitudini alimentari sia in Cina che in India». Lo stesso rapporto Ocse-Fao ha evidenziato che nel 2006 il deficit di cereali di Nord America, Europa e Australia è stato complessivamente di 60 milioni di tonnellate, quattro volte quante ne sono state impiegate per produrre etanolo. Il dato però è destinato a peggiorare. Nel 2006, gli agricoltori americani hanno destinato al biocarburante il 16 per cento del loro granturco. Nel 2007 si è arrivati al 30 per cento e a questa quota, grazie agli incentivi della Casa Bianca, è destinato a restare per i prossimi cinque anni, sottraendola all’uso alimentare • Non sono dunque solo il biocombustibile e la siccità a spingere i prezzi, ma certo vi contribuiscono attivamente. Gli altri fattori vanno ricercati nei due colossi asiatici, India e Cina. Vent’anni fa, questi due Paesi, insieme, importavano cibo dall’estero per una cifra equivalente a poco meno di un quarto delle vendite internazionali degli Stati Uniti, il maggior esportatore mondiale. Oggi, assorbono dall’estero l’equivalente di quasi metà delle esportazioni americane. Una parte consistente del mercato interno cinese si sta rivolgendo ad alimenti diversi da quelli tradizionali: la domanda di riso, mais, frumento in Cina, rispetto agli anni 90, è in netto calo. Contemporaneamente, il consumo di carne è aumentato del 50 per cento. E mangiando carne si usa, indirettamente, un’enorme quantità di cereali perché l’allevamento è un settore vorace da questo punto di vista. Il peso di questi Paesi è destinato ad aumentare sempre di più: la Fao calcola che, nei prossimi dieci anni, rispetto a quelli appena trascorsi, i Paesi emergenti importeranno il 25 per cento in più di frumento, il 16 per cento in più di granturco e soia, il 100 per cento in più di carne bovina, il 50 per cento in più di polli e il 70 per cento in più di latte in polvere. E i prezzi? Da qui a dieci anni, la Fao prevede prezzi più alti del 20 per cento per il frumento, del 40 per cento per il granturco, dell’80 per cento per il riso. Assai più contenuti (10-15 per cento) saranno invece i rincari di carne e pollo • La Cina va a caccia di grandi terreni agricoli da comprare in tutto il mondo, per garantire che potrà sfamare la sua popolazione anche in caso di iperinflazione e crisi dei raccolti. Dall’America latina all’Africa, dall’Asia all’Oceania, la nuova strategia punta a risolvere uno dei più gravi problemi di lungo periodo: la sicurezza alimentare. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao hanno registrato con allarme i disordini scoppiati in molti paesi vicini (dalle Filippine all’Indonesia) per la penuria di riso. Nella stessa Cina l’inflazione dei generi alimentari è ai massimi dagli anni Ottanta, con punte del 50% per la carne di maiale. Il carovita è al primo posto fra le preoccupazioni della popolazione - ben più del Tibet o delle Olimpiadi - e può far vacillare la stabilità del regime. La Repubblica Popolare non rischia certo le carestie che la affliggevano ai tempi di Mao Zedong. Oggi è una superpotenza anche nell’agricoltura. il primo produttore mondiale di grano, riso, patate, prodotti ortofrutticoli. Ma i grandi numeri dei raccolti nascondono uno squilibrio progressivo. I consumi interni esplodono, con il boom economico una quota crescente di famiglie può permettersi una dieta alimentare sempre più ricca. Nel 1985 i cinesi consumavano in media 20 chili di carne a testa in un anno. Nel 2000 il consumo di carne era balzato a 50 chili pro capite. Tra dieci anni secondo la Fao i cinesi mangeranno più di 70 chili di carne a testa. L’allevamento del bestiame assorbe una quantità sempre maggiore di cereali. In molte commodities agricole - dal grano al riso - la Cina ha smesso di esportare; per la soia è diventata così dipendente dall’estero che importa già il 60% del suo fabbisogno. Nel lungo termine non può farcela da sola. Entro le frontiere della Repubblica Popolare vive oggi il 21% della popolazione mondiale ma la sua agricoltura ha solo il 9% delle terre arabili del pianeta. La scarsità di superficie coltivabile nasconde un altro vincolo, perfino più drammatico: la mancanza di acqua, aggravata da inquinamento e desertificazione. La Cina ha solo l’8% delle riserve di acqua potabile del pianeta; un terzo della superficie nazionale è fatta di deserti e le zone aride continuano a ”rubare” territorio di anno in anno. Di qui il piano per partire alla conquista dei ”granai del pianeta”. una direttiva preparata dal ministero dell’Agricoltura: Pechino spinge le grandi società agroalimentari cinesi a investire nell’acquisizione di superfici coltivabili in tutto il mondo. Potranno contare sul sostegno dello Stato, finanziario e diplomatico, per superare le resistenze dei governi stranieri e accaparrarsi terreni agricoli. Contatti politici sono in corso con il presidente Lula per spianare la strada a maxiacquisizioni di terre in Brasile. La nuova strategia si proietta su tutti i continenti, gli obiettivi potenziali sono tanti. Il Brasile e l’Argentina per soya, zucchero, mais. La Nigeria per miglio, semi e arachidi da olio. Indonesia e Malesia per riso, legname, palme da olio per i biocarburanti. Australia e Nuova Zelanda per gli allevamenti di bestiame e la produzione di latte. Gli uffici commerciali delle ambasciate cinesi all’estero hanno mappe dettagliate dei raccolti più importanti per ogni paese. Dal Messico all’Uganda alla Birmania, la Cina è pronta a subentrare ai latifondisti pubblici e privati • L’altro fenomeno che preoccupa i leader cinesi è la ”finanziarizzazione” dei mercati agricoli. Gli hedge fund sono entrati in forze nella speculazione sui futures dei raccolti. Nel solo mese di marzo sul Chicago Stock Exchange si sono scambiati contratti futures per 21 milioni di tonnellate di soya: più del doppio dell’anno scorso. Come per il petrolio, anche per le commodities agricole ormai agiscono potenti fenomeni di anticipazione. La finanza scommette sugli scenari di aumenti dei consumi mondiali, e attraverso il gioco sui futures le previsioni al 2020 fanno schizzare al rialzo i prezzi del 2008. La ”bolla” delle anticipazioni è un meccanismo dal quale la Cina vuole riuscire a ripararsi, mettendo al sicuro dalla spirale speculativa i raccolti dei prossimi anni. Il modo migliore è allungare le mani su nuove terre in America latina, nel sudest asiatico, in Africa, diversificando le produzioni e l’esposizione ai rischi climatici • «La semplice verità è che la fame sta vincendo perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare. La Fao, la Chiesa e altri ancora si ostinano a credere che 6-8 miliardi di persone consentano uno sviluppo ancora sostenibile. No. Più mangianti si traducono oggi in più affamati. I 30 mila bambini che muoiono di fame ogni giorno li ha sulla coscienza chi li fa nascere» (Giovanni Sartori sul Corriere del 9 giugno 2002, autocitazione sul Corriere del 6 maggio 2008).