Marco Bel Politi, La Stampa, Tuttolibri, 31.5.8, 1 giugno 2008
MARCO BELPOLITI
Il signor Luis, la vittima, possiede un paio di scarpe gialle e invece di lavorare siede la mattina, in orario d’ufficio, su una panchina. Maigret che indaga sul caso, ordina a uno dei suoi collaboratori di andare a sedersi su quella panchina e di osservare la gente. Il commissario è un appassionato di panchine e sa che ogni sedile ha i suoi habitués che lo occupano nelle medesime ore del giorno. Una volta, chiacchierando con una mamma su una panchina nei giardini di Place d’Avers, mentre aspettava di andare dal dentista, egli ha scoperto senza volerlo le tracce di un assassino. L’ispettore incaricato di sedersi sulle panchine non capisce bene cosa vuole il suo capo. Chiede se deve fare una retata. No, gli risponde Maigret, siediti sulla panchina e attacca discorso con la gente che c’è lì. E dicendolo si capisce che avrebbe voluto essere al posto dell’ispettore.
Beppe Sebaste, che racconta la breve trama d’avvio di Maigret e l’uomo della panchina, nel suo libro Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne (Laterza, pp. 175, e 9), aggiunge che anche Simenon, il padre di Maigret era un appassionato di panchine, capace di scrivere un romanzo all’aperto mentre aspettava la sua donna di turno che fa lo shopping lì vicino. Di certo nei romanzi di Simenon c’è un’attenzione alla vita quotidiana delle persone, ai volti, ai gesti, agli atti e alle manie che solo un appassionato di panchine, osservatore incallito, può possedere.
Su un’altra panchina di Parigi, città in cui le panchine hanno una presenza fondamentale, siedono i tre protagonisti di Come and go, il breve testo teatrale di Beckett del 1965: tre donne su una stretta panchina al centro della scena sotto una luce fioca. Parlano tra loro, a due a due, e sempre della terza, assente in quel momento. Anche Vladimiro ed Estragone, i protagonisti del più famoso testo dello scrittore irlandese, Aspettando Godot, si siedono su una panchina. Si tratta di una interpretazione registica, ma assai plausibile: il loro dialogo alla fine del mondo, comico e tragico insieme, può essere ambientato lì.
Le panchine descritte da Sebaste in questo racconto, che è anche una autobiografia e un breve trattato sul metodo, sono dei luoghi contemporaneamente dentro il mondo e fuori dal mondo: ponti e porte, interstizi, pieghe spazio-temporali, spazi magici, luoghi di sospensione. La panchina è un oggetto strano. Probabilmente è entrato nella nostra civiltà attraverso i giardini, una versione elaborata e differente della panca, per molto tempo l’unico strumento, con lo sgabello, di cui gli uomini disponevano per sedersi. Le sedie, almeno sino alla fine del Medioevo, erano infatti oggetti legati al potere e alla sacralità, riservate a re, imperatori e immagini sacre. Non è un caso che le sedie siano comparse solo nel XV secolo, in corrispondenza con il diffondersi dell’individualismo borghese. Le panche sono invece oggetti collettivi, composti da un piano orizzontale in legno e da quattro piedi; ci sono panche nei giardini romani, ma è solo con la nuova architettura dei giardini, a partire dal XVI e XVII secolo, che le panchine appaiono là dove l’otium si sostituisce al negotium, e la cultura dell’attesa, della contemplazione ha la meglio sui traffici, i commerci e gli scambi.
La panchina è lo strumento migliore per coltivare la «vita solitaria», e tuttavia la panchina è anche un oggetto collettivo. Questo doppio aspetto - singolarità e collettività - attraversa tutto il libro di Sebaste. La panchina consente, scrive, la massima invisibilità. Seduti lì si diventa di colpo un elemento del paesaggio, come se questo arredo pubblico avesse la proprietà di fare scomparire. L’uomo o la donna sulla panchina è chiunque, ma anche nessuno. La panchina consente la familiarità con lo sconosciuto, permette lo scambio verbale, anzi lo esige, per quanto a volte lo possa anche respingere. Seduti sulle panchine tutti noi somigliamo alle bianche sculture in gesso di Segal: anonimi eppure personali.
Sebaste sfrutta questa doppia identità della panchina, ne fa l’elemento d’ambiguità del suo racconto. La panchina è una macchina del tempo: lo fa perdere, che è, in modo paradossale, l’unico modo che abbiamo oggi per guadagnarlo. Isola di quiete e di pace, sulla panchina ci si bacia, si legge, si conversa, s’attende. L’attesa, poi, sembrerebbe lo scopo fondamentale della panchina: attesa di qualcuno o di qualcosa, sospensione temporale che è però anche uno stare nel tempo.
Oggetto ambivalente, compare in tantissimi film e romanzi: Edward Norton, il protagonista della Venticinquesima ora di Spike Lee, siede su una panchina in compagnia del suo cane nel suo ultimo giorno di libertà, malinconico e depresso; Marcovaldo agogna la panchina nell’omonimo racconto di Italo Calvino, spazio di solitudine dentro la città, ma anche oggetto conteso da tante differenti persone. E ancora, Woody Allen aspetta l’alba in compagnia di Diane Keaton sotto il Queensborough Bridge in Manhattan. Su una panchina siedono i primi due personaggi che compaiono in Il Maestro e Margherita, poco prima che il Diavolo in persona faccia la sua terribile comparsa; e con una panchina si apre Bouvard e Pécuchet di Flaubert, romanzo della «stupidità» moderna, ma anche Stan Laurel e Oliver Hardy, due grulli che abbiamo tanto amato, siedono sulle panchine in molte comiche.
L’elenco di Sebaste è lungo e dettagliato, ma non si tratta di un elenco inerte. Lo scrittore vuole mostrarci l’importanza della panchina in un momento in cui rischia, come succede in certe città del Nord Italia, di scomparire a seguito di ordinanze di sindaci, per paura degli immigrati, dei nomadi o delle bande giovanili che fanno di questo elemento architettonico il luogo preferito d’incontro e di sosta. La panchina per Sebaste è uno spazio liminare, eppure decisivo, una di quelle «realtà» apparentemente inutili, ma invece assolutamente decisive per la nostra stessa socialità. Senza le panchine, scrive, il mondo non sarebbe davvero più lo stesso.