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 2008  giugno 05 Giovedì calendario

Un solo killer, sette errori. Panorama 5 giugno 2008 L’uomo che rischia di mandare a catafascio la giustizia italiana è un tunisino di 43 anni

Un solo killer, sette errori. Panorama 5 giugno 2008 L’uomo che rischia di mandare a catafascio la giustizia italiana è un tunisino di 43 anni. Di corporatura e altezza medie, discreta cultura, modi garbati, Ezzedine Sebai vive oggi in una piccola cella del carcere di Augusta, vicino a Siracusa, insieme con un connazionale. Ogni mattina si alza alle 4 per la prima preghiera, poi sistema la branda e prepara il tè. Di pomeriggio studia da perito elettrotecnico. Questo detenuto modello è uno degli assassini più spietati mai visti in Italia. il serial killer delle vecchiette. Sebai ha confessato dopo anni gli omicidi di 15 anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997: tutte vedove, vestite di nero, sgozzate nelle loro abitazioni. Gli ricordavano, dice, le donne che da bambino abusavano di lui. Ma il tunisino sconta l’ergastolo solo per cinque delitti. Per altri due è stato assolto, quindi non sarà più processato. Per quattro le indagini non sono mai partite. Mentre in altri casi sono stati puniti sette presunti innocenti, tre ancora in galera. Una vicenda drammatica e kafkiana, fatta di dubbie condanne, processi lentissimi, magistrati che indagano su se stessi, avvocati pronti a chiedere risarcimenti milionari. Il più clamoroso errore giudiziario mai visto in Italia: questo rischia di diventare la storia del killer delle vecchiette. In carcere dal 1997, sempre proclamatosi innocente, Sebai a luglio del 2005 ha un rigurgito di coscienza. Si pente. Chiede di parlare con un magistrato. Ma viene ascoltato solo il 10 febbraio del 2006. Fornisce dettagli che solo i veri assassini possono conoscere. Si intesta anche quattro omicidi per cui sono state giudicate colpevoli sette persone, che si dicono innocenti. La procura di Taranto, dopo le nuove confessioni, decide di riaprire i casi. Sebai è rinviato a giudizio nel giugno del 2007. Ma i processi, se tutto andrà bene, non cominceranno prima del 2009. Intanto i fratellastri Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi, braccianti agricoli quarantacinquenni, restano in carcere. A maggio del 1997 li arrestano a Castellaneta. Sono accusati dell’omicidio di Pasqua Ludovico, 86 anni, sgozzata con 12 coltellate. I carabinieri la trovano nella sua camera da letto, in un lago di sangue. Da una cassapanca mancano dei soldi, una pistola calibro 6,38 e un pacchetto di munizioni. Faiuolo e Orlandi hanno precedenti per rapina, i sospetti si concentrano su di loro. Vengono portati in caserma. A uno dicono che l’altro l’ha accusato, poi fanno il contrario. Confessano, ma due giorni dopo, alla convalida del fermo, ritrattano: si sarebbero incolpati a vicenda solo per le percosse subite. Non ci sono impronte digitali. Sugli abiti non c’è sangue. Nessun testimone, manca l’arma del delitto. Ma pesa la prima versione, la mancanza di un alibi e una confusa intercettazione. Vengono condannati a 16 anni. «Erano i colpevoli più facili. Due disgraziati semianalfabeti crollati dopo enormi pressioni» sostiene l’avvocato Claudio Defilippi, che difende i fratellastri. «Le parole di Sebai hanno innescato un errore giudiziario seriale, che nessuno ammette. Intanto ci sono innocenti in galera. Se sarà acclarata l’ingiusta detenzione, lo Stato dovrà pagare una somma enorme». Dopo l’autoaccusa del tunisino, l’inchiesta sulla morte di Pasqua Ludovico viene riaperta. Dei nuovi accertamenti è incaricata Pina Montanaro, lo stesso pm che ha raccolto le prove contro Faiuolo e Orlandi. Il magistrato, in pratica, è costretto a indagare sulla sua stessa indagine. La nuova ipotesi presuppone la colpevolezza del tunisino e l’innocenza dei fratellastri, che sarebbero in galera ingiustamente. Ma basta la parola di un serial killer spietato e controverso per scagionare due rei confessi? Il tunisino per anni ha proclamato la propria innocenza: perché bisognerebbe credergli? Potrebbe essere un mitomane, uno che vuole passare alla storia come assassino seriale. Uno che mescola bugie a verità. Quei particolari che snocciola agli investigatori potrebbe averli letti sui giornali. O gli sono stati raccontati dai veri colpevoli, che può aver incontrato in prigione. condannato all’ergastolo. Non ha niente da perdere, lui. Dubbi leciti, su cui la procura di Taranto, scrupolosamente, cerca di fare chiarezza. Le nuove dichiarazioni di Sebai vengono verificate. Il tunisino afferma di aver viaggiato in treno e di aver raggiunto a piedi la casa delle vittime. Il 10 luglio 2006 i carabinieri lo conducono alla stazione ferroviaria di Castellaneta. Deve arrivare nella casa dove viveva Pasqua Ludovico. L’esperimento serve a capire se conosce i luoghi dei delitti. Scrivono i carabinieri nella loro relazione: «Sebai, muovendosi a piedi con sicurezza, individuava senza alcuna difficoltà l’abitazione della vittima, che riconosceva immediatamente». Non è però l’unico elemento che rafforza la versione del tunisino. Sebai racconta di aver rubato una pistola e dei proiettili, poi di averli nascosti a Cerignola, nella casa dove vive in affitto, dentro un calzino bianco. Dieci anni dopo, i carabinieri verificano: l’arrugginita 6,35 e le cartucce sono nello stesso posto. Dieci anni dopo, Sebai è rinviato a giudizio. Michelina Faiuolo racconta che ora il fratello spera. Lei lavora in campagna come bracciante, lo stesso mestiere che faceva Vincenzo prima dell’arresto. «Voleva uccidersi. Adesso chiede dei nipoti. Ma anche se arriverà la verità, la sua vita è distrutta». Sebai si è accusato pure del delitto di Maria Valente, 84 anni. Viene uccisa a Palagiano, nel Tarantino, la mattina del 28 luglio 1997: 24 coltellate alla gola. Per l’omicidio sono condannate tre persone della stessa famiglia. Il presunto autore materiale, Giuseppe Tinelli, è ancora recluso a Taranto. All’epoca minorenne, era avvezzo a piccoli reati. Prima confessa, poi ritratta, ora spera che il tunisino possa scagionarlo. La madre, Carmina Palmisano, 59 anni, è considerata la mandante: 8 mesi di carcere, 1 anno e mezzo ai domiciliari, ora è a casa. Sua figlia Arcangela sarebbe stata il palo. Condannata a 10 anni, è uscita di prigione a dicembre. Ha 29 anni, è vestita di rosa dalla testa ai piedi. La licenza media non l’ha presa, non ha mai lavorato. «In caserma hanno cominciato a minacciarci» ricorda. «’Se non parli resti in galera per sempre” dicevano. Avevo paura e ho confessato» spiega in un italiano stentato. Anche per questo omicidio il perno delle accuse sono le iniziali ammissioni. Per il resto non c’è un’arma, un’impronta, una testimonianza decisiva. Chiaro invece il movente, secondo i giudici: i soldi della vittima. Ma dalla casa di Maria Valente non mancava una lira. E i Tinelli i loro problemi economici li avevano risolti: qualche mese prima avevano ricevuto un risarcimento di mezzo miliardo per la morte del capofamiglia, un netturbino, travolto da un camion durante il servizio. Giuseppe Tinelli è in carcere anche per un altro dei 15 delitti di cui si è incolpato il killer tunisino. Celeste Commessatti, 83 anni, viene uccisa a Palagiano, Taranto, il 14 agosto 1995. Anche per questo omicidio sono condannate due persone, oltre a Tinelli. Uno è il trentenne Davide Nardelli. uscito dal carcere a dicembre, dopo 7 anni. Oggi gira per Taranto su un’Ape azzurra. Una foto di Padre Pio campeggia nell’abitacolo. Sul cofano, con l’adesivo nero, c’è scritto: «Ritiro rottami». Il suo racconto è uguale agli altri. Troppo, viene da sospettare. «Ho confessato dopo 14 ore di botte» ricorda. «Non c’erano prove, ma avevano deciso che ero colpevole. I miei zii giurarono che erano con me all’ora del delitto, ma non vennero creduti». Anche su questo assassinio Sebai si dilunga in particolari. Descrive la casa, le modalità dell’omicidio. Chiarisce di aver venduto la refurtiva a un ricettatore di Taranto, detto «Silviuccio». Particolare riscontrato dalle indagini. Oltre a Nardelli viene condannato a 26 anni Vincenzo Donvito. I familiari lo sentono per l’ultima volta il 18 luglio 2005: il giorno del suo 38º compleanno, il decimo passato in carcere. «Sto male, non ce la faccio più. Sono innocente. Non è giusto, non è giusto...» ripete alla madre. L’indomani, Donvito si alza prima del solito, taglia con cura l’orlo del lenzuolo, in modo da farne una fune di cotone. Attacca un’estremità a una sbarra della finestra. L’altra la stringe attorno al collo. Sale sulla sedia, poi la scalcia via. I secondini lo trovano morto un’ora dopo. Antonio Donvito, 72 anni, all’epoca del delitto, era il custode del cimitero di Palagiano e fu uno dei primi a vedere il cadavere. Continua a pensare al suicidio del figlio. «Non sopportava più di essere considerato un assassino. Aveva cominciato a scrivere alle famiglie del paese, per spiegarsi». La morte di Donvito, dice Luciano Faraon, l’avvocato di Sebai, è diventato un peso enorme sulla coscienza del tunisino. «Solo in quel momento si è reso pienamente conto di come stava rovinando la vita a persone innocenti» spiega Faraon. «Confessare per lui è stata l’unica maniera per trovare un po’ di serenità». Da novembre, dopo 10 anni di galera, è libero anche Cosimo Montemurro. il 5 aprile 1997 quando la sua vita scivola su un inaspettato crinale. Il giorno prima porta la bara del santo alla processione di Massafra. Qualche ora dopo è arrestato. Lo accusano di aver ucciso la zia, Grazia Montemurro, tagliandole la gola. Il nipote viene condannato a 18 anni. Adesso lavora in prova. I suoi avvocati, Camillo De Luca e Ignazio Dragone, hanno ottenuto la scarcerazione. Montemurro fa il fruttivendolo, indossa un camice azzurro. Parla anche lui di confessione estorta. Un ritornello che, pure nel suo caso, non convince la procura. «Ho parlato dopo 14 ore: un pestaggio terribile» sostiene, mentre si aggiusta sul naso occhiali troppo grandi. «Contro di me non c’era niente. Mia zia era come una madre. Aveva messo da parte pure i soldi per il mio matrimonio. Dovevo sposarmi il 10 dicembre 1997». Pure per questo caso Sebai è stato rinviato a giudizio. Dalla stazione ha raggiunto la casa della vittima. E Sario Chiarelli, un prete di Massafra, dice di aver parlato con il tunisino il 30 marzo 1997. Sebai, nei giorni del delitto, era a Massafra. Un altro indizio di colpevolezza? Sette condannati, tre restano in carcere. I loro avvocati hanno chiesto la revisione dei processi. La Corte d’appello di Potenza ha risposto di attendere il giudizio del Tribunale di Taranto. Che però non ha fretta. L’8 maggio 2008 c’era l’udienza preliminare per i quattro omicidi, ma è stata rinviata al 14 ottobre. Faraon chiedeva il rito abbreviato. Il giudice non si è presentato per un improvviso impedimento. ANTONIO ROSSITTO