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 2008  maggio 30 Venerdì calendario

Per Nini Briglia da parte di Giorgio Dell’Arti. Primo modo per capire. Un modo per capire il terremoto di Umbria e Marche è quello di andare in Alessandria e farsi raccontar bene l’alluvione del 6 novembre 1994

Per Nini Briglia da parte di Giorgio Dell’Arti. Primo modo per capire. Un modo per capire il terremoto di Umbria e Marche è quello di andare in Alessandria e farsi raccontar bene l’alluvione del 6 novembre 1994. Mentre la terra trema e c’è da confortare i senzatetto, non si può pretendere che la gente ragioni e racconti. Ma tre anni dopo si possono forse soppesare i pro e i contro di una catastrofe. Anche i pro? Anche i pro. Una catastrofe può avere dei pro? Può averli. Sono rimasti soldi. C’è poi anche questo: in Piemonte, a ricostruzione praticamente finita (e rapidamente finita), s’è visto che si sono risparmiati molti soldi. Non vogliamo farla troppo complicata: i comuni hanno costruito con parsimonia e hanno adesso a disposizione un centinaio di miliardi avanzati sugli undicimila stanziati dallo Stato; le imprese hanno chiesto in prestito meno denaro di quanto ci si aspettasse e si possono quindi ancora ottenere mutui al tre per cento per un importo complessivo di circa mille e cinquecento miliardi. Lo si dice sempre avendo a mente i terremotati dell’Umbria e delle Marche, gli ultimi disastrati della serie, a cui queste agevolazioni si potrebbero girare. Storia dell’alluvione. In due parole, la storia dell’alluvione è questa: tra il 4 e il 6 novembre del 1994 caddero in Piemonte, e in particolare sull’asse fluviale del Po, del Tanaro, della Bormida, del Belbo duecento millimetri di pioggia. Il 6 novembre, domenica, verso l’una dopo pranzo, il Tanaro ruppe gli argini con un boato che tutti percepirono come un colpo di cannone: una massa d’acqua alta fino a quattro metri si rovesciò nelle strade, coprì le automobili parcheggiate, entrò nelle case, devastò i salotti e le camere da letto, in certi quartieri che stanno sotto il livello del fiume (per esempio gli Orti di Alessandria) arrivò a coprire il pavimento dei secondi piani. Le città o i paesi devastati furono 750. I morti tredici. Vasca da bagno. Quanta acqua vi arrivò addosso durante l’alluvione? «Seimila-seimilacinquecento metri cubi al secondo». Quant’è un metro cubo? Una vasca da bagno? «No. Calcoli che una qualunque stanza tre per quattro fa quaranta metri cubi» (Paolo Boccardo, geometra, presidente del Coordinamento Comitati alluvionati). Orti. Il quartiere del Cristo, sei metri sul livello del mare, si salvò. Gli Orti, nella parte nord della città, 82 centimetri sul livello del mare ma sotto il livello del fiume, fu il più colpito. Mario Torgani, commercialista, assessore all’Alluvione: «Gli Orti sono un quartiere ottimo, rinomato. Abito anch’io qui. Una delizia. Villette col giardino, che una volta erano appunto orti. Meraviglioso. Prima dell’alluvione le case andavano anche a 250 mila a metro quadro, che da noi è molto. E non si trovavano, pensi. Io presi un rudere da ristrutturare a centoventi milioni». Lo stesso Torgani ci conduce in visita, lungo la via Poligonia, la via Bellini, la via Cabruna, la via XXVIII marzo. In via Penna c’è effettivamente un magnifico orto, curato dal signor Giovanni Simone, molisano, che si trasferì qui tanti anni fa per star dietro al figlio. In via Penna le fogne scoppiarono tutte. Il quartiere è davvero ridente, le vie strette e bianche, civettuole e minute, con i villini colorati come certe casette che vedevamo sui sussidiari della prima elementare. La grazia che aleggia su tutto, specie ora che c’è il sole, è aumentata dalla coscienza che gli abitanti del luogo vengono senz’altro chiamati - architetti o ingegneri che siano - ”ortolani”. Albero. Qui agli Orti il signor Perin, via Magellano 13, rimase aggrappato all’albero del giardino per quattro ore mentre l’acqua carica di rabbia gli schiumava sotto. Nuvole nere gli passavano basse sopra la testa. Tuonava. In cima alla villetta, incuranti del vento e della pioggia, la moglie e la figlia gridavano disperate. Dal tetto del civico 16 i vicini accendevano e spegnevano le pile sperando che gli elicotteri li vedessero e salvassero il signor Perin. Dopo che il fiume se lo fu portato via, dopo che l’acqua tornò indietro e il fango fu spurgato, la madre e la figlia fecero tagliare l’albero. Il giardino è adesso un semplice prato silenzioso, con qualche cespuglio. Busta. La vecchietta che fu trovata con la busta degli spiccioli in mano, a un paio di chilometri da casa, dove il fiume l’aveva sbattuta. Cartello. In via Bellini 61, una casa giallissima, il signor Rullo, usciere della Provincia, rimasto senza soldi mise un cartello enorme fuori della finestra: «Ho finito i fondi!». Rimborsi. In via Penna 13, il signor Ferruccio Mangiarotti, pensionato col maglioncino rosso («è lo stesso maglioncino della foto sui giornali d’allora?» «No, ne ho centinaia!»), uno yokshire che abbaia al cancello, racconta che da lui l’acqua arrivò a due metri e settanta. Ha avuto una settantina di milioni per ricostruire e adesso un rimborso Iva di 14 milioni. Pertiche. Il signor Mangiarotti: «Il fango copriva tutto e gli uomini con gli stivaloni di gomma ci ficcavano dentro delle pertiche di ferro per sondarlo e sentire se sotto, supini sul marciapiede, c’eran cadaveri». Fango. Il signor Dario Pavanello, 36 anni, commerciante di orologi, assessore alla Protezione civile, leghista: «Il lunedì mattina l’acqua cominciò a defluire, il mercoledì il fiume era completamente rientrato nel suo letto. Restava però il fango che non se ne andava. Con il fango combattemmo fino a gennaio e in un certo senso combattiamo ancora oggi. Ogni tanto troviamo ancora pezzi di fango, lunghe strisce cementate nelle cantine». Pullman. In viale Milite Ignoto la ditta di trasporti Arfea ha lasciato allineati venti pullman sventrati dall’acqua. Sedili rivoltati, vetri sfondati. Per terra, uno strato di fango originale 1994, ondulato e duro come cemento. Sui finestrini del guidatore, che s’affacciano sul viale e possono essere visti dagli automobilisti fermi al semaforo, pubblicità nuova di zecca delle ditte Due Erre Mobili, Euroedil, Parrucchieri Ferraroni. Gasolio. Pavanello: «Sul fango c’è da dire ancora questo: era misto a gasolio, perché le caldaie e i serbatoi per i riscaldamenti non erano a norma». Cioè erano fuori legge? «No, fuori legge no. Non erano a norma. La 626 veniva prorogata di continuo, di modo che non era ancora illegale non mettersi a norma. Sostanzialmente si trattò di questo: una delle disposizioni specifiche della 626 prescriveva che i serbatoi del gasolio fossero sempre tenuti ermeticamente chiusi. Ma tenerli chiusi è scomodo, bisogna andar giù a controllare il livello con la bacchetta, poi vanno ripuliti, insomma non c’è mai una ragione per tenerli davvero chiusi. E chi va a pensare all’alluvione? Così l’acqua entrò in tutti i serbatoi delle caldaie e ne uscì fuori col gasolio che galleggiava in superficie. Quando rifluì, ci restò attaccato dappertutto questo fango misto a carburante, che aveva perciò anche un odore dolciastro e acuto, l’odore che sento ancora dappertutto, guardi, in cantina certe volte non riesco neanche a scendere...» Autospurghi. La signora Norma, moglie del pensionato Ferruccio Mangiarotti, via Penna 13: «Ho visto i terremotati alla tv, poveretti, poveretti, meglio l’alluvione del terremoto, il terremoto mai...». Loculi. Peggio il terremoto o l’alluvione? «Peggio il terremoto. Sa che crollano pure i loculi dei cimiteri? Si scoperchiano le tombe». In Umbria è successo? «No, mi pare di no. Però può succedere. Son problemi». Lei in Umbria c’è andato? «Sì, a Nocera. Poi son tornato qui. Poi riparto stasera alle undici. I miei stanno giù. Siamo in collegamento continuo». Che glien’è parso? «Son cose difficili. Le roulottes sono ancora quelle dell’Irpinia, che sono state tutti questi anni a Novi Ligure o negli altri depositi. Non c’è esperienza. Arrivano le tende e i volontari non sanno come montarle, oppure gli spiazzi dove sistemarle sono scelti all’ultimo momento o anche non si trovano le prese della luce. Tante difficoltà minime e il terremoto ci scopre impreparati. Qui da noi non s’aspettavano il fango. E per togliere l’acqua ci fu anche il problema delle pozze, cioè dei punti più bassi dove, anche a deflusso avvenuto, l’acqua restò a stagnare come in un’enorme pozzanghera». Per esempio? «Per esempio l’Ospedale, ha i parcheggi in basso e tutto un piano terra operativo. Se n’andò il fiume e restò questo lago». Chi sono gli uomini migliori durante la calamità? «Alla fine i contadini. Non hanno problemi col fango, perché sono abituati a irrigare. Nessun problema neanche con la vanga e col badile. Agli studenti gli vengon le veschiche dopo mezz’ora. E poi il trattore per i contadini è un mezzo normale» (Marco Bologna, sindaco del comune di Piovèra). Riniti. «La Usl constatò un aumento di riniti e di infezioni alla gola e al naso, e ipotizzò che fosse dovuta alla polvere di fango, che quando s’era seccato era duro e si sbriciolava e noi lo respiravamo» (Pavanello). Soldi. Come avete fatto con la gente senza casa, bisognava dargli da mangiare, riscaldarla? I viveri non dovevate acquistarli? Specie nei primi giorni sarà stato difficilissimo. I soldi dove li avete presi? Non potevate di sicuro averli a disposizione. Quanto personale avevate? «All’inizio alla Protezione civile erano in tre. Dopo diventarono un centinaio, dei dipendenti comunali vennero trasferiti d’urgenza. Poi c’erano i volontari dell’Associazione Radioamatori e del servizio emergenza radio, più la Croce Rossa, la Croce Verde e centinaia di altre persone sparse, che si prestarono a dare una mano». Il primo provvedimento preso? «La chiusura delle scuole. Non si poteva camminare ed era inutile tenerle aperte. Poi i locali ci servivano. Per il resto il sindaco fu nominato subito commissario, grazie alla 225, e perciò eravamo autorizzati a spendere». In che senso? «Potevamo spendere. Firmavamo dei pagherò, pezzi di carta con i quali acquistavamo merce e promettevamo di pagare». Controlli? «Nessuno. Volendo avremmo potuto rubare. I soldi andavano via a fiumi. Solo per l’affitto degli elicotteri, nei primi due giorni, spendemmo 35 milioni. Nei primi dieci-dodici giorni due miliardi». Sempre col sistema dei pagherò? «Sì». A che servivano gli elicotteri? «Soprattutto per le carogne di animali. Portammo via un cinquemila carcasse. La Oxon di Mezzana Bigli (Pavia) regalò le tute e le maschere antigas. Uno dall’elicottero si calava giù appeso per i piedi, legava le bestie per gli zoccoli, erano tori o vacche o cavalli, poi si tiravano su e si portavano all’inceneritore». E per i viveri? «Alcuni supermercati, come la Esselunga, la notte tra il 6 e il 7 novembre aprirono i magazzini. C’era un direttore giovane. Dissero: prendete tutto quello che vi serve, acqua, viveri, non vi preoccupate. Li abbiamo pagati dopo un anno. Centralizzammo la mensa in piazza d’Azeglio. Facemmo altri punti di ristoro: agli Orti, al Mercato ortofrutticolo, alla Cri, nelle scuole. Adoperammo le cucine militari della caserma Valfrè. Mille e cinquecento persone a cucinare...» Il problema del fango. «L’acqua, defluendo, lasciò in mezzo al fango una quantità enorme di detriti. Prima dell’alluvione stavamo per chiudere la discarica di Castel Ceriolo. La innalzammo invece di cinque metri. Il fango era prima liquido e poi diventava cemento. Per lo spurgo abbiamo impiegato per vari mesi duecento autobotti. Per gli scarichi in discarica migliaia di camion. I camion prendevano 60 mila lire a viaggio e per lo scarico cento lire a metro cubo. Alla fine avremmo speso una decina di miliardi. Le ditte che facevano gli spurghi prendevano 130 mila lire l’ora più Iva». Tangenti? «Un solo caso. Un tizio di Roma. Venne e disse: così e così... cioè, se gli facevamo fare gli spurghi ci prometteva soldi. Era anche piuttosto arrogante. Lo mandammo via...» Lei è leghista? «Ci sono stati anche casi all’incontrario: il ministro dell’Interno ci ordinò di regalare a quelli che avevano perduto tutto una lavatrice, un frigorifero, un tavolo, un letto, una cucina, quattro sedie. E dove le prendiamo? Andate sul mercato! Andammo sul mercato e scoprimmo la Iar di Occimiano che ci regalò mille lavatrici. Lei mi chiede se sono leghista e so perché me lo chiede, ma non c’entra. E’ andata davvero così, e l’unico che voleva la tangente veniva da Roma. E il ministro dell’Interno era Maroni. Fu formidabile: varò subito il decreto di 80-90 miliardi e disse: spendete tutto quello che serve, calcolate quant’è e fatecelo sapere» (l’assessore alla Protezione civile Pavanello). Maroni. Problema numero uno della protezione civile. «La mancanza di un ministro». Perché? «Perché un ministro ha i soldi. Un ministro con il portafoglio, cioè, che può attingere al Bilancio dello Stato». Non basta il ministro dell’Interno? «Dipende. Se è un ministro sensibile come quello dei nostri tempi...». Chi era il ministro dell’Interno allora? «Maroni». Che significa in questo caso la parola ”sensibile”? «Fece subito il decreto straordinario. Trasmise subito il potere ai sindaci». Che potere? «Quello di progettare e appaltare i lavori baipassando la legge sugli appalti». Napolitano non è stato sensibile? «Napolitano e Prodi qui non li abbiamo mai visti. Li abbiamo invitati e ci hanno praticamente risposto: abbiamo altro da fare». Costa? «Ah, il ministro dei Lavori Pubblici. Ci ha convocati a Torino. Ci ha spiegato che avremmo dovuto operare con la legislazione ordinaria senza far ricorso ai decreti d’emergenza. Beato lui». Barberi? «No, Barberi è un’altra cosa. Ho molta stima di Barberi» (Francesca Calvo, insegnante di Diritto, sindaco leghista di Alessandria). Barberi. «Barberi è stato formidabile. Le banche volevano fare le banche, volevano le garanzie. Ma io, ditta, che garanzie ti posso dare, non vedi che ho perduto tutto? Barberi prese per il cravattino quelli dell’Abi: uilà, fratelli... Alla fine mollarono, ma non creda che non ci abbiano guadagnato fior di quattrini. Le imprese hanno preso i mutui al tre per cento, ma lo Stato ha messo il resto. Le banche si sono beccate il 14,5 per cento di interessi sull’alluvione, mica da ridere». Quali banche? «Aspetti, un consiglio agli imprenditori dell’Umbria: appoggiatevi alle banche locali, che almeno vi conoscono. Da noi è andata molto meglio l’Artigiancassa. Il Mediocredito, con le sue burocrazie, ci ha fatto diventare pazzi» (Mario Torgani, assessore all’Alluvione) Tacchi a spillo. Chi c’era prima di Barberi? «Non me lo ricordo. Ah, sì: la Fumagalli Carulli, venne a vedere l’alluvione con i tacchi a spillo! Ah, ah! Mi si dice che ora è passata a Rinnovamento: avrà saputo che forse Dini diventa presidente del Consiglio. Ah, ah!» (Giancarlo Borromeo, assessore ai Lavori Pubblici, leghista). Fango. «A parte Barberi, la Protezione civile è un esercito di burocrati e basta. Sa che erano meravigliati del fango? L’acqua defluì e restò uno strato di fango alto così, che ci portammo dietro per mesi. Loro erano sorpresi. Dissero: ”Toh, il fango”. Dico io: non avrebbero dovuto saperlo fin da prima? Che quando va via l’acqua resta il fango? E che quello è un problema gravissimo?» (Borromeo). Funzionari. «Sa cos’hanno tutti i funzionari dei ministeri o degli uffici? Che son poco pratici e molto teorici. Tutto quello che dicono funziona finché non succede niente. All’emergenza poi... Barberi è d’accordo, sa? A me ha detto: fosse per me, ne manderei via quattrocento, basta che me ne facciano assumere dieci come dico io» (Marco Bologna). La sicurezza del fiume. «Sono stati stanziati migliaia di miliardi per la messa in sicurezza di tutto l’asse fluviale. Ma i cantieri si aprono solo ora. Ha idea di che lavoro è?» No. «Si tratta di spostare tre milioni di metri cubi di terra per ricalibrare il fiume». Il fiume adesso è come tre anni fa? «Identico». L’alluvione potrebbe tornare? «In ogni momento. Anzi, è già tornata. L’anno scorso, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre, Borgo Cittadella s’è trovata sotto mezzo metro d’acqua. Cioè: l’acqua è entrata nelle case e ha coperto tutto per mezzo metro». Qui però avete ricostruito, in definitiva l’Italia deve aver funzionato. «Si metta in testa che l’Italia è incardinata sulle municipalità. Finchè il potere è ai comuni, tutto fila liscio. Quando bisogna passare attraverso altre burocrazie son dolori. Noi abbiamo fatto tutto e siamo in ritardo solo sulle fognature. E sa perché? C’è la Regione di mezzo, le acque pubbliche sono di competenza regionale». Significa che i soldi per fare certi lavori ve li deve dare la Regione? «Le autorizzazioni. La Regione ci dà le autorizzazioni a fare certi lavori, in base ai progetti che presentiamo. Per esempio, qui i campi sono attraversati da tanti rii, fiumiciattoli, poco più che canali. Una volta su questi rii si costruivano dei ponticelli in mattoni, negli ultimi anni bastava buttarci su dei tubi, che poi magari venivano rivestiti. Roba semplice, campagnola. Ma la Soprintendenza ha preteso il ripristino. Il ripristino! Ma non era mica Michelangelo! Abbiamo perso per questa stupidata almeno due mesi». Me ne racconti un’altra. «Sarebbe stato bello allargare un po’ i rii, in modo da renderli più sicuri. Il concetto è questo: più il corso d’acqua è largo, più è difficile che straripi. Si sarebbe semplicemente trattato di espropriare delle strisce da un metro di qua e di là dal rio. Ma la Soprintendenza non ce l’ha permesso. La Soprintendenza è interessata solo al ripristino. E siccome prima dell’alluvione quel certo rio era stretto, abbiamo dovuto lasciarlo stretto». Me ne dica un terzo. «La storia dell’airone cinerino. Alla confluenza di Tanaro e Bormida s’era formato un isolotto di detriti. Il Magispò aveva progettato di demolirlo, perché i detriti fanno da tappo, rallentano il corso d’acqua, facilitano la salita del livello e quindi l’inondazione. Ma la Soprintendenza ha preteso che per la demolizione si aspettasse la fine della cova dell’airone cinerino che va a depositare le sue uova proprio lì. Altri mesi buttati via. E meno male che ce l’hanno lasciato fare». Non è giusto difendere l’airone cinerino? «Quando c’è di mezzo l’alluvione, no. Quando ci sono cinquantamila senza tetto, non ci si occupa di San Francesco. Chi se ne frega degli affreschi. Capisco che i frati hanno da prender soldi col turismo. Ma le ripeto: chi se ne frega. Se non si vede un campanile del Trecento, se ne vedrà un altro del Quattrocento». Lei è stata giù? «In Umbria? Ancora no. Ci andrò sabato. E mi secca». Perché? «Andiamo come Consiglio Nazionale dell’Anci, l’associazione dei comuni. Mi secca perché andiamo a dar fastidio, hanno tanti problemi e arriviamo noi a portare la cosiddetta solidarietà, cioè a far discorsi. E intanto loro, che avrebbero ben altro a cui pensare, sono costretti a ospitarci, darci da mangiare, farci star comodi, eccetera» (il sindaco di Alessandria Francesca Calvo). Tappo. «Là, dove c’è il Ponte della Cittadella si formò il tappo. I tronchi, portati giù dalle acque, andarono a sbattere sotto le arcate, si intrecciarono e bloccarono l’un l’altro, formarono un formidabile muro di alberi e rami, una diga. Inoltre il letto del fiume è più alto d’un tempo, non si porta più via il pietrisco, la ghiaia. Ecco perché il letto si alza e viene la piena» (Mario Torgani). Sul fiume. Ezio Grillo, pensionato, già vigile urbano integerrimo e assai conosciuto, fiumarolo da tutta la vita: «Da giovane, i tronchi venivano giù lungo il fiume e a prenderli si vendevano bene perché a quel tempo la gente si scaldava con la legna, si vendevano anche a mille lire il quintale. Adesso i tronchi non li prende più nessuno, così s’accatastano sotto i ponti e fanno venire l’alluvione. Andavamo con questo strumento qui che non ha nemmeno un nome (è un pezzo di legno con un chiodo ben piantato in cima, una specie di rampino) e lo ficcavamo nei tronchi, poi i tronchi ce li portavamo fino a riva. Se il tronco era troppo grosso, quando stavamo vicino alla riva lo tagliavamo col mannarese o faussòn (va nella rimessa a prendere il faussone, in pratica è un’ascia). In barca ci son andato sempre con il mio amico Grassano Alessandro, via Donizetti. Il Grassano è un fiumarolo così esperto che quando dovettero costruire il ponte sul Tanaro, per far la bretella di Alessandria della Milano-Torino, chiamarono lui e lui andava in barca con gli ingegneri. Gli ingegneri, dei cervelloni grandi così. Ma il Grassano Alessandro, in barca con loro, infilava la pertica in acqua, toccava il fondo e diceva sicuro: questa è ghiaia! questa è sabbia! Gli bastava sentire il fondo. Così costruirono il ponte sapendo dove piantavano i piloni». Che cosa dice dei lavori sul fiume? «Non dico niente, a parte questo: non ci consultano a noi che viviamo sul fiume da cinquant’anni. E come mai no? Domando a questi ingegneri che hanno fatto progetti sul fiume: lo sanno che il Tanaro a destra è meno forte che a sinistra? Vale a dire: va più piano?». Perché? «Perché a valle del Ponte della Cittadella c’è l’isolotto di ghiaia che gli rallenta la destra». C’entra con l’alluvione? «Sì, c’entra. A valle del Ponte della Ferrovia, tanti anni fa, c’era un avvocato che aveva una draga. Dragava il fiume di continuo e tirava su centinaia di tonnellate di ghiaia al giorno. A un certo punto ha dovuto dar via la draga: la ghiaia non si può più togliere, se no, dice, si rovina il fiume, l’ambiente. La ghiaia era buona per l’edilizia, il fiume la dava gratis, adesso la vanno a prendere alle cave che son dei privati. Solo che il Tanaro porta giù da Col di Mare, da Ceva, da Ormea un sacco di roba, ghiaia pietrisco, centinaia di tonnellate. E la massa di roba s’accumula e favorisce la piena, e la piena prepara l’alluvione». L’ambiente è buono? «Si pescavano bene i cavedani, i barbi, le lasche. Si guardava la superficie del fiume e dove c’era un certo tremolìo dell’acqua, tremolìo da destra a sinistra, quella era la pastura, cioè i pesci che mangiavano. Ci mettevo reti da due metri e mezzo, se ero in servizio ci mandavo la figlia a metterle. Adesso non c’è più niente perché qualcuno ha portato i siluri dalla Russia e li ha buttati dentro pensando che erano bei pesciolini. Invece quelli son cresciuti e si mangiano tutto. Il Grassano ha preso un siluro da 50 chili ». Mi hanno detto che lei critica i lavori al Ponte degli Orti. «Hanno fatto una prismàta per proteggere il depuratore. Non serve a niente». Come bisognava fare? «Non bisognava mettere il depuratore dove l’hanno messo». Sulla carta. «Guardi questa carta, è il fiume. Vede questa linea? E’ il letto del fiume di una volta». Era tre volte più ampio. «Sì. Al Ponte della Cittadella, per esempio, c’erano una volta 160 metri tra le due rive e adesso sono quaranta. La quantità d’acqua però è sempre quella». Dove sono finiti i 120 metri che mancano? «Coltivati a pioppi». Perché? «Il pioppo si vende milletrecento lire a miria, cioè 10-13 mila lire al quintale». Che cosa ci si fa? «Un sacco di roba. Soprattutto la carta». Ah, allora è colpa dei giornali. «Mica solo. Va moltissimo anche per fare gli imballaggi, i pallets, sa» (Paolo Boccardo). Sindaci. «I sindaci sono solidali con Barberi. In questi giorni che tutti lo attaccano abbiamo fatto un comunicato di solidarietà. Eccoglielo, ciclostilato e firmato da tutti: ”Ingiustamente attaccato da alcuni esponenti politici”, ”le popolazioni del Piemonte [...] hanno potuto apprezzare le capacità professionali oltre che l’umanità e la sensibilità del Prof. Franco Barberi sin dai primi giorni del suo incarico con l’allora governo Dini [...] l’impegno profuso instancabilmente [...] L’impegno costante, instancabile, determinato, evidenziato dai fatti e non dalle parole ha fatto sentire vicino alle popolazioni la presenza delle Istituzioni nel tempo, al di là dei primi momenti quando è facile per tutti, soprattutto a parole, evidenziare i problemi fomentando le polemiche. Una cosa è certa: alle popolazioni colpite da una calamità non servono persone che sfruttando un momento di grave angoscia, anzichè unire le forze per risolvere le impellenti necessità, utilizzino questi gravi momenti a scopo essenzialmente politico”, eccetera». E’ uscito sui giornali? «Noi lo abbiamo mandato. Sa che cosa mi fa rabbia?» Che cosa? «Che noi qui abbiamo accumulato tanta esperienza, sappiamo come si scrivono le leggi per i disastrati, al governo i testi glieli abbiamo scritti in gran parte noi, sappiamo come bisogna organizzarsi per distribuire i soldi e gli aiuti... E nessuno ci chiama, nessuno ci adopera, nessuno tiene conto che abbiamo una voglia matta di mettere a disposizione di tutti quello che abbiamo imparato sulla nostra pelle...» (Torgani). Paesi. Marco Bologna: «Qui c’è tanta acqua che ci viene addosso da sempre. Le dirò solo questo. Io sono sindaco di un posto - settecento abitanti - che si chiama Piovèra...». Piovèra, Pioverà... «Appunto, è Piovèra, ma è come se fosse Pioverà. Qui dietro c’è un altro comune: si chiama Isola e ha una frazione denominata Inferno. Non so se rendo l’idea. Ma aspetti: a metà dell’altro secolo c’era anche un paesello che aveva nome Sparvara. Piovve quattro giorni di seguito, il Tanaro straripò come al solito e si portò via le case, non ne rimase in piedi neanche una. Tornò il bel tempo e i contadini ricostruirono Sparvara. Ma gli cambiarono nome. Indovini come la chiamarono?» Non posso indovinare. «La chiamarono Alluvioni. Anzi, per la precisione: la chiamarono Alluvioni Cambiò. Le sembra possibile?» Mi sembra impossibile. «Il comune di Alluvioni Cambiò. Incredibile. Se ha tempo, glielo faccio vedere».